Fiaba russa
Posted: Sun Jan 03, 2021 8:31 am
Vasilisa si alzava tutti i giorni prima dell’alba. Sorrideva sentendo il sole che si arrampicava dall’altra parte del pianeta per sbucare a illuminare il suo bosco. Vasilisa ridacchiava tra sé e sé, mettendo anche una mano sulla bocca per non farsi sentire. “Se lei sapesse: il mio bosco! Mi prenderebbe a frustate,” pensava la ragazza legandosi i capelli in una coda stretta. “O forse no, forse mi rimanderebbe a casa e basta.”
Devi sapere che Vasilisa portava il nome della più bella delle belle di tutte le fiabe russe, l'eroina per eccellenza; in tutte le storie Vasilisa non solo era la più splendente delle ragazze, ma affrontava avventure incredibili da cui usciva sempre a testa alta, spesso in groppa a un cavallo e con un bel principe al suo fianco. Ormai da molti, moltissi anni, Vasilisa viveva nel bosco con Baba Jaga, la strega del bosco, la signora della foresta: era passato così tanto tempo da quando era partita da casa sua, che non era sicura di ricordarsi più il viso dei suoi fratelli. Per una qualche ragione, stava bene nella casa volante di Baba Jaga, le zampe di gallina che le facevano da base non la spaventavano più e, per una qualche ragione, a lei Baba Jaga non faceva alcuna paura.
Quando Vasilisa era piccola, sua mamma era partita per un viaggio lungo ai confini della Terra. Non pensare che ti stia prendendo in giro, non era morta, era proprio partita per un viaggio, perché era un’avventuriera. Vasilisa, che voleva essere come la mamma, poco tempo dopo aveva infilato gli scarponi foderati ai piedi, il cappotto con la pelliccia, aveva preso una sacca con alcune cose più o meno utili e si era inoltrata nel bosco ammantato di bianco.
Con il nome che le avevano dato era sicura di stare andando incontro a grosse avventure, a un amore romantico che avrebbe vinto su tutto e a lunghe cavalcate con il Re dell’Inverno. Affondava nella neve alta a cuor leggero in uno degli inverni più freddi che la Grande Rus' avesse mai visto. Dai rami ritorti pendevano grappoli di ghiaccioli aguzzi, gli alberi gelati si lamentavano sotto il peso immane della coltre di neve e nessuno, ma proprio nessun animale metteva il muso fuori dalla tana. Solo Vasilisa si trascinava col naso arrossato per aria, pronta a cogliere il nitrito del cavallo del prode principe Ivan o a infilarsi nell’apertura segreta, che l’avrebbe condotta nel mondo degli inferi, tra le radici dell’Albero della Vita, caso mai lo avesse trovato.
Invece si era slogata una caviglia precipitando, come un coniglio al laccio, nella buca scavata da un bracconiere per catturare i cinghiali. Prova e riprova, ma Vasilisa non era proprio riuscita a tirarsi fuori da sola e così si era messa a gridare chiedendo aiuto, mezza sepolta nella neve che le entrava negli stivali e nel collo del cappotto.
L’unica che l’aveva sentita era stata Baba Jaga e da allora era rimasta con lei.
Baba Jaga non era come la descrivevano nelle storie. Be’, brutta era brutta, il naso adunco ce l’aveva, bitorzoli, pustole e tutto il resto. I suoi capelli erano lunghi come strade e fini come seta, tanto bianchi da confondersi con la neve d’inverno e aggrovigliati come il bosco più selvaggio. Si raccontava che avesse una certa predilezione per i bambini giovani e teneri e forse era stato proprio per questo che la strega non si era mangiata Vasilisa che ormai l’infanzia se l’era lasciata alle spalle.
