Morte di sera, bel tempo si spera

1
Mi chiamo Morte, la cosa che amo di più è la vita. La tua. La sua. Prima o poi saranno mie, ma non te la prendere, eh, è il mio lavoro.
Il mio lavoro mi piace, tutti dobbiamo averne uno se vogliamo mangiare e a me è toccato questo. Ha i suoi alti e i suoi bassi, dipende anche dal mio umore.
Quando non ho nessuna voglia di uscire dal letto, ma mi tocca per forza andare a lavorare, stai sicuro che prenderò la forma di uno scheletraccio vecchio e giallo e mi trascinerò in giro la mia falce preferita, bella grossa e rilucente, così scintillante che ti ci puoi specchiare. Se invece mi sveglio arzilla, allora salto giù dal letto, prendo le forme di una bambina con le trecce lunghe o di un gattone dai baffi dritti come antenne e me ne vado zompettando per il mondo, da un lavoro all’altro.
Oggi è una giornata così, una di quelle in cui i problemi non si risolvono nemmeno a pregarli, anzi, si complicano sempre di più, hai presente?
Una di quelle giornate stanche in cui ti trascini da un “devo fare questo” a un “devo fare quello”, finché non decidi che non ne puoi proprio più di provare e riprovare a far funzionare le cose.
«E di chi pensi che sia la colpa?»
«Stai zitto tu che non sei migliore di me!»
«Se ti decidessi a fare la Morte tutta d’un pezzo...»
«Zitto ho detto!»
«E invece piagnucoli come un essere umano.»
«Zitto!»
Infilo un dito dentro la mia orbita destra e frugo finché non trovo Verme Verde e gli do un cricco che lo fa rimbalzare sull’osso occipitale.
Vado a casa a spaparanzarmi sul divano e nessuno mi tirerà più fuori di casa fino alla prossima guerra, che si arrangino. Lo so che Verme Verde ha ragione, questa mattina c’è davvero mancato poco che cedessi.
Appena sono comparso nel salotto del tizio che dovevo portare via, quello si è buttato a terra in ginocchio.
«Ti prego, abbi pietà di me!»
Non ha fatto altro che piagnucolare e implorarmi.
«Regalami la mia vita, ti prego!»
Ma come dovrei fare io? Non mi chiamo Morte per caso.
«Per favore, per favore,» diceva quello strisciando sul pavimento tra le patatine untuose sparse ovunque.
Devi ammettere che una scena del genere piegherebbe il più cattivo dei cattivi, il più perfido dei perfidi. Farebbe venire sensi di colpa e ripensamenti a chiunque; figurati a me che ho la lacrima facile!
«Per favore, per favore, ho ancora tante cose da fare nella vita!»
«Mi prometti che la smetterai di stare tutto il tempo davanti a uno schermo?»
«Lo prometto, lo prometto,» squittiva il tizio in ginocchio tra le patatine crocchianti.
«Mi prometti che farai ginnastica tutti i giorni e mangerai sano?»
«Lo prometto, lo prometto,» piagnucolava il tizio e mentre piagnucola cosa fa? Si infila una manciata di patatine spiaccicate in tasca.
Non sopporto chi cerca di fregarmi.
L’ho lasciato stecchito tra le briciole, così impara a sbafarsi tutta quella roba.
So io quello che mi ci vuole per tirarmi su: pop corn e una serie. Anzi, mi guardo tutta l’ultima stagione di Dark, dalla prima all’ultima puntata.
Sì, sì, sì, me ne vado a casa cascasse il mondo…
Chi piange? Lo riconoscerei tra mille lamenti: questo è il tipico singhiozzo da perdita fresca, la disperazione di una dipartita improvvisa. Roba di prima qualità, se avessi un cuore salterebbe di orrida gioia.
Però, aspetta un momento, oggi non ho avuto appuntamenti in questa strada, ne sono certa, fammi dare un’occhiata all’agenda che la memoria non è più come quella di una volta.
