[MI151] Le stanze
Posted: Sun May 23, 2021 11:41 pm
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Traccia di Mezzogiorno "A rebours"
Il freddo della pistola contro la mia tempia.
Sento la canna premere sulla pelle viscida di sudore, di paura.
La misera luce di un’alba grigia s’intrufola tra i tendaggi spessi, dando forma alla stanza disadorna, illuminata solo da una candela al centro del tavolo.
Mi fissano quattro sconosciuti che aspettano solo la mia morte. Non li avevo mai visti prima di questa maledetta nottata, gli auguro di crepare.
Il dito sul grilletto si contrae.
Se fosse possibile, giurerei di poter sentire il lento muoversi degli ingranaggi, il ruotare del tamburo che posiziona il proiettile in linea con la canna, il tendersi del cane un attimo prima di rinculare sulla cartuccia e farmi esplodere il cervello.
Tutto è istantaneo, non c’è realmente il tempo per riconoscere quei movimenti. C'è solamente l’attimo per chiedersi perché. Perché sto per morire? E ricordare un’ora prima, quando allentai il papillon, con gli occhi brucianti del fumo che riempiva l’altra stanza.
Mi tremavano le mani, ero solo. Non doveva andare così, il piano con Marco era un altro e non sapevo come fare senza di lui.
Se ne avessi avuto l’opportunità mi sarei alzato e sarei fuggito, ma non era possibile, non me lo avrebbero permesso. Perdevo quasi due milioni di euro. Soldi che non avevo; né io né il mio amico. Era per quel motivo che mi trovavo lì, con due carte coperte sul panno verde e la decisione della vita da prendere.
Il silenzio era assoluto. Eravamo in quattro a giocarci una fortuna.
Una donna con i capelli legati sulla nuca che lasciavano scoperto il collo, lungo e magro. Con il dito attorcigliava nervosa un filo di perle; perdeva quasi quanto me.
Di fronte a lei un ometto insignificante, con un gilet nero sulla camicia abbondantemente bagnata. Lui vinceva e aveva appena lasciato la mano.
Alla sua destra l’ultimo giocatore, paffuto e con profonde occhiaie scure, grondava sudore sulle fiche davanti a sé. Era più o meno in pari.
Toccava alla donna.
Io tenevo lo sguardo fisso sul dorso blu delle mie carte. Erano due 5: cuori e quadri.
Sul tavolo un asso di fiori, un 2 di picche, un 8 di fiori e gli altri due 5.
Avevo in mano un poker.
La donna avrebbe lasciato e l’altro l’avrebbe imitata, perché rischiare? Avrei recuperato i due testoni e addirittura ne avrei guadagnato uno. La mia vita e quella di Marco sarebbero state salve. Nonostan…
˗All-in!˗ esclamò la pazza, spingendo tutto quel che aveva in mezzo al tavolo.
La vista divenne bianca di panico. Perché? Perché aveva fatto quella mossa disperata? Che carte poteva avere?
Le mani tremarono ancor di più, mentre l’uomo paffuto lasciava il gioco. Eravamo io e lei.
Mi dissi che stava bluffando, mi ripetei di non aver paura.
Ma se avesse avuto un 6 e un 7 di fiori, o anche 3 e 4, avrebbe fatto scala colore. E io avrei perso tutto, compreso il mio futuro:
˗Vedo˗ dissi e “Dove sei, amico mio?” pensai frastornato.
Purtroppo lo sapevo bene.
Solo due ore prima eravamo insieme e felici.
La scatola con le fiche vinte tintinnava lieta mentre entravamo nella seconda stanza, eleganti nei nostri smoking ben stirati.
La fortuna ci aveva arriso e il piano funzionava. Adesso toccava alla mente del mio amico, eravamo al dunque.
La notte era giovane e tra poco saremmo stati sfacciatamente ricchi. Accettammo con piacere i sigari che ci offrì una ragazzetta, seduti sugli sgabelli del bar. Ordinammo due rum e stavo sorseggiando il mio, quando Marco mi diede di gomito. Seguii il suo sguardo fino a due bellezze all’altro estremo del bancone. Ci sorridemmo.
˗Cosa stanno bevendo le signore?˗ chiese al barman, un tizio con il naso storto e la mascella sporgente.
Lui lo guardò confuso:
˗Signore? Quali diavolo di signore?
Gliele indicò e l’altro scoppiò in una grassa risata:
-Justine e Sofie sono signore solo se avete soldi abbastanza! Oddio, ma da dove venite?˗ ci schernì.
Marco non demorse, dicendo che offriva loro un altro giro e che gli dicesse di aspettarci entro mezz’ora, che saremmo stati pieni di soldi.