Si raccontavano storie terrificanti sulla strega padrona del bosco, era capace di fare di te quello che voleva, rigirandoti attorno al suo mignolino con il battere di un solo ciglio. A Vasilisa, però sembrava solo un’innocua vecchietta, stanca e con un caratteraccio, una nonna che viveva in solitudine nel punto più profondo del bosco e cominciava ad avere più di un acciacco. Forse ormai, rifletteva Vasilisa, quelle che girano su Baba Jaga erano diventati echi, ombre sfilacciate del passato.
La strega aveva relegato la ragazza a sfregare pentole e pavimenti e tanti altri lavori poco divertenti che alla ragazza non erano mai piaciuti, ma che in casa della strega non le pesavano affatto.
«La mia Kikimora è vecchia e stanca, ben più di me,» aveva detto Baba Jaga dopo averle fasciato la caviglia con tocco delicato. «Puoi decidere di restare e fare il suo lavoro, oppure sei libera di andartene. Non ho voglia di essere cattiva oggi.» La strega aveva sbuffato come se fosse sfinita e forse un po’ delusa di se stessa, poi aveva indicato il portello la cui serratura era costellata di dentacci taglienti.
Vasilisa aveva deglutito rigirandosi nella testa tutte le storie che le avevano raccontato per spaventarla: Baba Jaga mangia i bambini, li fa sedere sullo spiedo e poi li arrostisce. Le ossa biancastre e giallognole di cui erano fatte le pareti sembravano dare ragione a quelle parole. Baba Jaga cancella i sentieri con la sua scopa di betulla argentea, così i viandanti si perdono nel bosco e lei può fare di loro quello che più le piace. La scopa mandava bagliori dall’angolo a fianco della porta, ritta e fiera come una spada d’eroe. Baba Jaga ha dei servi invisibili di cui non bisogna mai chiederle niente. Sono i suoi servitori fidati e uccidono chiunque cerchi di scoprire la loro identità. Ma Vasilisa si era guadagnata in fretta la tenerezza del gatto, la gentilezza del cancello, la protezione del cane e la benevolenza dell’albero e la strega ne era rimasta impressionata.
Persino la Kikimora aveva preso in simpatia la ragazza e la lodava spesso per la sua bravura nei lavori di casa, tanto che lei e Vasilisa erano diventate amiche e ridacchiavano negli angoli come due adolescenti. E la Kikimora era forse un personaggio ancora più difficile da affascinare di Baba Jaga, era lo spirito femminile custode della casa e aveva sempre la luna storta perché nessuno, a suo parere, sapeva più tenere le case ordinate e pulite.
«Mai queste ossa hanno brillato tanto,» diceva la Kikimora da sotto l’acquaio; si grattava le zampe di gallina che aveva al posto delle gambe e lanciava sguardi di rimprovero verso Baba Jaga.
«Per le penne secche di un’oca morta, Kikimora!» gridò un giorno Baba Jaga coi pugni stretti sulle cosce. «Non ti ho mai sentito fare tanti complimenti a nessuno. Sei proprio diventata una vecchia rincitrullita! Tu sei lo spirito maligno della mia casa, se andiamo avanti così finirai per metterti a sfornare biscotti.»
La Kikimora si era talmente offesa che aveva ficcato il becco d’uccello che aveva per naso tra i pentoloni sotto l’acquaio e non si era più girata per giorni.
Un pomeriggio di fine autunno Baba Jaga era uscita a cavalcioni della sua scopa argentea.
«Vado a cancellare un po’ di sentieri prima che cada la neve, non vorrei che troppe persone trovassero la via di casa e non ci rimanesse nessuno sperduto nel bosco da tormentare durante l'inverno.»
Non appena la strega prese il volo, Vasilisa si buttò in ginocchio al fianco della Kikimora.
«Nonna, nonna,» chiamava la ragazza. «Stai bene? Posso fare qualcosa per te?»
