Muffa
Posted: Wed May 12, 2021 6:58 pm
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Mi rimangono pochi giorni, e non mi dispiace non poterli vivere in altro modo che stando disteso su questa branda. Potessi andare fuori, in strada o al parco, chissà come sprecherei il tempo. Una scusa per non alzarmi era proprio quello che mi serviva, e da quando ho accavallato le gambe e incrociato le mani dietro la nuca per dedicarmi alla contemplazione del soffitto sono passati tre giorni, ma potrebbero essere anche quattro, cinque, come potrebbe essere successo appena cinque minuti fa.
Nella luce scarna colgo solo impressioni della vita che si anima sopra di me. Poco male, quello che non vedo lo invento. Una mosca cerca di sfondare il vetro della lampadina, facendo oscillare in modo impercettibile il bulbo. La ragnatela alla base del filo, che poi corre fino alla finestra, sembra disabitata. Chissà se un ragno porta con sé qualcosa quando se ne va, anche se forse è semplicemente morto. In ogni caso ne sarà contenta la mosca, che poi è solo la dimostrazione di quello che dicevo prima – ma prima quando? È finalmente libera dal suo predatore e l'unica cosa che è capace di fare è sbattere contro il vetro di una lampadina. C'è anche un geco nell'angolo alla mia sinistra, e una fila di formiche porta minuzzoli fuori dalla finestra.
Ciò che fin da subito ha attirato la mia attenzione, però, è stato un luogo a sud est della lampadina. Non so se quello sia veramente il sud-est, ma mi piace immaginare questo soffitto come un continente.
Non c'era niente, lì. Si può dire che fosse un punto morto, una depressione. Poi è spuntata lei. Dapprima era solo una lieve linea azzurro pallido, ma si è espansa a mano a mano dai lembi di una crepa nel soffitto, come sangue da una ferita superficiale. Quella minuscola patina di vita è rimasta incerta per lungo tempo, in equilibrio sull'oblio. L’ho osservata, protendersi e ritrarsi, gonfiarsi e diminuire fino a, diventare solo un’impressione appena più scura della vernice unta del soffitto. E a ogni mutamento il mio cuore palpitava.
Un cielo azzimo, fuori dalla finestra, voleva ucciderla. L’aria secca la strangolava, risucchiandole vitalità. Quando la cornice della finestra s’è tinta di grigio di nubi, ed è caduta la pioggia, ho ringraziato che non ci siano vetri. L'umidità è esondata nella cella e lei se n’è nutrita, irrobustendosi.
Si è espansa, chiazza di liquido lasciato spillare sulla terra di quel mondo capovolto. Assorbiva tutta la mia attenzione. D'altronde pensare al passato non aveva senso – strepitare, piangere, pentirsi non lo avrebbero mutato di un granello – e, tantomeno, rivolgersi al futuro. Meglio concentrarsi soltanto sull’assoluto presente.
Ha assunto, nel suo fiorire, colori sempre più sgargianti. Mentre alle estremità si tingeva, infatti, d'una sfumatura lillà, carezzandola con lo sguardo incontravo toni di blu acquamarina, viola, nero, bianco e di un giallo che ho visto così pieno soltanto nei narcisi che coltivava mia madre. Ero sereno. Sapere che qualcosa di così esuberante avrebbe continuato a esistere dopo che mi avrebbero condotto via per sempre dava un senso di calma.
Poi, però è accaduto qualcosa.
Cessata la pioggia qualcuno ha acceso un grande fuoco nel cortile. Un fumo nero e acre è entrato dalla finestra, facendomi tossire e lacrimare. Mi sono avvolto le lenzuola sulla testa e mi sono rifugiato sotto la branda, dove il fumo era meno denso. Sentivo le urla e i lamenti degli altri prigionieri, e il clangore delle loro gamelle sbattute sulle sbarre. Io me ne stavo zitto, piangendo in silenzio. Inutile strepitare, nessuno avrebbe spento il fuoco. Sentivo la polvere intasarmi il naso, e i suoi granelli grattarmi la schiena attraverso la tela della camicia. Vedevo il materasso a pochi centimetri dal naso, anch'esso maculato d'infiorescenze, meno affascinanti, però, di quella sul soffitto. Erano soltanto diffuse macchie grigie, striate appena dalla ruggine della rete del letto. Accanto alla mia mano destra c’era un mucchietto d’escrementi di topo. Appena l'aria è tornata ad essere ammorbata solo dai consueti odori – cavolo bollito, urina, paglia bagnata – senza più quello del fumo, sono uscito dal mio riparo.