Poi ci spostammo al banco del blackjack e il mio amico fece il miracolo. Io giocavo, lui stava in piedi dietro di me e mi toccava il braccio in modi diversi a seconda di quel che dovevo fare. La sua memoria prodigiosa contava le carte. Nessuno poteva immaginarlo, perché significava tenerne a mente 104, eppure lui ne era capace e come promesso, dopo neanche trenta minuti il nostro bottino era di quasi trecentomila euro.
Ci spostammo a un tavolino per una pausa, Marco ordinò champagne e quattro bicchieri. Ovviamente invitò le signore a farci compagnia.
Justine e Sofie erano veramente graziose nei loro abitini dorati, con le spalline fini e gli orecchini pendenti. Parlavano un falso accento francese.
˗Da dove venite?
Marco diede la sua classica risposta, sorridendo malizioso:
˗Noi veniamo da Amor.
Risolini falsamente ingenui delle due ragazze, che non capirono lo scherzo. Per cui, come sempre, intervenni io:
-Roma. Amor è Roma al contrario.
-Uffa, io preferivo Amor˗ s’imbronciò Sofie.
Marco prese alcune fiche e s’alzò in piedi. Tese la mano alla ragazza e:
-Allora andiamo˗ disse, mentre lo imitavo con l’altra.
Mezz’ora dopo avevamo ripreso a vincere, carichi e appagati. Tutto andava come previsto, ancora qualche buona mano, poi avremmo perso qualcosa per motivare il nostro abbandono.
Ce ne saremmo andati più ricchi che mai.
Tutto perfetto, finché non notai Justine parlottare con una guardia e Marco stringermi con forza la spalla.
˗Ho fatto una cazzata, amico˗ gli sussurrai.
Capì che mi ero lasciato andare con la signora, che mi ero vantato delle sue capacità. Che ci avevo fottuti.
Mi si gelò il sangue nelle vene, in quel luogo non avevano pietà per bari e complici.
Non ebbi nemmeno il tempo di pensare alla fuga, che già Marco veniva trascinato via da due energumeni e un terzo si piazzava al suo posto:
˗Gioca˗ mi intimò.
Sapevo che avrei perso tutto, era certo, speravo solo che mi lasciassero andare prima di finire rovinato.
Maledicevo la mia stupidità, il mio maledetto piano e la supponenza con cui ci eravamo ficcati in quel guaio.
Avevamo cenato vicino al Valentino. Sui letti della pensione ci aspettavano gli smoking a nolo, in tasca diecimila euro, ricavati vendendo le nostre auto.
˗E se perdiamo tutto, Marco?
˗Non succederà, sarà il destino a guidarci. La prima stanza è quella del bacarat, lì è solo fortuna, io non posso farci niente. Se vinceremo sarà il segno della buona sorte e, se sarà abbastanza, ci inviteranno nella stanza del blackjack. Una volta lì ci penserò io, tranquillo. Ricordi i segni?
Annuii, li avevamo ripassati decine di volte da quando gli avevo parlato di quel casinò clandestino a Torino. Me lo aveva spifferato il figlio della vicina, con un braccio appeso al collo e il volto tumefatto.
˗È senza limiti˗ mi aveva spiegato, ˗Se sei fortunato puoi fare un sacco di grana.
Non ero ancora rientrato a casa che già pianificavo.
L’importante, mi dicevo, è non perdere più di quanto si possiede. Sapevo dal vicino che se fosse accaduto nella stanza del blackjack mi avrebbero spezzato le ossa. Oppure avrei potuto provare a rifarmi nella stanza del poker.
No, non avrei mai chiesto di andarci, perché significava potersi arricchire tanto quanto finire senza un futuro o, se eri abbastanza disperato, dover chiedere di passare nell’ultima stanza: quella dove era possibile azzerare ogni debito e tornare a casa integro.
Quella che si apriva solo quando i disperati erano cinque e dove una pistola veniva caricata con un solo proiettile. Dove ognuno doveva puntarsela alla tempia per spararsi, e se il colpo fosse andato a vuoto, passarla al successivo. A turno, finché non saltava la prima testa.
Ma io già elaboravo il piano, vedendomi ricco e dicendomi che per nulla al mondo sarei finito nell’ultima stanza. Non sarebbe accaduto.
Anche se non potevo fare a meno di rabbrividire, quasi eccitarmi con gli occhi chiusi, immaginandomi in una stanza buia, pregna di terrore, con il freddo della pistola contro la mia tempia, la canna che preme sulla pelle, viscida di paura.