Ma la Kikimora non rispondeva. Tanto fece e tanto disse, Vasilisa riuscì a far accomodare la minuscola e spaventosa vecchietta su una seggiolina che la ragazza aveva intrecciato per lei con teneri rametti di betulla. La sistemò sulla soglia di casa in modo che respirasse l’ultima aria tiepida prima del grande freddo. Il bosco era da tempo diventato d’oro e d’arancio, rosso fuoco e umido, i colori si intrecciavano tra gli alberi, Vasilisa rimaneva incantata a cercare di capire dove finiva uno e dove iniziava l’altro.
«Portami il fuso, bambina, ho proprio voglia di filare.»
«Ne sei certa, nonna?» chiese Vasilisa spaventata, distogliendo lo sguardo dalle fronde color ambra. «Se ne sei proprio sicura, io te lo porterò.»
E così fece. La Kikimora filò a lungo, con lentezza e senza sosta. Vasilisa fece ben attenzione a non guardarla e a non uscire di casa, è ben noto infatti che vedere una Kikimora filare sulla soglia di casa preannuncia morte. E la ragazza aveva una gran voglia di vivere.
Toccherà a Baba Jaga, pensò Vasilisa. Tornerà verso l’ora di cena senza aspettarsi di trovare la sua Kikimora che fila sulla soglia. La ragazza ridacchiò divertita, ma smise subito. Darà la colpa a me, dirà che sono stata io a portarla sulla soglia. Dirà che sono stata io a darle il fuso. Dirà che volevo ucciderla.
Vasilisa saltò in piedi. «Devo avvertirla!»
La ragazza si avvolse il capo in uno scialle su cui ancora si distinguevano delle rose sbiadite e delle margherite appassite, chiamò il cane e il gatto.
«Aiutatemi a convincere la serratura ad aprirsi,» pregò la ragazza. «La nostra padrona è in pericolo: devo metterla in guardia!»
Il cane e il gatto non persero tempo, azzannarono la porta e la graffiarono con forza, quella spalancò le fauci e Vasilisa ci ficcò dentro la chiave arrugginita. Con un balzo la ragazza si trovò nel piccolo giardino. Corse dal cancello di legno che stava sul lato della casa, con la coda dell’occhio vide un movimento: di sicuro era la Kikimora che filava sulla soglia. Vasilisa si protesse gli occhi con le mani per essere sicura di non vedere niente nemmeno per sbaglio.
«Cancelletto, mio bel cancelletto,» quasi cantò la ragazza. «Apriti e lasciami passare, te ne prego. La nostra padrona è in pericolo, la Kikimora fila e Baba Jaga tornerà tra poco.»
Il cancelletto di legno fece gridare ai cardini vecchi e sbilenchi tutto il suo sdegno, poi si spalancò sul bosco dorato.
Vasilisa corse affannata dall’albero al limitare del bosco, era il più alto, aveva i rami più lunghi e possenti, le sue foglie erano le più ampie e le più morbide, i colori che lo dipingevano erano i più caldi e armoniosi. Su di lui vivevano intere famiglie di scoiattoli dalla coda attorcigliata, innumerevoli nidi degli uccelli più disparati trovavano riparo tra le sue fronde. Per avere questo aspetto magnifico l’albero aveva giurato di servire Baba Jaga per sempre.
«Albero, mio bellissimo albero,» quasi gridò Vasilisa. «La nostra padrona è in pericolo, la Kikimora fila e Baba Jaga tornerà tra poco. Dobbiamo avvisarla!»
L’albero ebbe un fremito, gli scoiattoli si affacciarono dalla loro tana, gli uccelli sbucarono dai nidi, le foglie vibrarono e la corteccia si mise a scricchiolare.
Scricchiola, scricchiola, nel tronco cominciarono a formarsi degli scalini, degli appigli che salivano su, fino ai rami più sottili che si perdevano nel cielo grigio carico della prima neve.
Vasilisa rimase a guardare la trasformazione con le mani piantate sui fianchi, un po’ delusa a dire il vero: le sarebbe toccato arrampicarsi fino in cima e chissà che vento gelato soffiava lassù tra le nuvole. Ma cosa poteva farci?
