[MI151] Domani
Posted: Sun May 23, 2021 11:57 pm
Traccia di mezzogiorno
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Lo stomaco gli si attorcigliava come se avesse appena incassato un colpo d’incontro. Tutto quello che aveva sopportato e che aveva sacrificato era funzionale a quell’unico grande obiettivo, Brandon lo sapeva bene. Chiuse gli occhi, inspirò e – «professore, è il suo momento» – espirò. Quando sentì chiamare il suo nome dal palco si passò una mano tra i capelli bianchi, indossò un caloroso sorriso e uscì. Applausi. Dopo qualche breve presentazione – come se il mondo intero non avesse gli occhi puntati sulla sua ricerca – andò al punto.
«Ebbene, oggi sono qui con un messaggio per chi di voi ha creduto nel mio team fino in fondo: ce l’abbiamo fatta. Il trasferimento completo della mente umana in digitale è un processo efficace, sicuro e replicabile. Questo è il giorno in cui l’umanità esce vincitrice dallo scontro con il suo primo, grande rivale: la morte. Ognuno di voi-» Le parole gli morirono sulle labbra e indietreggiò d’istinto d’un passo dal microfono. Tra la folla esultante, un volto grigio con uno sguardo accusatore: Ernesto. Il mondo prese a roteare furiosamente attorno a Brandon e dovette reggersi all’asta del microfono per non cadere.
Un ricordo lontano, di quanto Ernesto era vivo. Brandon si fece largo tra i medici per raggiungere Ernesto che, liberato dai macchinari, a malapena si reggeva in piedi.
«Professore, non adesso», lo riprese uno dei medici.
«Ernesto, mi senti?»
«Smettila di gridare», biascicò lui. «Ci vuole altro per mettermi KO, lo sai».
Brandon lasciò i medici liberi di medicare l’amico. Tornò alla console, dove gli altri ricercatori stavano prendendo nota di tutto.
Lo aspettò a fine giornata all’uscita dell’università assieme ad Anna, stretta nel suo giubbotto mentre il vento le muoveva i capelli corvini e spostava le foglie di ginkgo a terra. Quando Ernesto uscì, Anna gli saltò al collo e nascose la testa tra le sue ampie spalle.
«Come ti senti?» Chiese Brandon.
«Benissimo», rispose lui. «Dai, andiamo». E senza aspettare risposta, si avviò lungo il marciapiede.
«Il solito locale?»
«Sì, il solito».
Seduti al tavolo del solito caffè, Ernesto chiese subito: «A che punto è la sincronizzazione?»
Brandon scosse la testa. «Nessun progresso. Credevamo di aver risolto il problema legato all’epifisi, ma l’abbiamo solo rimandato nel processo di lettura. Ernesto, non ti nascondo che comincio a preoccuparmi; normalmente avrei già fermato le sperimentazioni.»
«Non ho intenzione di tirarmi indietro alla prima difficoltà. È già scritto nella storia: io sono il primo essere umano che non morirà.»
«Non c’è bisogno che ti spinga a tanto, che sia tu il primo», Brandon abbassò lo sguardo. Le cose erano cambiate parecchio da quando il suo team aveva iniziato a seguirlo: Ernesto aveva scalato le classifiche mondiali della boxe e ora era nella top ten dei pesi medi.
«Proprio io? L’immortalità data dalla fama è un surrogato, quando la tua coscienza smetterà di esistere sparirà anch’essa.»
Brandon non aveva mai visto nessuno più vivo di Ernesto quando combatteva. Aveva una tecnica e una ferocia da fuori classe, ma soprattutto ogni volta che sembrava senza speranze si rialzava e tornava ad attaccare.
Aveva vinto lo scontro con il venezuelano Killer Oscar per KO al settimo round e tutto lo stadio si era messo a cantilenare il suo nome. Ernesto teneva il pugno alzato e sorrideva dietro la maschera di sangue. Il secondo era salito sul ring e anche Brandon era accorso per complimentarsi.
