[MI152] Ritratto (di una fine)
Posted: Sun Jun 06, 2021 11:02 pm
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Traccia di mezzogiorno di @Ippolita - "Penombra"
Ritratto (di una fine)
La mano scivola lenta sul ripiano.
Ė quello dove tenevamo le nostre fotografie; ora c’è solamente polvere.
Ruoto il palmo, velato dalla grigia inconsistenza dei ricordi. Lo osservo e provo tenerezza: non è tanto vecchio da meritarsi la solitudine che l’attende. Eppure, da oggi, è così. E le dita si serrano in un pugno che nulla ha di minaccioso. Che anzi, è un atto di paura, come l’appallottolarsi di un riccio.
Nel buio di questa stanza, chiudo gli occhi: ormai è troppo tardi per il panico. La polvere ha già iniziato a posarsi su ogni cosa e, oltre, c’è solo l’abbandono.
Fuggo, riparandomi dietro alle palpebre. Spero che siano scudo sufficiente contro la realtà del ripiano impolverato, della casa svuotata, della fine di noi.
Con tocchi precisi, la memoria accarezza le immagini non più al loro posto. Alcune, quelle senza di me, sono rinchiuse in un tuo scatolone, lo so. Le altre sono divenute coriandoli di rabbia, fatti da dettagli del mio volto. Le hai eliminate dall’esistenza e dalla memoria.
Io le tue le ricordo tutte e non ne rammento nessuna. Ciascun tratto si fonde in un’immagine unica, fatta di istanti sovrapposti.
E ci sei tu, com’eri mezza vita fa. S’uno scoglio inondata dal sole e la schiuma infranta ai tuoi piedi. Stai con le braccia intorno a un ginocchio, la tua pelle abbronzata, e non guardi nell’obiettivo. Non sorridi.
Ancora tu.
In quell’allora portavi un taglio corto, da maschio. Il tuo viso tra quello dei bambini e dietro la sagoma di un campanile, sotto un cielo immensamente blu.
Non ricordo dove la scattai e neppure com’erano i volti dei piccoli. Troppo tempo è trascorso, troppa vita: loro sono diventati altro mentre il nostro amore silenziosamente si esauriva.
Ma rammento i tuoi occhi lucenti, il colore dorato del tuo volto. Un giubbetto di jeans con il colletto alzato e la piega della tua bocca. Seria come sempre, perché non c’è una foto dove sorridi. Hai sempre detto che non ti piacevi, che rivederti ti faceva sentire in imbarazzo. Quindi hai caparbiamente scelto di non ridere.
Preferivi non mostrare felicità, pur di non sentirti giudicata.
Forse quella serietà, quella tristezza esteriore, ti ha lentamente consumata. Stringendo il tuo cuore in una morsa sempre più forte, più cupa. Finché, davvero, non hai riso più, se non per simulare.
No, non sono giusto, non posso fingere di non avere colpe. Vent’anni sono troppi perché qualcuno possa pensarsi immacolato. Quindi sì, io sono altrettanto colpevole del tuo illanguidire. Sì.
Ma c’è una cosa che mi spezza il cuore alla fine di questa nostra storia: io so di amarti ancora come allora, come nell’ultima foto mancante. Quella che è tutta spiaggia e cielo, tutta sabbia color crema e ali spiegate d’un gabbiano. Noi troppo piccoli nel mezzo, noi all’inizio di tutto.
Ricordo la curva del tuo collo, la morbidezza della tua spalla nuda. Il mio corpo ossuto, invece.
Io tenevo sguardo dritto verso la macchina fotografica, mentre il tuo sfuggiva di lato.
Capisco solo ora che abbiamo atteso il futuro da lati diversi.
E quando è arrivato, ci ha colti entrambi alla sprovvista. Impreparati. Incapaci di accoglierlo.
Forse perfino senza riuscire a vederlo.
Vorrei che avessi guardato in camera con me, quella volta, e come me tu avessi riso. Magari, magari le cose sarebbero finite diversamente.
Non che sia stata una mala vita, ma tu attendevi sempre qualcosa, edificavi paure sempre nuove, muri sempre più alti. E io, invece di abbatterli, mi sedevo a terra appoggiato con la schiena, aspettando che crollassero da soli.
Era più semplice, illusorio.