Lei era avvizzita, morta. Sono rimasto a guardarla, a bocca aperta, inorridito. Le sue propaggini, non più umide, s'erano annodate chinando il capo, fiori estenuati dal troppo calore. I suoi lembi, poco prima gonfi e porosi, adesso si squamavano, scagliando verso il suolo una nevicata pulviscolare.
Che cosa ero, io, se di me non sarebbe rimasta neanche quella muffa?
Mi sono gettato sul secchio che stava in un angolo e, incurante che l'acqua fosse sporca dei miei escrementi, vi ho tuffato una mano, cercando di spruzzare la muffa. Alcune gocce mi sono cadute sulla camicia, fra i peli del petto, fra i capelli. Poco m'importava. Che si debba andare con dignità verso la morte è un’immensa fesseria. Se qualcuno dovesse sottolineare le nostre condizioni ignobili, non avremmo comunque orecchie con cui ascoltarlo.
Comunque, dovevo apparire veramente strano, perché quando la porta si è spalancata, rivelando il volto bugnato del secondino, col collo flaccido che inglobava il bottone del colletto, lui mi ha guardato stupito e ci ha esitato, prima di rivelarmi il messaggio che portava.
«Domani» ha detto. Deve aver letto, poi, la domanda nei miei occhi perché
«Sul far del mattino» ha aggiunto prima di sparire.
Potreste pensare che la mia domanda inespressa servisse a capire quanto ancora mi restasse da vivere, ma vi sbagliate. Volevo sapere quanto tempo avevo per far sì che lei rifiorisse.
M'importava immensamente di più di quella muffa che di tutta la gente che avevo sotterrato nel giardino della villa dei miei. Quella era tutta gente inutile, e ci metto anche i miei genitori, badate bene, mentre lei dava senso ai miei ultimi giorni.
L’ho guardata. Dove l'acqua aveva colpito i pelucchi s’erano afflosciati in una poltiglia scura. Il cuore, invece, era sgonfio, e vi si era aperto un foro da cui emanavano spore, ultimo fiato da una bocca morente. Gridando ho scagliato il secchio contro il muro e sono caduto in ginocchio. Sono rimasto così, singhiozzando, finché non ho sentito il liquame colarmi fra le dita dei piedi. Mi sono arrampicato sul letto e lì, ancora affogando nel pianto, mi sono addormentato.
Sono caduto in un deliquio di sogni febbricitanti, e ho attraversato un acquitrino d'immagini insensate per ritrovarmi, infine, nella mia cella. Era ben diversa dalla realtà. La crepa nel soffitto era un orrido da cui la muffa fuoriusciva tentacolare, foderando tutta la stanza con un tappeto d'infiorescenze. Petali carnosi traspiravano protendendo pistilli di un color paglierino sgargiante. Scrigni di foglie nerborute s'aprivano sbuffando un effluvio di erba tagliata dopo la pioggia, e una lanugine rosata avvolgeva ogni cosa.
Mi sono rannicchiavo sotto le fronde azzurre di un gigantesco fiore, dove le muffe mi pizzicavano il volto. Mi addormentavo, e, mentre giacevo, la muffa mi avvolgeva.
Mi svegliano uno scossone e un cazzotto nelle costole. Il giardino di muffe è sparito. Al suo posto son tornate le solite mura sporche di feci. Le guardie mi sollevano di peso e mi trascinano fin sulla porta. Mi aggrappo al muro. Altri colpi, ma io alzo lo sguardo al soffitto. Lei è lì, rigogliosa. I suoi stami hanno rialzato la testa, germogliando sulla morte dei loro simili, e i suoi colori rilucono cangianti nell’aria opalescente dell’alba. Sorrido, di un sorriso che non s’infrange neanche quando un altro pugno mi squassa lo stomaco. Mi stacco dal muro, una cosa che spero lei non farà mai, e mi lascio portar via. Attraverso oscuri corridoi mi conducono alla forca mentre rido felice.