Era così fiero di essere amico di quel Dio greco. Aveva temuto non si sarebbe mai ripreso dall’abbandono di Anna, ma si sbagliava. Anna era stata la compagna di vita di Ernesto, almeno finché non era scappata assieme alla frontwoman della sua band. Brandon guardava con ammirazione la dolce dedizione che quel guerriero rivolgeva alla donna che amava.
Anche Ernesto, come Brandon, era ateo – anche per questo temeva la morte abbastanza per perseverare nelle ricerche – ma Brandon non poteva non leggere fede negli occhi con cui Ernesto guardava Anna. Diceva che sarebbero stati assieme per sempre, e Brandon non se la sentiva di dirgli che per sempre è un sacco di tempo.
Era solito parlare di lei come “la mia Kim Deal”, perché era la bassista di una band riot grrrl. Quando se n’era andata, e la realtà era crollata sulle spalle di Ernesto, Brandon l’aveva portato al solito caffè per offrirgli qualcosa da bere e una spalla su cui piangere.
S’erano conosciuti lì, in quel caffè. Quella notte si fissavano in silenzio, Brandon incuriosito ed Ernesto diffidente. «Vedi», Ernesto si decise di soddisfare la sua curiosità, «cinque giorni fa ho ucciso un uomo». Prese un lungo sorso di birra. «E la cosa peggiore è che la passerò liscia. Un colpo regolare, dicono, è stata solo sfortuna: il mio avversario ha picchiato la testa in modo anomalo sulle corde. Ma non sanno di che parlano: l’ho ammazzato, ti dico. E ora ho chiuso.»
«Ne vale la pena?» Chiese Brandon.
«Che?»
«Chiedo solo se sei sicuro. Per sempre è un sacco di tempo, e non mi sembra molto intelligente non darti la possibilità di cambiare idea.»
«Che differenza fa? Prima o poi-»
«E se ti dicessi di no?»
«Ti risponderei che non ti seguo».
Brandon si sporse sul tavolo. «Ho in mente una cosa. Un giorno avrò una cattedra e il mio gruppo di ricerca, e allora...»
Ernesto si era lasciato abbindolare dai sogni di cui Brandon stesso s’era ubriacato, ed era diventato il suo primo soggetto. Avevano passati decenni assieme e reso realtà pezzo per pezzo ciò che alcuni uomini non osavano neanche immaginare.
Era un giorno come un altro quello in cui Ernesto morì. Brandon era immerso nella lettura di un paio di documenti – non ricorda cosa, ma al momento gli sembravano le scartoffie più importanti al mondo – mentre si allontanava dall’università assieme a Ernesto.
Un camionista non aveva rispettato il rosso; gli altri pedoni se n’erano accorti, ma non Brandon, già sulle strisce pedonali. Quello di cui si rese conto fu invece una grande massa spingerlo in avanti, e quando si rialzò il camion era già passato ed Ernesto gli aveva già inesorabilmente salvato la vita.
Era stato il funerale più grandioso a cui Brandon avesse mai assistito e – si augurò – l’ultimo a cui avrebbe dovuto andare. Aveva tenuto un discorso in memoria dell’amico, aveva pianto. Mentre se ne andava, aveva incrociato gli occhi di una donna cerchiati dalle rughe. I capelli grigi rasati a spazzola, Anna gli si avvicinò, lasciando il braccio della compagna. Brandon aprì la bocca per dire qualcosa, ma lei lo precedette: «La sua vita è stata una barzelletta. La cosa più divertente è che è morto senza mai sapere se quello a cui si è sacrificato servirà a qualcosa o no. Ecco, solo...» Posò una mano sulla sua spalla. «Ti conviene riuscirci, okay?»
Ernesto aveva progettato la sua vita per i secoli a venire: posti da vedere, cose da imparare. E Brandon gliel’aveva portata via tanto facilmente quanto gliel’aveva salvata la notte che si erano conosciuti.
Stava tornando a casa dopo una nottata frenetica in laboratorio, quando aveva visto un’auto ferma in cima al cavalcavia e una sagoma stagliarsi sul parapetto contro la luce dei lampioni. Aveva accostato ed era sceso.