Riapro gli occhi sulla parete bianca sopra al ripiano, sull’alone lasciato dal quadro di Piero, quello con i tratti colorati che tanto sapevano di felicità.
Mi sorprende il sapore di una lacrima. Tocca l’angolo della bocca, salata di passato.
Da quanto non piango, neppure lo so.
Non è successo quando mi hai atteso nel buio di una notte, curva al tavolo della cucina.
Io sulla soglia, sapendo che non avrei più potuto cancellare il passo una volta varcata.
Dalle persiane filtrano strisce di luce arancione del lampione, fasce di rancore e d’amore. Tenevi lo sguardo basso, fisso sulle nocche intrecciate e mi dicevi addio.
Non piansi.
Osservavo quella luce a liste sui nostri oggetti.
Era strano come li sagomasse irreali, in qualche maniera già estranei come li avresti resi tu entro poco. Mi lasciavi, e accanto al dolore trovavo una stordente quiete che mi feriva, che mi diceva che m’ero arreso da tempo. Ma non piansi. Nessuno dei due lo fece.
Invece, quando hai pianto tu l’ultima volta, lo ricordo.
Chiusa nel bagno singhiozzavi sommessamente e io ero al di qua della porta, a centimetri da te. Mi mancò il coraggio che già sfioravo la maniglia. Non lo saprai mai. Non te l’ho detto mai.
Ed è la mia più grande colpa.
Troppe parole non ho pronunciato schivando i momenti, dicendomi che era per il meglio, mentendo al nostro futuro.
Faccio scorrere la porta che dà sulle scale. Quasi mi scosto, vedendo i nostri bambini correre giù a rotta di collo. Ridenti e sereni.
Ma è un inganno della mente, nessuno sbuca dal buio. Non c’è più neppure il tuo continuo richiamo di stare attenti, che potevano farsi male. Gridato ancora quando una era già al liceo e l’altro quasi.
Ho sofferto ogni giorno la tua paura di correre il rischio di vivere e non ho fatto nulla.
Mi volto alla stanza vuota e il passo è un suono di echi sconosciuti. È come il guscio d’una chiocciola che trovai da bambino e che per anni rimase accanto ai miei libri. Lo osservavo triste del suo inutile vuoto. D’aver accolto vita ed esserle sopravvissuto.
Come questa casa oggi.
Osservo l’ambiente: manca ancora un pezzo al bordino di legno, nascosto dov’era il divano. Non l’ho mai rimpiazzato e mille volte ti sei arrabbiata, ma non lo facevo perché fingevi di non ricordare come lo spezzasti. Come le tue unghie cercassero una presa nella tensione del nostro amarci impudico.
Sospiro, il ricordo non consola.
È allora che sento una chiave infilarsi nella toppa, girare a vuoto.
Mi manca un battito del cuore, non era previsto. Solamente tu hai la chiave. Sei tu.
Da quante settimane non ti vedo? Da più che in tutta la mia vita.
Mi tremano le gambe.
Ecco, hai smesso di provare ad aprire una serratura già schiusa. Ti fermi, lo so. T’immagino che alzi lo sguardo sulla porta, come se potessi vedere attraverso: hai capito che non posso che essere io e ti stai domandando se entrare o voltarti indietro.
Ma non hai scelta, in realtà. Non può essere un caso se siamo qui entrambi, ora.
Io spero.
La maniglia ruota lenta quanto il mio respiro, schiudi la porta e la tua figura minuta fa un passo.
Ti fermi un metro dentro, serrando l’uscio, e con lo sguardo mi cerchi.
Nella penombra siamo due figure immobili. Sembriamo fatti solo d’ombra e di luce, del nostro essere ed essere stati.
La vacuità della stanza penetra in me, scompone ogni ricordo in chiazze di colore. Frammenti che sbocciano, forano la coltre di buio.
Attraverso il velo intessuto dalla nostra esistenza, prendo ogni singolo istante. Non posso pensare che davvero tutto finisca qui.
Prendo il tuo viso dei vent’anni, quello di oggi. Cerco le parole e di nuovo piango.
Prendo un profilo disteso sotto le stelle. Io ti amo. Io…
Mi pare un lieve sorriso, il tuo.
Un lieve, amaro, sorriso. E adagio scuoti la testa.
- Addio.
Lo dici alla casa, poi di nuovo guardi me.