Sì, quasi lo desiderai.
Traccia di Mezzogiorno "A rebours"
Il freddo della pistola contro la mia tempia.
Sento la canna premere sulla pelle viscida di sudore, di paura.
La misera luce di un’alba grigia s’intrufola tra i tendaggi spessi, dando forma alla stanza disadorna, illuminata solo da una candela al centro del tavolo.
Mi fissano quattro sconosciuti che aspettano solo la mia morte. Non li avevo mai visti prima di questa maledetta nottata, gli auguro di crepare.
Il dito sul grilletto si contrae.
Se fosse possibile, giurerei di poter sentire il lento muoversi degli ingranaggi, il ruotare del tamburo che posiziona il proiettile in linea con la canna, il tendersi del cane un attimo prima di rinculare sulla cartuccia e farmi esplodere il cervello.
Tutto è istantaneo, non c’è realmente il tempo per riconoscere quei movimenti. C'è solamente l’attimo per chiedersi perché. Perché sto per morire? E ricordare un’ora prima, quando allentai il papillon, con gli occhi brucianti del fumo che riempiva l’altra stanza.
Mi tremavano le mani, ero solo. Non doveva andare così, il piano con Marco era un altro e non sapevo come fare senza di lui.
Se ne avessi avuto l’opportunità mi sarei alzato e sarei fuggito, ma non era possibile, non me lo avrebbero permesso. Perdevo quasi due milioni di euro. Soldi che non avevo; né io né il mio amico. Era per quel motivo che mi trovavo lì, con due carte coperte sul panno verde e la decisione della vita da prendere.
Il silenzio era assoluto. Eravamo in quattro a giocarci una fortuna.
Una donna con i capelli legati sulla nuca che lasciavano scoperto il collo, lungo e magro. Con il dito attorcigliava nervosa un filo di perle; perdeva quasi quanto me.
Di fronte a lei un ometto insignificante, con un gilet nero sulla camicia abbondantemente bagnata. Lui vinceva e aveva appena lasciato la mano.
Alla sua destra l’ultimo giocatore, paffuto e con profonde occhiaie scure, grondava sudore sulle fiche davanti a sé. Era più o meno in pari.
Toccava alla donna.
Io tenevo lo sguardo fisso sul dorso blu delle mie carte. Erano due 5: cuori e quadri.
Sul tavolo un asso di fiori, un 2 di picche, un 8 di fiori e gli altri due 5.
Avevo in mano un poker.
La donna avrebbe lasciato e l’altro l’avrebbe imitata, perché rischiare? Avrei recuperato i due testoni e addirittura ne avrei guadagnato uno. La mia vita e quella di Marco sarebbero state salve. Nonostan…
˗All-in!˗ esclamò la pazza, spingendo tutto quel che aveva in mezzo al tavolo.
La vista divenne bianca di panico. Perché? Perché aveva fatto quella mossa disperata? Che carte poteva avere?
Le mani tremarono ancor di più, mentre l’uomo paffuto lasciava il gioco. Eravamo io e lei.
Mi dissi che stava bluffando, mi ripetei di non aver paura.
Ma se avesse avuto un 6 e un 7 di fiori, o anche 3 e 4, avrebbe fatto scala colore. E io avrei perso tutto, compreso il mio futuro:
˗Vedo˗ dissi e “Dove sei, amico mio?” pensai frastornato.
Purtroppo lo sapevo bene.
Solo due ore prima eravamo insieme e felici.
La scatola con le fiche vinte tintinnava lieta mentre entravamo nella seconda stanza, eleganti nei nostri smoking ben stirati.
La fortuna ci aveva arriso e il piano funzionava. Adesso toccava alla mente del mio amico, eravamo al dunque.
La notte era giovane e tra poco saremmo stati sfacciatamente ricchi. Accettammo con piacere i sigari che ci offrì una ragazzetta, seduti sugli sgabelli del bar. Ordinammo due rum e stavo sorseggiando il mio, quando Marco mi diede di gomito. Seguii il suo sguardo fino a due bellezze all’altro estremo del bancone. Ci sorridemmo.
˗Cosa stanno bevendo le signore?˗ chiese al barman, un tizio con il naso storto e la mascella sporgente.
Lui lo guardò confuso:
˗Signore? Quali diavolo di signore?
Gliele indicò e l’altro scoppiò in una grassa risata:
-Justine e Sofie sono signore solo se avete soldi abbastanza! Oddio, ma da dove venite?˗ ci schernì.
Marco non demorse, dicendo che offriva loro un altro giro e che gli dicesse di aspettarci entro mezz’ora, che saremmo stati pieni di soldi.