Per la morte di un pidocchio secco! Avevo ragione: non sono stata qui né oggi né da un bel po’, anzi, sarebbe proprio ora che venissi a farci un giretto. Allora, qualcuno mi sta rubando il lavoro! Penso al mio divano color melanzana, grande come un transatlantico, penso alla mia ciotola formato vasca da bagno da riempire di pop corn. Sento Verme Verde che sospira e uno sbuffo mi fa solletico all’orbita sinistra. Se me ne andassi dritto a casa e fingessi di non aver sentito niente, magari nessuno se ne accorgerebbe agli Uffici Funerari Centrali.
«Sogna, bella!» ridacchia Verme Verme. «Quelli hanno occhi ovunque. Facciamo prima ad andare a vedere.»
«Hai ragione V.V.»
«E non chiamarmi V.V., lo sai che lo odio!»
Infilo un dito nell’orbita destra per dare un cricco a V.V., ma lui è più veloce di me e mi dà un morso fortissimo.
«Ahio, restituiscimi immediatamente la falange distale!»
Verme Verde sputa il mio ossicino fuori dalle cavità nasali, lo afferro al volo e lo rimetto al suo posto.
Lascio che le mie braccia si allunghino in ali e si ricoprano di piume nere, poi mi faccio una volatina di ricognizione: sotto l’albero di un giardino, un bambino piange su della terra smossa.
Vuoi vedere che gli hanno fatto fuori i genitori. Deve essere un decesso gemellare per una fontana di questa portata. Ma se non glieli ho fatti fuori io, chi è stato? Urge un’indagine accurata.
Plano verso il basso e non appena tocco terra mi spuntano due trecce nere complete di fiocchetto finale a pois.
«Perché piangi, bambino?»
«Ciuffo è andato in cielo.» Non fa in tempo a finire di dirlo che sta già annaffiando di nuovo il giardino con quella riserva infinita di lacrime che ha nascosto da qualche parte.
Finirà disidratato se continua così, ma sento già un pizzicorino dalle parti dei dotti lacrimali che non ho: se li avessi farei proprio la figura della Morte rammollita.
Alzo lo sguardo verso la chioma dell’albero e verso le nuvole che giocano a nascondino con il sole: di Ciuffo neanche l’ombra.
«Chi è Ciuffo?»
Il bambino tira su col naso con un rumore da lavandino intasato; se avessi uno stomaco starebbe facendo capriole e salti mortali all’indietro.
«Ciuffo è il mio cane,» mi spiega il bambino. «Ieri mattina quando sono andato a scuola c’era e poi quando sono tornato non c’era più.»
«E come fa un cane ad andare in cielo?» Spunteranno le ali pure ai cani? Bah, non l’ho mai sentita questa, ma si sa che con le invenzioni di oggigiorno...
«Mamma dice che quando qualcuno è molto vecchio e stanco a un certo punto va in cielo e noi non possiamo vederlo più.» Nuovo fiume di lacrime, nuovo risucchio di naso, di quelli da vomito subito.
Torno a scrutare il cielo pieno di dubbi, poi capisco. Sono un po’ lento lo so, ma anche il ragazzino non è che parli chiaro e io alle metafore ho bisogno di pensarci.
«Stai cercando di dirmi che Ciuffo è morto insomma, defunto, deceduto, kaputt, andato?»
Al bambino trema il mento e i suoi occhi tornano a riempirsi di lacrime, ma riesce a non farle traboccare. «La morte è schifosa.»
Devo ammettere che ne ho sentite di peggio, ma nessuna è mai stata pronunciata con una sincerità così tagliente.