Un attimo.
Ti volti, e silenziosamente esci.
Traccia di mezzogiorno di @Ippolita - "Penombra"
Ritratto (di una fine)
La mano scivola lenta sul ripiano.
Ė quello dove tenevamo le nostre fotografie; ora c’è solamente polvere.
Ruoto il palmo, velato dalla grigia inconsistenza dei ricordi. Lo osservo e provo tenerezza: non è tanto vecchio da meritarsi la solitudine che l’attende. Eppure, da oggi, è così. E le dita si serrano in un pugno che nulla ha di minaccioso. Che anzi, è un atto di paura, come l’appallottolarsi di un riccio.
Nel buio di questa stanza, chiudo gli occhi: ormai è troppo tardi per il panico. La polvere ha già iniziato a posarsi su ogni cosa e, oltre, c’è solo l’abbandono.
Fuggo, riparandomi dietro alle palpebre. Spero che siano scudo sufficiente contro la realtà del ripiano impolverato, della casa svuotata, della fine di noi.
Con tocchi precisi, la memoria accarezza le immagini non più al loro posto. Alcune, quelle senza di me, sono rinchiuse in un tuo scatolone, lo so. Le altre sono divenute coriandoli di rabbia, fatti da dettagli del mio volto. Le hai eliminate dall’esistenza e dalla memoria.
Io le tue le ricordo tutte e non ne rammento nessuna. Ciascun tratto si fonde in un’immagine unica, fatta di istanti sovrapposti.
E ci sei tu, com’eri mezza vita fa. S’uno scoglio inondata dal sole e la schiuma infranta ai tuoi piedi. Stai con le braccia intorno a un ginocchio, la tua pelle abbronzata, e non guardi nell’obiettivo. Non sorridi.
Ancora tu.
In quell’allora portavi un taglio corto, da maschio. Il tuo viso tra quello dei bambini e dietro la sagoma di un campanile, sotto un cielo immensamente blu.
Non ricordo dove la scattai e neppure com’erano i volti dei piccoli. Troppo tempo è trascorso, troppa vita: loro sono diventati altro mentre il nostro amore silenziosamente si esauriva.
Ma rammento i tuoi occhi lucenti, il colore dorato del tuo volto. Un giubbetto di jeans con il colletto alzato e la piega della tua bocca. Seria come sempre, perché non c’è una foto dove sorridi. Hai sempre detto che non ti piacevi, che rivederti ti faceva sentire in imbarazzo. Quindi hai caparbiamente scelto di non ridere.
Preferivi non mostrare felicità, pur di non sentirti giudicata.
Forse quella serietà, quella tristezza esteriore, ti ha lentamente consumata. Stringendo il tuo cuore in una morsa sempre più forte, più cupa. Finché, davvero, non hai riso più, se non per simulare.
No, non sono giusto, non posso fingere di non avere colpe. Vent’anni sono troppi perché qualcuno possa pensarsi immacolato. Quindi sì, io sono altrettanto colpevole del tuo illanguidire. Sì.
Ma c’è una cosa che mi spezza il cuore alla fine di questa nostra storia: io so di amarti ancora come allora, come nell’ultima foto mancante. Quella che è tutta spiaggia e cielo, tutta sabbia color crema e ali spiegate d’un gabbiano. Noi troppo piccoli nel mezzo, noi all’inizio di tutto.
Ricordo la curva del tuo collo, la morbidezza della tua spalla nuda. Il mio corpo ossuto, invece.
Io tenevo sguardo dritto verso la macchina fotografica, mentre il tuo sfuggiva di lato.
Capisco solo ora che abbiamo atteso il futuro da lati diversi.
E quando è arrivato, ci ha colti entrambi alla sprovvista. Impreparati. Incapaci di accoglierlo.
Forse perfino senza riuscire a vederlo.
Vorrei che avessi guardato in camera con me, quella volta, e come me tu avessi riso. Magari, magari le cose sarebbero finite diversamente.
Non che sia stata una mala vita, ma tu attendevi sempre qualcosa, edificavi paure sempre nuove, muri sempre più alti. E io, invece di abbatterli, mi sedevo a terra appoggiato con la schiena, aspettando che crollassero da soli.
Era più semplice, illusorio.
Riapro gli occhi sulla parete bianca sopra al ripiano, sull’alone lasciato dal quadro di Piero, quello con i tratti colorati che tanto sapevano di felicità.