Sbuffò un po’, ma non servì a niente, così la ragazza cominciò a salire. Passò a fianco a delle famiglie di scoiattoli che facevano il tifo per lei e correvano su e giù per i rami incitandola a salire più in fretta. Gli uccelli cinguettavano a tutto spiano, volando tra la cima dell’albero e il punto in cui si trovava lei, per informarla se qualcuno avesse avvistato Baba Jaga.
Per molto tempo Vasilisa si arrampicò, le gambe le bruciavano per lo sforzo, il sudore le colava lungo le tempie e poi dentro i vestiti, le mani erano ferite e sanguinanti, ma lei non si fermava. Finché un uccellino non arrivò al suo fianco e le gridò: «Fai più in fretta, ragazza! La tua padrona, la signora del bosco, la grande Baba Jaga è all'orizzonte.»
E allora Vasilisa si arrampicò più in fretta, maledicendo di nuovo il suo nome che la obbligava ad azioni eroiche e chiedendosi in cuor suo perché non potesse essere l’uccellino antipatico e sbruffone a volare dalla strega e consegnarle il messaggio.
Arrivò sulla cima un attimo prima che Baba Jaga la raggiungesse. La vecchia fece frenare la scopa di betulla argentata e la guardò con gli occhi grandi come piattini da tè.
«E tu che ci fai qua sopra?»
«Sono venuta ad avvertirti, Baba Jaga,» disse Vasilisa senza fiato. «La Kikimora fila sulla soglia di casa.»
Alla strega si rizzarono tutti i capelli in testa e la scopa vibrò dall’indignazione.
«Quella disgraziata!»
Baba Jaga scese dalla scopa e si accomodò tra i rami insieme alla sua servetta. La ringraziò molte volte e le fece dei complimenti da far rabbrividire i più coraggiosi. Lodò l’albero, il cane, il gatto e il cancello, suoi servi fedeli. E poi disse: «Aspetteremo, Vasilisa. Aspetteremo finché la Kikimora non sarà più offesa, si renderà conto di essere rimasta sola e tornerà in casa,» disse Baba Jaga. «Solo allora scenderemo ed entreremo in casa, non un attimo prima.»
E così fecero.
Devi sapere che Vasilisa portava il nome della più bella delle belle di tutte le fiabe russe, l'eroina per eccellenza; in tutte le storie Vasilisa non solo era la più splendente delle ragazze, ma affrontava avventure incredibili da cui usciva sempre a testa alta, spesso in groppa a un cavallo e con un bel principe al suo fianco. Ormai da molti, moltissi anni, Vasilisa viveva nel bosco con Baba Jaga, la strega del bosco, la signora della foresta: era passato così tanto tempo da quando era partita da casa sua, che non era sicura di ricordarsi più il viso dei suoi fratelli. Per una qualche ragione, stava bene nella casa volante di Baba Jaga, le zampe di gallina che le facevano da base non la spaventavano più e, per una qualche ragione, a lei Baba Jaga non faceva alcuna paura.
Quando Vasilisa era piccola, sua mamma era partita per un viaggio lungo ai confini della Terra. Non pensare che ti stia prendendo in giro, non era morta, era proprio partita per un viaggio, perché era un’avventuriera. Vasilisa, che voleva essere come la mamma, poco tempo dopo aveva infilato gli scarponi foderati ai piedi, il cappotto con la pelliccia, aveva preso una sacca con alcune cose più o meno utili e si era inoltrata nel bosco ammantato di bianco.