Mi rimangono pochi giorni, e non mi dispiace non poterli vivere in altro modo che stando disteso su questa branda. Potessi andare fuori, in strada o al parco, chissà come sprecherei il tempo. Una scusa per non alzarmi era proprio quello che mi serviva, e da quando ho accavallato le gambe e incrociato le mani dietro la nuca per dedicarmi alla contemplazione del soffitto sono passati tre giorni, ma potrebbero essere anche quattro, cinque, come potrebbe essere successo appena cinque minuti fa.
Nella luce scarna colgo solo impressioni della vita che si anima sopra di me. Poco male, quello che non vedo lo invento. Una mosca cerca di sfondare il vetro della lampadina, facendo oscillare in modo impercettibile il bulbo. La ragnatela alla base del filo, che poi corre fino alla finestra, sembra disabitata. Chissà se un ragno porta con sé qualcosa quando se ne va, anche se forse è semplicemente morto. In ogni caso ne sarà contenta la mosca, che poi è solo la dimostrazione di quello che dicevo prima – ma prima quando? È finalmente libera dal suo predatore e l'unica cosa che è capace di fare è sbattere contro il vetro di una lampadina. C'è anche un geco nell'angolo alla mia sinistra, e una fila di formiche porta minuzzoli fuori dalla finestra.
Ciò che fin da subito ha attirato la mia attenzione, però, è stato un luogo a sud est della lampadina. Non so se quello sia veramente il sud-est, ma mi piace immaginare questo soffitto come un continente.
Non c'era niente, lì. Si può dire che fosse un punto morto, una depressione. Poi è spuntata lei. Dapprima era solo una lieve linea azzurro pallido, ma si è espansa a mano a mano dai lembi di una crepa nel soffitto, come sangue da una ferita superficiale. Quella minuscola patina di vita è rimasta incerta per lungo tempo, in equilibrio sull'oblio. L’ho osservata, protendersi e ritrarsi, gonfiarsi e diminuire fino a, diventare solo un’impressione appena più scura della vernice unta del soffitto. E a ogni mutamento il mio cuore palpitava.
Un cielo azzimo, fuori dalla finestra, voleva ucciderla. L’aria secca la strangolava, risucchiandole vitalità. Quando la cornice della finestra s’è tinta di grigio di nubi, ed è caduta la pioggia, ho ringraziato che non ci siano vetri. L'umidità è esondata nella cella e lei se n’è nutrita, irrobustendosi.
Si è espansa, chiazza di liquido lasciato spillare sulla terra di quel mondo capovolto. Assorbiva tutta la mia attenzione. D'altronde pensare al passato non aveva senso – strepitare, piangere, pentirsi non lo avrebbero mutato di un granello – e, tantomeno, rivolgersi al futuro. Meglio concentrarsi soltanto sull’assoluto presente.
Ha assunto, nel suo fiorire, colori sempre più sgargianti. Mentre alle estremità si tingeva, infatti, d'una sfumatura lillà, carezzandola con lo sguardo incontravo toni di blu acquamarina, viola, nero, bianco e di un giallo che ho visto così pieno soltanto nei narcisi che coltivava mia madre. Ero sereno. Sapere che qualcosa di così esuberante avrebbe continuato a esistere dopo che mi avrebbero condotto via per sempre dava un senso di calma.
Poi, però è accaduto qualcosa.
Cessata la pioggia qualcuno ha acceso un grande fuoco nel cortile. Un fumo nero e acre è entrato dalla finestra, facendomi tossire e lacrimare. Mi sono avvolto le lenzuola sulla testa e mi sono rifugiato sotto la branda, dove il fumo era meno denso. Sentivo le urla e i lamenti degli altri prigionieri, e il clangore delle loro gamelle sbattute sulle sbarre. Io me ne stavo zitto, piangendo in silenzio. Inutile strepitare, nessuno avrebbe spento il fuoco. Sentivo la polvere intasarmi il naso, e i suoi granelli grattarmi la schiena attraverso la tela della camicia. Vedevo il materasso a pochi centimetri dal naso, anch'esso maculato d'infiorescenze, meno affascinanti, però, di quella sul soffitto. Erano soltanto diffuse macchie grigie, striate appena dalla ruggine della rete del letto. Accanto alla mia mano destra c’era un mucchietto d’escrementi di topo. Appena l'aria è tornata ad essere ammorbata solo dai consueti odori – cavolo bollito, urina, paglia bagnata – senza più quello del fumo, sono uscito dal mio riparo.