Io prendo chi devo, questo è il mio lavoro, che ci posso fare? Di solito sono vecchi contenti di vedermi, mi aspettano e saltellano dal sollievo mentre mi avvicino. Altre volte sono giovani e non hanno nessuna voglia di conoscermi. Mi tocca ascoltare lunghi discorsi sul perché e sul percome dovrei girarmi dall’altra parte e tornare un’altra volta, anzi, magari non tornare proprio più. Ascolto impaziente mentre dentro di me faccio la lista della spesa o penso che mi piacerebbe andare al mare a mettere i piedi tra le onde, poi quando non c’è più tempo, acciuffo i perditempo e me li porto via.
Alcuni mi chiamano, ma io non rispondo. Altri hanno paura di me e allora li prendo alle spalle, così non se ne accorgono. Non vengo a comando, vengo solo al momento giusto.
Da me non si scappa, arrivo di sera, di mattina, con il sole e con la pioggia. Qualche volta mi faccio annunciare, altre volte colgo di sorpresa.
«Come ti chiami?»
«Tomer.»
«Oh, che nome divertente che hai!» Mi sporgo in avanti per osservare il bambino più da vicino. L’avrà fatto fuori lui Ciuffo? Con un nome del genere potrebbe essere una spia del Ministero della Morte Annunciata.
Mentre lo squadro una treccia mi scivola giù dalla spalla e gli sbatte sulla testa. In un secondo ho ripreso le mie sembianze di scheletraccio giallo, cappa nera, orbite vuote e falce in pugno. Quel che ci vuole per un bambino in lacrime su una tomba fresca. V.V. sbuffa così forte che dentro al cranio sento la eco.
«Sei tu!» Tomer non scappa urlando come una scimmia impazzita, non salta come un coniglio col singhiozzo e nemmeno cade a terra come un mucchio di stracci sporchi. Mi fissa curioso e immobile.
Dopo qualche secondo comincio a sentirmi a disagio. Perdo sempre quando si gioca a chi ride prima e infatti, come al solito, mi scappa una risatella che si trasforma in una sghignazzata. Più cerco di rimandarla indietro e più forte esce. Mi volto dall’altra parte e lascio uscire tutte le risate che mi si sono accumulate tra le giunture, torno a guardare Tomer solo quando sono sicura di aver ridacchiato a sufficienza.
«Sei tu, la morte schifosa.» Mi punta contro un dito e mi faccio indietro, neanche avesse sfoderato una spada laser.
«Piano con le parole, ragazzino.» Lo dico e sbatto la falce a terra, qualche foglia dell’albero ci cade sulla testa in risposta. «Morte è il mio nome, ma non sono affatto schifosa. Sono inevitabile, però.»
«Ti odio,» sputa Tomer con l’aria da assassino professionista. «Ciuffo era l’unico amico che avevo.» L’assassino si scioglie in un oceano di lacrime, di nuovo, finirà rinsecchito come una mummia se continua così. Di nuovo sento un pizzicorino dalle parti dei dotti lacrimali.
«Dai, vieni qua, Tomer.» Torno a prendere la faccia e il corpo della bambina con le trecce e lo abbraccio. «Di Ciuffo è scomparsa solo la parte meno importante, sai. Ci sono ancora i ricordi, i sentimenti e tutto quello che ha fatto nella vita.»
Tomer alza lo sguardo, tira su dal naso un paio di volte e poi se lo soffia nella mia cappa nera lasciando una scia viscida e fosforescente come se fosse passato un esercito di lumache. «Chi rimane ha il compito di non dimenticare, chi se ne va ha il compito di aver fatto del suo meglio fino al mio arrivo. Ognuno ha il proprio lavoro, vedi?»
«Ciuffo era il cane migliore di tutti, veniva insieme a me da tutte le parti.»
«Tutte tutte?»
«Tutte.»
«Anche in bagno?»
«Anche in bagno.»
Rabbrividisco: se potessi fare pipì non vorrei mai un cane che sta a guardarmi. Anche se devo ammettere che lo capisco Tomer, se V.V. scomparisse…
«Smettila di fare il sentimentale. Scopri come è morto il cagnaccio e andiamocene a casa!»
«Ascolta, Tomer, Ciuffo...»