Con il nome che le avevano dato era sicura di stare andando incontro a grosse avventure, a un amore romantico che avrebbe vinto su tutto e a lunghe cavalcate con il Re dell’Inverno. Affondava nella neve alta a cuor leggero in uno degli inverni più freddi che la Grande Rus' avesse mai visto. Dai rami ritorti pendevano grappoli di ghiaccioli aguzzi, gli alberi gelati si lamentavano sotto il peso immane della coltre di neve e nessuno, ma proprio nessun animale metteva il muso fuori dalla tana. Solo Vasilisa si trascinava col naso arrossato per aria, pronta a cogliere il nitrito del cavallo del prode principe Ivan o a infilarsi nell’apertura segreta, che l’avrebbe condotta nel mondo degli inferi, tra le radici dell’Albero della Vita, caso mai lo avesse trovato.
Invece si era slogata una caviglia precipitando, come un coniglio al laccio, nella buca scavata da un bracconiere per catturare i cinghiali. Prova e riprova, ma Vasilisa non era proprio riuscita a tirarsi fuori da sola e così si era messa a gridare chiedendo aiuto, mezza sepolta nella neve che le entrava negli stivali e nel collo del cappotto.
L’unica che l’aveva sentita era stata Baba Jaga e da allora era rimasta con lei.
Baba Jaga non era come la descrivevano nelle storie. Be’, brutta era brutta, il naso adunco ce l’aveva, bitorzoli, pustole e tutto il resto. I suoi capelli erano lunghi come strade e fini come seta, tanto bianchi da confondersi con la neve d’inverno e aggrovigliati come il bosco più selvaggio. Si raccontava che avesse una certa predilezione per i bambini giovani e teneri e forse era stato proprio per questo che la strega non si era mangiata Vasilisa che ormai l’infanzia se l’era lasciata alle spalle.
Si raccontavano storie terrificanti sulla strega padrona del bosco, era capace di fare di te quello che voleva, rigirandoti attorno al suo mignolino con il battere di un solo ciglio. A Vasilisa, però sembrava solo un’innocua vecchietta, stanca e con un caratteraccio, una nonna che viveva in solitudine nel punto più profondo del bosco e cominciava ad avere più di un acciacco. Forse ormai, rifletteva Vasilisa, quelle che girano su Baba Jaga erano diventati echi, ombre sfilacciate del passato.
La strega aveva relegato la ragazza a sfregare pentole e pavimenti e tanti altri lavori poco divertenti che alla ragazza non erano mai piaciuti, ma che in casa della strega non le pesavano affatto.
«La mia Kikimora è vecchia e stanca, ben più di me,» aveva detto Baba Jaga dopo averle fasciato la caviglia con tocco delicato. «Puoi decidere di restare e fare il suo lavoro, oppure sei libera di andartene. Non ho voglia di essere cattiva oggi.» La strega aveva sbuffato come se fosse sfinita e forse un po’ delusa di se stessa, poi aveva indicato il portello la cui serratura era costellata di dentacci taglienti.
Vasilisa aveva deglutito rigirandosi nella testa tutte le storie che le avevano raccontato per spaventarla: Baba Jaga mangia i bambini, li fa sedere sullo spiedo e poi li arrostisce. Le ossa biancastre e giallognole di cui erano fatte le pareti sembravano dare ragione a quelle parole. Baba Jaga cancella i sentieri con la sua scopa di betulla argentea, così i viandanti si perdono nel bosco e lei può fare di loro quello che più le piace. La scopa mandava bagliori dall’angolo a fianco della porta, ritta e fiera come una spada d’eroe. Baba Jaga ha dei servi invisibili di cui non bisogna mai chiederle niente. Sono i suoi servitori fidati e uccidono chiunque cerchi di scoprire la loro identità. Ma Vasilisa si era guadagnata in fretta la tenerezza del gatto, la gentilezza del cancello, la protezione del cane e la benevolenza dell’albero e la strega ne era rimasta impressionata.
Persino la Kikimora aveva preso in simpatia la ragazza e la lodava spesso per la sua bravura nei lavori di casa, tanto che lei e Vasilisa erano diventate amiche e ridacchiavano negli angoli come due adolescenti. E la Kikimora era forse un personaggio ancora più difficile da affascinare di Baba Jaga, era lo spirito femminile custode della casa e aveva sempre la luna storta perché nessuno, a suo parere, sapeva più tenere le case ordinate e pulite.