Lei era avvizzita, morta. Sono rimasto a guardarla, a bocca aperta, inorridito. Le sue propaggini, non più umide, s'erano annodate chinando il capo, fiori estenuati dal troppo calore. I suoi lembi, poco prima gonfi e porosi, adesso si squamavano, scagliando verso il suolo una nevicata pulviscolare.
Che cosa ero, io, se di me non sarebbe rimasta neanche quella muffa?
Mi sono gettato sul secchio che stava in un angolo e, incurante che l'acqua fosse sporca dei miei escrementi, vi ho tuffato una mano, cercando di spruzzare la muffa. Alcune gocce mi sono cadute sulla camicia, fra i peli del petto, fra i capelli. Poco m'importava. Che si debba andare con dignità verso la morte è un’immensa fesseria. Se qualcuno dovesse sottolineare le nostre condizioni ignobili, non avremmo comunque orecchie con cui ascoltarlo.
Comunque, dovevo apparire veramente strano, perché quando la porta si è spalancata, rivelando il volto bugnato del secondino, col collo flaccido che inglobava il bottone del colletto, lui mi ha guardato stupito e ci ha esitato, prima di rivelarmi il messaggio che portava.
«Domani» ha detto. Deve aver letto, poi, la domanda nei miei occhi perché
«Sul far del mattino» ha aggiunto prima di sparire.
Potreste pensare che la mia domanda inespressa servisse a capire quanto ancora mi restasse da vivere, ma vi sbagliate. Volevo sapere quanto tempo avevo per far sì che lei rifiorisse.
M'importava immensamente di più di quella muffa che di tutta la gente che avevo sotterrato nel giardino della villa dei miei. Quella era tutta gente inutile, e ci metto anche i miei genitori, badate bene, mentre lei dava senso ai miei ultimi giorni.
L’ho guardata. Dove l'acqua aveva colpito i pelucchi s’erano afflosciati in una poltiglia scura. Il cuore, invece, era sgonfio, e vi si era aperto un foro da cui emanavano spore, ultimo fiato da una bocca morente. Gridando ho scagliato il secchio contro il muro e sono caduto in ginocchio. Sono rimasto così, singhiozzando, finché non ho sentito il liquame colarmi fra le dita dei piedi. Mi sono arrampicato sul letto e lì, ancora affogando nel pianto, mi sono addormentato.
Sono caduto in un deliquio di sogni febbricitanti, e ho attraversato un acquitrino d'immagini insensate per ritrovarmi, infine, nella mia cella. Era ben diversa dalla realtà. La crepa nel soffitto era un orrido da cui la muffa fuoriusciva tentacolare, foderando tutta la stanza con un tappeto d'infiorescenze. Petali carnosi traspiravano protendendo pistilli di un color paglierino sgargiante. Scrigni di foglie nerborute s'aprivano sbuffando un effluvio di erba tagliata dopo la pioggia, e una lanugine rosata avvolgeva ogni cosa.
Mi sono rannicchiavo sotto le fronde azzurre di un gigantesco fiore, dove le muffe mi pizzicavano il volto. Mi addormentavo, e, mentre giacevo, la muffa mi avvolgeva.
Mi svegliano uno scossone e un cazzotto nelle costole. Il giardino di muffe è sparito. Al suo posto son tornate le solite mura sporche di feci. Le guardie mi sollevano di peso e mi trascinano fin sulla porta. Mi aggrappo al muro. Altri colpi, ma io alzo lo sguardo al soffitto. Lei è lì, rigogliosa. I suoi stami hanno rialzato la testa, germogliando sulla morte dei loro simili, e i suoi colori rilucono cangianti nell’aria opalescente dell’alba. Sorrido, di un sorriso che non s’infrange neanche quando un altro pugno mi squassa lo stomaco. Mi stacco dal muro, una cosa che spero lei non farà mai, e mi lascio portar via. Attraverso oscuri corridoi mi conducono alla forca mentre rido felice.