«Hey», aveva semplicemente detto. Aveva la testa troppo piena di formule d’informatica e nozioni di medicina per pensare a qualcosa di intelligente da dire. «Fa un po’ freddo ‘sta notte, non ti pare?»
Ernesto tacque brevemente, poi borbottò: «Molto freddo».
«Già, già. Conosco un caffè non troppo lontano, se scendi ti ci porto. Posso offrirti una birra?»
«Ebbene, oggi sono qui con un messaggio per chi di voi ha creduto nel mio team fino in fondo: ce l’abbiamo fatta. Il trasferimento completo della mente umana in digitale è un processo efficace, sicuro e replicabile. Questo è il giorno in cui l’umanità esce vincitrice dallo scontro con il suo primo, grande rivale: la morte. Ognuno di voi-» Le parole gli morirono sulle labbra e indietreggiò d’istinto d’un passo dal microfono. Tra la folla esultante, un volto grigio con uno sguardo accusatore: Ernesto. Il mondo prese a roteare furiosamente attorno a Brandon e dovette reggersi all’asta del microfono per non cadere.
Un ricordo lontano, di quanto Ernesto era vivo. Brandon si fece largo tra i medici per raggiungere Ernesto che, liberato dai macchinari, a malapena si reggeva in piedi.
«Professore, non adesso», lo riprese uno dei medici.
«Ernesto, mi senti?»
«Smettila di gridare», biascicò lui. «Ci vuole altro per mettermi KO, lo sai».
Brandon lasciò i medici liberi di medicare l’amico. Tornò alla console, dove gli altri ricercatori stavano prendendo nota di tutto.
Lo aspettò a fine giornata all’uscita dell’università assieme ad Anna, stretta nel suo giubbotto mentre il vento le muoveva i capelli corvini e spostava le foglie di ginkgo a terra. Quando Ernesto uscì, Anna gli saltò al collo e nascose la testa tra le sue ampie spalle.
«Come ti senti?» Chiese Brandon.
«Benissimo», rispose lui. «Dai, andiamo». E senza aspettare risposta, si avviò lungo il marciapiede.
«Il solito locale?»
«Sì, il solito».
Seduti al tavolo del solito caffè, Ernesto chiese subito: «A che punto è la sincronizzazione?»
Brandon scosse la testa. «Nessun progresso. Credevamo di aver risolto il problema legato all’epifisi, ma l’abbiamo solo rimandato nel processo di lettura. Ernesto, non ti nascondo che comincio a preoccuparmi; normalmente avrei già fermato le sperimentazioni.»
«Non ho intenzione di tirarmi indietro alla prima difficoltà. È già scritto nella storia: io sono il primo essere umano che non morirà.»
«Non c’è bisogno che ti spinga a tanto, che sia tu il primo», Brandon abbassò lo sguardo. Le cose erano cambiate parecchio da quando il suo team aveva iniziato a seguirlo: Ernesto aveva scalato le classifiche mondiali della boxe e ora era nella top ten dei pesi medi.
«Proprio io? L’immortalità data dalla fama è un surrogato, quando la tua coscienza smetterà di esistere sparirà anch’essa.»
Brandon non aveva mai visto nessuno più vivo di Ernesto quando combatteva. Aveva una tecnica e una ferocia da fuori classe, ma soprattutto ogni volta che sembrava senza speranze si rialzava e tornava ad attaccare.
Aveva vinto lo scontro con il venezuelano Killer Oscar per KO al settimo round e tutto lo stadio si era messo a cantilenare il suo nome. Ernesto teneva il pugno alzato e sorrideva dietro la maschera di sangue. Il secondo era salito sul ring e anche Brandon era accorso per complimentarsi.
Era così fiero di essere amico di quel Dio greco. Aveva temuto non si sarebbe mai ripreso dall’abbandono di Anna, ma si sbagliava. Anna era stata la compagna di vita di Ernesto, almeno finché non era scappata assieme alla frontwoman della sua band. Brandon guardava con ammirazione la dolce dedizione che quel guerriero rivolgeva alla donna che amava.