Mi sorprende il sapore di una lacrima. Tocca l’angolo della bocca, salata di passato.
Da quanto non piango, neppure lo so.
Non è successo quando mi hai atteso nel buio di una notte, curva al tavolo della cucina.
Io sulla soglia, sapendo che non avrei più potuto cancellare il passo una volta varcata.
Dalle persiane filtrano strisce di luce arancione del lampione, fasce di rancore e d’amore. Tenevi lo sguardo basso, fisso sulle nocche intrecciate e mi dicevi addio.
Non piansi.
Osservavo quella luce a liste sui nostri oggetti.
Era strano come li sagomasse irreali, in qualche maniera già estranei come li avresti resi tu entro poco. Mi lasciavi, e accanto al dolore trovavo una stordente quiete che mi feriva, che mi diceva che m’ero arreso da tempo. Ma non piansi. Nessuno dei due lo fece.
Invece, quando hai pianto tu l’ultima volta, lo ricordo.
Chiusa nel bagno singhiozzavi sommessamente e io ero al di qua della porta, a centimetri da te. Mi mancò il coraggio che già sfioravo la maniglia. Non lo saprai mai. Non te l’ho detto mai.
Ed è la mia più grande colpa.
Troppe parole non ho pronunciato schivando i momenti, dicendomi che era per il meglio, mentendo al nostro futuro.
Faccio scorrere la porta che dà sulle scale. Quasi mi scosto, vedendo i nostri bambini correre giù a rotta di collo. Ridenti e sereni.
Ma è un inganno della mente, nessuno sbuca dal buio. Non c’è più neppure il tuo continuo richiamo di stare attenti, che potevano farsi male. Gridato ancora quando una era già al liceo e l’altro quasi.
Ho sofferto ogni giorno la tua paura di correre il rischio di vivere e non ho fatto nulla.
Mi volto alla stanza vuota e il passo è un suono di echi sconosciuti. È come il guscio d’una chiocciola che trovai da bambino e che per anni rimase accanto ai miei libri. Lo osservavo triste del suo inutile vuoto. D’aver accolto vita ed esserle sopravvissuto.
Come questa casa oggi.
Osservo l’ambiente: manca ancora un pezzo al bordino di legno, nascosto dov’era il divano. Non l’ho mai rimpiazzato e mille volte ti sei arrabbiata, ma non lo facevo perché fingevi di non ricordare come lo spezzasti. Come le tue unghie cercassero una presa nella tensione del nostro amarci impudico.
Sospiro, il ricordo non consola.
È allora che sento una chiave infilarsi nella toppa, girare a vuoto.
Mi manca un battito del cuore, non era previsto. Solamente tu hai la chiave. Sei tu.
Da quante settimane non ti vedo? Da più che in tutta la mia vita.
Mi tremano le gambe.
Ecco, hai smesso di provare ad aprire una serratura già schiusa. Ti fermi, lo so. T’immagino che alzi lo sguardo sulla porta, come se potessi vedere attraverso: hai capito che non posso che essere io e ti stai domandando se entrare o voltarti indietro.
Ma non hai scelta, in realtà. Non può essere un caso se siamo qui entrambi, ora.
Io spero.
La maniglia ruota lenta quanto il mio respiro, schiudi la porta e la tua figura minuta fa un passo.
Ti fermi un metro dentro, serrando l’uscio, e con lo sguardo mi cerchi.
Nella penombra siamo due figure immobili. Sembriamo fatti solo d’ombra e di luce, del nostro essere ed essere stati.
La vacuità della stanza penetra in me, scompone ogni ricordo in chiazze di colore. Frammenti che sbocciano, forano la coltre di buio.
Attraverso il velo intessuto dalla nostra esistenza, prendo ogni singolo istante. Non posso pensare che davvero tutto finisca qui.
Prendo il tuo viso dei vent’anni, quello di oggi. Cerco le parole e di nuovo piango.
Prendo un profilo disteso sotto le stelle. Io ti amo. Io…
Mi pare un lieve sorriso, il tuo.
Un lieve, amaro, sorriso. E adagio scuoti la testa.
- Addio.
Lo dici alla casa, poi di nuovo guardi me.
Un attimo.
Ti volti, e silenziosamente esci.