«Mai queste ossa hanno brillato tanto,» diceva la Kikimora da sotto l’acquaio; si grattava le zampe di gallina che aveva al posto delle gambe e lanciava sguardi di rimprovero verso Baba Jaga.
«Per le penne secche di un’oca morta, Kikimora!» gridò un giorno Baba Jaga coi pugni stretti sulle cosce. «Non ti ho mai sentito fare tanti complimenti a nessuno. Sei proprio diventata una vecchia rincitrullita! Tu sei lo spirito maligno della mia casa, se andiamo avanti così finirai per metterti a sfornare biscotti.»
La Kikimora si era talmente offesa che aveva ficcato il becco d’uccello che aveva per naso tra i pentoloni sotto l’acquaio e non si era più girata per giorni.
Un pomeriggio di fine autunno Baba Jaga era uscita a cavalcioni della sua scopa argentea.
«Vado a cancellare un po’ di sentieri prima che cada la neve, non vorrei che troppe persone trovassero la via di casa e non ci rimanesse nessuno sperduto nel bosco da tormentare durante l'inverno.»
Non appena la strega prese il volo, Vasilisa si buttò in ginocchio al fianco della Kikimora.
«Nonna, nonna,» chiamava la ragazza. «Stai bene? Posso fare qualcosa per te?»
Ma la Kikimora non rispondeva. Tanto fece e tanto disse, Vasilisa riuscì a far accomodare la minuscola e spaventosa vecchietta su una seggiolina che la ragazza aveva intrecciato per lei con teneri rametti di betulla. La sistemò sulla soglia di casa in modo che respirasse l’ultima aria tiepida prima del grande freddo. Il bosco era da tempo diventato d’oro e d’arancio, rosso fuoco e umido, i colori si intrecciavano tra gli alberi, Vasilisa rimaneva incantata a cercare di capire dove finiva uno e dove iniziava l’altro.
«Portami il fuso, bambina, ho proprio voglia di filare.»
«Ne sei certa, nonna?» chiese Vasilisa spaventata, distogliendo lo sguardo dalle fronde color ambra. «Se ne sei proprio sicura, io te lo porterò.»
E così fece. La Kikimora filò a lungo, con lentezza e senza sosta. Vasilisa fece ben attenzione a non guardarla e a non uscire di casa, è ben noto infatti che vedere una Kikimora filare sulla soglia di casa preannuncia morte. E la ragazza aveva una gran voglia di vivere.
Toccherà a Baba Jaga, pensò Vasilisa. Tornerà verso l’ora di cena senza aspettarsi di trovare la sua Kikimora che fila sulla soglia. La ragazza ridacchiò divertita, ma smise subito. Darà la colpa a me, dirà che sono stata io a portarla sulla soglia. Dirà che sono stata io a darle il fuso. Dirà che volevo ucciderla.
Vasilisa saltò in piedi. «Devo avvertirla!»
La ragazza si avvolse il capo in uno scialle su cui ancora si distinguevano delle rose sbiadite e delle margherite appassite, chiamò il cane e il gatto.
«Aiutatemi a convincere la serratura ad aprirsi,» pregò la ragazza. «La nostra padrona è in pericolo: devo metterla in guardia!»
Il cane e il gatto non persero tempo, azzannarono la porta e la graffiarono con forza, quella spalancò le fauci e Vasilisa ci ficcò dentro la chiave arrugginita. Con un balzo la ragazza si trovò nel piccolo giardino. Corse dal cancello di legno che stava sul lato della casa, con la coda dell’occhio vide un movimento: di sicuro era la Kikimora che filava sulla soglia. Vasilisa si protesse gli occhi con le mani per essere sicura di non vedere niente nemmeno per sbaglio.