Anche Ernesto, come Brandon, era ateo – anche per questo temeva la morte abbastanza per perseverare nelle ricerche – ma Brandon non poteva non leggere fede negli occhi con cui Ernesto guardava Anna. Diceva che sarebbero stati assieme per sempre, e Brandon non se la sentiva di dirgli che per sempre è un sacco di tempo.
Era solito parlare di lei come “la mia Kim Deal”, perché era la bassista di una band riot grrrl. Quando se n’era andata, e la realtà era crollata sulle spalle di Ernesto, Brandon l’aveva portato al solito caffè per offrirgli qualcosa da bere e una spalla su cui piangere.
S’erano conosciuti lì, in quel caffè. Quella notte si fissavano in silenzio, Brandon incuriosito ed Ernesto diffidente. «Vedi», Ernesto si decise di soddisfare la sua curiosità, «cinque giorni fa ho ucciso un uomo». Prese un lungo sorso di birra. «E la cosa peggiore è che la passerò liscia. Un colpo regolare, dicono, è stata solo sfortuna: il mio avversario ha picchiato la testa in modo anomalo sulle corde. Ma non sanno di che parlano: l’ho ammazzato, ti dico. E ora ho chiuso.»
«Ne vale la pena?» Chiese Brandon.
«Che?»
«Chiedo solo se sei sicuro. Per sempre è un sacco di tempo, e non mi sembra molto intelligente non darti la possibilità di cambiare idea.»
«Che differenza fa? Prima o poi-»
«E se ti dicessi di no?»
«Ti risponderei che non ti seguo».
Brandon si sporse sul tavolo. «Ho in mente una cosa. Un giorno avrò una cattedra e il mio gruppo di ricerca, e allora...»
Ernesto si era lasciato abbindolare dai sogni di cui Brandon stesso s’era ubriacato, ed era diventato il suo primo soggetto. Avevano passati decenni assieme e reso realtà pezzo per pezzo ciò che alcuni uomini non osavano neanche immaginare.
Era un giorno come un altro quello in cui Ernesto morì. Brandon era immerso nella lettura di un paio di documenti – non ricorda cosa, ma al momento gli sembravano le scartoffie più importanti al mondo – mentre si allontanava dall’università assieme a Ernesto.
Un camionista non aveva rispettato il rosso; gli altri pedoni se n’erano accorti, ma non Brandon, già sulle strisce pedonali. Quello di cui si rese conto fu invece una grande massa spingerlo in avanti, e quando si rialzò il camion era già passato ed Ernesto gli aveva già inesorabilmente salvato la vita.
Era stato il funerale più grandioso a cui Brandon avesse mai assistito e – si augurò – l’ultimo a cui avrebbe dovuto andare. Aveva tenuto un discorso in memoria dell’amico, aveva pianto. Mentre se ne andava, aveva incrociato gli occhi di una donna cerchiati dalle rughe. I capelli grigi rasati a spazzola, Anna gli si avvicinò, lasciando il braccio della compagna. Brandon aprì la bocca per dire qualcosa, ma lei lo precedette: «La sua vita è stata una barzelletta. La cosa più divertente è che è morto senza mai sapere se quello a cui si è sacrificato servirà a qualcosa o no. Ecco, solo...» Posò una mano sulla sua spalla. «Ti conviene riuscirci, okay?»
Ernesto aveva progettato la sua vita per i secoli a venire: posti da vedere, cose da imparare. E Brandon gliel’aveva portata via tanto facilmente quanto gliel’aveva salvata la notte che si erano conosciuti.
Stava tornando a casa dopo una nottata frenetica in laboratorio, quando aveva visto un’auto ferma in cima al cavalcavia e una sagoma stagliarsi sul parapetto contro la luce dei lampioni. Aveva accostato ed era sceso.
«Hey», aveva semplicemente detto. Aveva la testa troppo piena di formule d’informatica e nozioni di medicina per pensare a qualcosa di intelligente da dire. «Fa un po’ freddo ‘sta notte, non ti pare?»
Ernesto tacque brevemente, poi borbottò: «Molto freddo».
«Già, già. Conosco un caffè non troppo lontano, se scendi ti ci porto. Posso offrirti una birra?»