[MI 152]Bari
Posted: Sun Jun 06, 2021 5:53 pm
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Traccia di mezzanotte
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Traccia di mezzanotte
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Ricordo ancora la prima volta che ho nuotato da sola. Avevo otto anni, con mio padre ero andata in una città appena fuori Bari, chiamata Polignano, dove le case sono costruite a strapiombo sulla scogliera e le balconate e i ponticelli traboccano di turisti che osservano i bagnanti in spiaggia, dall’alto, e scattano foto. Ciò che quei visitatori non sanno, però, è la bellezza nascosta sotto quella ripida scogliera. Quello lo so solo io.
Quel giorno il cielo era celeste, si sentivano le risate e i gridolini dei bambini che giocavano coi ciottoli e rincorrevano i granchi. Mi sono tuffata ad occhi chiusi e tappandomi il naso, il tuffo ha risucchiato i suoni e li ha trascinati con sé sul fondo. Sott’acqua ho nuotato a rana fino ad arrivare in una delle tante grotte marine nascoste sotto la scogliera.
Sono riemersa, ho respirato. Tutto intorno era buio. L’acqua era nera, non c’era nessuno, ma ogni volta che davo una bracciata, il movimento rivelava un raggio di luce nascosto che filtrava attraverso le rocce, e l’acqua che spostavo si accendeva di un turchese vivido, in contrasto con quel nero petrolio del mare. Nuotavo nel silenzio. Tutto intorno a me era inquietante e bellissimo.
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Guardo la tazzina del caffè che ho appena terminato di bere. Il fondo tremula, deve assestarsi. Ne osservo curiosa il turbinio, mi ricorda una breve felicità.
Fuori piove a dirotto come nei più classici degli acquazzoni estivi, sento le gocce d’acqua battere sulle foglie degli alberi, abbattersi sui viali, schizzare i turisti seduti sotto i portici del cafè.
Il cameriere sorride, spolvera il tavolino, fa capire che è ora di andare, sono le dieci di sera, è domenica e domani si lavora, lo so che si lavora. Anche se è giugno e a giugno terminano le scuole, anche se inizia la bella stagione, ci si sveglia presto e si va a lavorare.
Lancio un’occhiata veloce ai ragazzi seduti ai tavolini, alle loro fidanzate. Sorridono felici, mi chiedo come si riesca a incontrare qualcuno che migliori una semplice serata passata in un bar. Non invidio il loro amore; neanche la spensieratezza, ma quella che sembra un’accettazione serena e pacifica della vita in tutte le sue declinazioni.
Li guardo un’ultima volta, salgo in sella alla bici, indosso l'impermeabile, e vado.
Suono il citofono due volte, Anna apre senza neanche domandare chi ci sia dall’altra parte.
Salgo, appena entro nel suo appartamento una sono travolta da una folata di fumo. È acre e brucia un po’ le narici.
Lei mi accoglie con un sorriso strafatto.
«Ben arrivata, amore.» Mi dà un bacio a stampo.
Tolgo le scarpe, osservo un po’ in giro, ci sono residui di colazione e pranzo, qualche cartina, un po’ di fumo.
«Hai cominciato senza di me.» Sorrido, ironica.
Anna prepara una mezza sigaretta con tabacco, marijuana, chiude la cartina. Lo so che è domenica e domani si lavora, ma solo una. Solo una e poi torno a casa. Ne ho bisogno quanto il caffè e la tranquillità degli acquazzoni estivi.
Mi porge la canna, fumiamo. La spegniamo. Ne accendiamo un’altra, poi una terza.
Inizia a fare effetto, ma non mi lascio andare, qualcosa mi trattiene.
«Dai, mettiamo un po’ di musica,» incoraggia Anna, accende le casse, sceglie qualcosa che assomiglia a La vie en rose. Inizia a ballare a piedi nudi, tra la cucina e il divano letto, lentamente, come un’odalisca, la raggiungo, ballo con lei, siamo due lievi petali nel vento. La finestra è aperta, dalle tende si intravede la luna che sorge.
Sento una fitta al costato. Lo riconosco questo dolore, è familiare.
Vado verso i fornelli e prendo la canna accesa a metà. Continuo a tirare ancora, un’altra boccata, poi un’altra. Finisco l’ultimo tiro.
«Tesoro, non esagerare, hai deciso di ucciderti?» chiede, ironica.
«Sai qual è il bello dell’imparare a scrivere, Anna? Il saper tagliare fuori dai dialoghi le parole non essenziali»
Non so perché l’ho detto, ma lei ride.
Vado verso il divano letto, mi ci stendo a pancia in sù e a braccia spalancate.
Anna continua a ballare con leggerezza.
Ecco, inizia a fare effetto.
Apro gli occhi, di fronte a me vedo il bianco del soffitto.
La musica si attenua, sento solo il rumore della pioggia che continua a cadere. Lo riconosco questo dolore che sento al costato, ogni tanto ritorna.
So che alcuni malati di cancro chiamano la loro malattia il mio male, quasi che questo li aiutasse ad esorcizzare la paura. Il mio dolore invece ha due occhi, una bocca, i capelli neri brizzolati, il naso adunco, una catenina al collo, ama leggere e sopratutto scrivere, è morto pochi anni dopo la nostra bella giornata sulla spiaggia. Aveva un nome, ma non lo voglio ripetere.
Di fronte a me il soffitto inizia a muoversi. Non è vero che è bianco. Adesso lo osservo meglio: è turchese, si increspa in tante piccole onde. Mi ipnotizza.
«Anna, ti dispiace se non ballo, ma resto un po’ qui?»
«Ma certo, amore, fai quel che preferisci» Anna si avvicina, si stende accanto a me. Mi prende la mano. Restiamo immobili. Le onde continuano a moversi, lievi, si sente la risacca sulla sabbia.
«Lo vedi il mare, Anna? Quello sul soffito.»
Scoppia in una risata sonora, quasi si piega in due. Ma poi si ferma, guarda imbambolata sopra di sé, annuisce, piano. Rimaniamo in silenzio, immobili e mano nella mano. Ricordo di un film che ho visto al cinema, c’erano un uomo vecchio e una ragazza giovane stesi sul letto e insieme guardavano un mare immaginario.
Un largo sorriso mi si stampa sul viso.
Il mare è tornato da me, è penetrato dal soffitto attraverso la pioggia. È qui per ricordarmi tante cose. Il verso dei gabbiani, ad esempio. O il sole che ti scotta la pelle e i gridolini dei bambini. O una spiaggia degli anni ‘90, insieme a papà, quando uscivo dall’acqua e lui mi asciugava i capelli con l'asciugamano con gesti energici, tanto energici da farmi ridere.
Io adesso sono di nuovo lì, su quella spiaggia insiema a papà, nuoto, contemplo, mi perdo, faccio un tuffo, riemergo, mi tuffo di nuovo. Tutto torna bellissimo.