«Adesso sarò solo, tutto per colpa tua, Morte schifosa!»
Mi viene un nervoso, ma un nervoso quando mi dicono schifosa, peggio che altre parolacce. Mi fa pensare al gelato sciolto, al catarro giallo e alle guance rosate di un neonato. Rivoltante.
«Sarò pure schifosa come dici tu, ma ci hai mai pensato che cosa succederebbe se io non lo fossi?»
Tomer rimane perplesso e sembra pensarci per davvero. Passano i secondi e lui continua a scrutarmi come se all’improvviso dovesse uscirmi la risposta scritta in fronte. Spero che V.V. se ne stia buono e non faccia una delle sue scenette da divo.
Come ti ho già detto, io al gioco di chi ride prima non me la cavo proprio e così ricomincio a ridacchiare.
«Oh, insomma, non farmi ridere. Se io fossi carina e gentile finirebbe che tutti si butterebbero tra le mie braccia, persino tu.» Tomer si ritrae schifato, tenendo le mani in alto come se fossero piene di fango. «Esatto, non ti piace molto l’idea, eh?! Se io fossi fresca come il mare e divertente come il Luna Park, il mio lavoro diventerebbe facile come mangiare un pasticcio di ragni. E invece no, sono alta e invalicabile come l’Himalaya, creo problemi a tutti e me ne frego di quello che dice la gente. Non ascolto nessuno e vado avanti per la mia strada.»
Questo, almeno, è quello che cerco di fare da qualche milione di anni.
«Ma scusa, Morte, se non ti va di lavorare perché non la smetti? Non credo che qualcuno si lamenterebbe.»
«Non ho sempre voglia di lavorare, figurati, qualche volta vorrei starmene per i fatti miei senza vedere nessuno. Una volta sono andata in vacanza, mi ero proprio rotta le scatole di farmi insultare, nessuno apprezza mai quello che faccio. Ogni tanto serve un piccolo complimentuccio, una rassicurazioncella, un incoraggiamentino, capisci?»
Tomer fa su e giù con la testa e si spazza il naso con la sua di manica questa volta.
«Sei andata al mare?»
Annuisco. «Al Triangolo maledetto, ma è stato un vero casino.» Mi copro la bocca con la mano, non sono abituata a parlare con i bambini.
«E gli uomini non erano contenti?»
«All’inizio erano felicissimi, ma sai cosa succede se io non lavoro?»
Tomer scuote la testa. Come potrebbe saperlo, l’ultima volta che sono stata in vacanza c’era ancora Tutankhamon! «Che la gente non si diverte più. Fare festa li annoiava perché nessuno più gli diceva che era ora di smettere.»
«Non potresti far rivivere Ciuffo? Solo per questa volta, ti giuro che non ti chiederò mai più niente.»
Sbuffo, sono proprio tutti uguali questi esseri umani, non importa nemmeno la misura: grandi o piccoli dicono tutti le stesse sciocchezze. «Insomma, Tomer, non hai capito niente della mia storia?»
«Tu fai solo morire e non riporti in vita nessuno?» Il mento del bambino torna a tremare e i suoi occhi si annegano di nuovo.
«Lascia perdere, dai, vedrai che quando smetterai di piangere, ti ricorderai solo cose belle del tuo cane.»
Tomer appoggia una mano a terra e poi una su di me. «Sei una Morte schifosa.» Mi spinge, cado e sbatto le ossa su una pietra appuntita. Ahio, che male. Intanto Tomer se la dà a gambe verso casa, neanche avesse la Morte alle calcagna. Non riesco a resistere e ridacchio di nuovo. Poi mi ricordo della tomba di Ciuffo. «Riposati cagnolone, me ne vado a casa a guardare Dark, me lo sono proprio meritato. Della tua morte fuori programma me ne occuperò domani.»
Almeno tu l’hai capito che a Tomer stavo parlando della vita?
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Linda e la montagna di fuoco
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