Poi ci spostammo al banco del blackjack e il mio amico fece il miracolo. Io giocavo, lui stava in piedi dietro di me e mi toccava il braccio in modi diversi a seconda di quel che dovevo fare. La sua memoria prodigiosa contava le carte. Nessuno poteva immaginarlo, perché significava tenerne a mente 104, eppure lui ne era capace e come promesso, dopo neanche trenta minuti il nostro bottino era di quasi trecentomila euro.
Ci spostammo a un tavolino per una pausa, Marco ordinò champagne e quattro bicchieri. Ovviamente invitò le signore a farci compagnia.
Justine e Sofie erano veramente graziose nei loro abitini dorati, con le spalline fini e gli orecchini pendenti. Parlavano un falso accento francese.
˗Da dove venite?
Marco diede la sua classica risposta, sorridendo malizioso:
˗Noi veniamo da Amor.
Risolini falsamente ingenui delle due ragazze, che non capirono lo scherzo. Per cui, come sempre, intervenni io:
-Roma. Amor è Roma al contrario.
-Uffa, io preferivo Amor˗ s’imbronciò Sofie.
Marco prese alcune fiche e s’alzò in piedi. Tese la mano alla ragazza e:
-Allora andiamo˗ disse, mentre lo imitavo con l’altra.
Mezz’ora dopo avevamo ripreso a vincere, carichi e appagati. Tutto andava come previsto, ancora qualche buona mano, poi avremmo perso qualcosa per motivare il nostro abbandono.
Ce ne saremmo andati più ricchi che mai.
Tutto perfetto, finché non notai Justine parlottare con una guardia e Marco stringermi con forza la spalla.
˗Ho fatto una cazzata, amico˗ gli sussurrai.
Capì che mi ero lasciato andare con la signora, che mi ero vantato delle sue capacità. Che ci avevo fottuti.
Mi si gelò il sangue nelle vene, in quel luogo non avevano pietà per bari e complici.
Non ebbi nemmeno il tempo di pensare alla fuga, che già Marco veniva trascinato via da due energumeni e un terzo si piazzava al suo posto:
˗Gioca˗ mi intimò.
Sapevo che avrei perso tutto, era certo, speravo solo che mi lasciassero andare prima di finire rovinato.
Maledicevo la mia stupidità, il mio maledetto piano e la supponenza con cui ci eravamo ficcati in quel guaio.
Avevamo cenato vicino al Valentino. Sui letti della pensione ci aspettavano gli smoking a nolo, in tasca diecimila euro, ricavati vendendo le nostre auto.
˗E se perdiamo tutto, Marco?
˗Non succederà, sarà il destino a guidarci. La prima stanza è quella del bacarat, lì è solo fortuna, io non posso farci niente. Se vinceremo sarà il segno della buona sorte e, se sarà abbastanza, ci inviteranno nella stanza del blackjack. Una volta lì ci penserò io, tranquillo. Ricordi i segni?
Annuii, li avevamo ripassati decine di volte da quando gli avevo parlato di quel casinò clandestino a Torino. Me lo aveva spifferato il figlio della vicina, con un braccio appeso al collo e il volto tumefatto.
˗È senza limiti˗ mi aveva spiegato, ˗Se sei fortunato puoi fare un sacco di grana.
Non ero ancora rientrato a casa che già pianificavo.
L’importante, mi dicevo, è non perdere più di quanto si possiede. Sapevo dal vicino che se fosse accaduto nella stanza del blackjack mi avrebbero spezzato le ossa. Oppure avrei potuto provare a rifarmi nella stanza del poker.
No, non avrei mai chiesto di andarci, perché significava potersi arricchire tanto quanto finire senza un futuro o, se eri abbastanza disperato, dover chiedere di passare nell’ultima stanza: quella dove era possibile azzerare ogni debito e tornare a casa integro.
Quella che si apriva solo quando i disperati erano cinque e dove una pistola veniva caricata con un solo proiettile. Dove ognuno doveva puntarsela alla tempia per spararsi, e se il colpo fosse andato a vuoto, passarla al successivo. A turno, finché non saltava la prima testa.
Ma io già elaboravo il piano, vedendomi ricco e dicendomi che per nulla al mondo sarei finito nell’ultima stanza. Non sarebbe accaduto.
Anche se non potevo fare a meno di rabbrividire, quasi eccitarmi con gli occhi chiusi, immaginandomi in una stanza buia, pregna di terrore, con il freddo della pistola contro la mia tempia, la canna che preme sulla pelle, viscida di paura.
Sì, quasi lo desiderai.