«Cancelletto, mio bel cancelletto,» quasi cantò la ragazza. «Apriti e lasciami passare, te ne prego. La nostra padrona è in pericolo, la Kikimora fila e Baba Jaga tornerà tra poco.»
Il cancelletto di legno fece gridare ai cardini vecchi e sbilenchi tutto il suo sdegno, poi si spalancò sul bosco dorato.
Vasilisa corse affannata dall’albero al limitare del bosco, era il più alto, aveva i rami più lunghi e possenti, le sue foglie erano le più ampie e le più morbide, i colori che lo dipingevano erano i più caldi e armoniosi. Su di lui vivevano intere famiglie di scoiattoli dalla coda attorcigliata, innumerevoli nidi degli uccelli più disparati trovavano riparo tra le sue fronde. Per avere questo aspetto magnifico l’albero aveva giurato di servire Baba Jaga per sempre.
«Albero, mio bellissimo albero,» quasi gridò Vasilisa. «La nostra padrona è in pericolo, la Kikimora fila e Baba Jaga tornerà tra poco. Dobbiamo avvisarla!»
L’albero ebbe un fremito, gli scoiattoli si affacciarono dalla loro tana, gli uccelli sbucarono dai nidi, le foglie vibrarono e la corteccia si mise a scricchiolare.
Scricchiola, scricchiola, nel tronco cominciarono a formarsi degli scalini, degli appigli che salivano su, fino ai rami più sottili che si perdevano nel cielo grigio carico della prima neve.
Vasilisa rimase a guardare la trasformazione con le mani piantate sui fianchi, un po’ delusa a dire il vero: le sarebbe toccato arrampicarsi fino in cima e chissà che vento gelato soffiava lassù tra le nuvole. Ma cosa poteva farci?
Sbuffò un po’, ma non servì a niente, così la ragazza cominciò a salire. Passò a fianco a delle famiglie di scoiattoli che facevano il tifo per lei e correvano su e giù per i rami incitandola a salire più in fretta. Gli uccelli cinguettavano a tutto spiano, volando tra la cima dell’albero e il punto in cui si trovava lei, per informarla se qualcuno avesse avvistato Baba Jaga.
Per molto tempo Vasilisa si arrampicò, le gambe le bruciavano per lo sforzo, il sudore le colava lungo le tempie e poi dentro i vestiti, le mani erano ferite e sanguinanti, ma lei non si fermava. Finché un uccellino non arrivò al suo fianco e le gridò: «Fai più in fretta, ragazza! La tua padrona, la signora del bosco, la grande Baba Jaga è all'orizzonte.»
E allora Vasilisa si arrampicò più in fretta, maledicendo di nuovo il suo nome che la obbligava ad azioni eroiche e chiedendosi in cuor suo perché non potesse essere l’uccellino antipatico e sbruffone a volare dalla strega e consegnarle il messaggio.
Arrivò sulla cima un attimo prima che Baba Jaga la raggiungesse. La vecchia fece frenare la scopa di betulla argentata e la guardò con gli occhi grandi come piattini da tè.
«E tu che ci fai qua sopra?»
«Sono venuta ad avvertirti, Baba Jaga,» disse Vasilisa senza fiato. «La Kikimora fila sulla soglia di casa.»
Alla strega si rizzarono tutti i capelli in testa e la scopa vibrò dall’indignazione.
«Quella disgraziata!»
Baba Jaga scese dalla scopa e si accomodò tra i rami insieme alla sua servetta. La ringraziò molte volte e le fece dei complimenti da far rabbrividire i più coraggiosi. Lodò l’albero, il cane, il gatto e il cancello, suoi servi fedeli. E poi disse: «Aspetteremo, Vasilisa. Aspetteremo finché la Kikimora non sarà più offesa, si renderà conto di essere rimasta sola e tornerà in casa,» disse Baba Jaga. «Solo allora scenderemo ed entreremo in casa, non un attimo prima.»
E così fecero.