[MI150] Guglielmina, detta Mina
Posted: Sun May 09, 2021 10:24 pm
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traccia di mezzogiorno
Mia nonna Artemisia era magra come uno stecchino, sembrava un’indossatrice tanto si muoveva con grazia ed eleganza. Portava sempre gonna, golfino e camicetta accompagnate da un paio di scarpe con i tacchi. Non credo di averla mia vista in ciabatte, addirittura in camicia da notte e vestaglia portava pantofoline en pendant dal tacco leggero con un batuffolo di pelo decorativo in punta. L’unica eccezione erano gli scarponi da montagna per le passeggiate in alta quota che lei adorava, ma anche in quell’occasione rigorosamente in gonna.
Non amava i gioielli. Al collo e alle orecchie non portava nulla. Sulla mano sinistra aveva un brillante meraviglioso e al polso un orologio ovale.
Mi ricordo che da piccola mi diceva sempre:” Sei in ritardo tesoro, aspetta che metto indietro l’orologio di dieci minuti, così arrivi dalla mamma puntuale!” Allora aspettavo che lei portasse indietro di dieci minuti le lancette e correvo più che potevo fino a casa. Non sono mai arrivata in ritardo, un po’ credevo all’orologio, ma ero molto più convinta di essere veloce come un fulmine.
La nonna abitava da sola in una villetta decaduta circondata da un meraviglioso e selvaggio giardino. Le ortensie assieme alle rose avevano preso il sopravvento creando uno spettacolo meraviglioso. In primavera erano i tulipani assieme ai mughetti ad avere la meglio lungo il breve vialetto che dalla strada portava alla porta di casa.
I miei genitori ed io abitavamo due case più in là. Così aveva voluto il papà che era figlio unico e che non voleva lasciare da sola sua mamma da quando era diventata vedova. Mio fratello diceva sempre: ” Papà, sei un mammone!”, ma era lui l’unico che passava tutti i giorni dalla nonna e nel suo garage suonava la chitarra elettrica a tutto volume. Lei faceva il trucchetto dei dieci minuti anche con mio fratello.
Mia nonna però non era per nulla invadente, non organizzava pranzi domenicali se non per certe occasioni speciali, non veniva mai a trovarci se non invitata, ma era sempre felice se qualcuno di noi passava a trovarla.
Certo così era più facile per noi. Niente musi se le preferivamo i nostri amici oppure se per qualche settimana ce la dimenticavamo.
Lei aveva sempre da fare: leggeva, dipingeva acquarelli, faceva lunghe passeggiate e poi le piaceva da matti raccontare storie di tutti i tipi e generi.
Rimanevo spesso a dormire nella sua stanza degli ospiti che un po’ era diventata mia. Mi ero fermata lì per studiare per la maturità, mi ci sono anche ritirata per preparare la mia tesi di laurea.
Negli anni mia nonna mi aveva raccontato la storia del suo orologio: era appartenuto a sua mamma, e prima ancora alla nonna e alla bisnonna. L’orologio era incastonato in un cinturino di maglia dorata, elegante come lei. Mi raccontava tutti i suoi pregi: resisteva all’acqua e si caricava da solo con il movimento del polso. Non aveva mai sentito che si fosse fermato o rotto negli anni.
Il quadrante era ovale color avorio, di fianco ai dodici numeri c’era un puntino dorato. Non si poteva mai sapere se erano precisamente le dodici e diciassette oppure le dodici e diciotto, ma secondo mia nonna bastava contare il tempo di cinque minuti in cinque minuti. Quello che c’era nello spazio fra due puntini bisognava impiegarlo in qualcosa di più costruttivo che fissare un orologio.
A me piaceva perché da nessuna parte c’era scritta la marca e perché nascondeva dei rubini al suo interno. Mia nonna diceva che veniva da Neuchâtel in Svizzera. Mi raccontava che la sua bisnonna Guglielmina, detta Mina era andata proprio lì in villeggiatura con sua mamma Clotilde e mentre camminavano sul lungolago un giovane orologiaio si era perdutamente innamorato di lei. Mina però si era già mezza promessa a un medico, inoltre il francese lo parlava poco e male. L’orologiaio, che pare si chiamasse Balthazar, passava tutte le mattine e tutte le sere per vederla. Alle volte le portava un fiore rubato, altre un piccolo dolce. L’ultima sera si rivolse a Clotilde per chiedere la mano di Mina. La chiese in ginocchio con gli occhi tristi, come se avesse già saputo di essere rifiutato.
Al mattino, poco prima di partire, una servetta portò un minuscolo pacchetto a Mina che se lo mise nella tasca del soprabito senza prestarci troppa attenzione. Arrivata a casa vi trovò l’orologio accompagnato da un bigliettino: ”Ti amerò per sempre, di cinque minuti in cinque minuti. B.”
Da quel giorno l’orologio è sempre rimasto in famiglia passando di donna in donna. Nei miei sogni di ragazzina mi vedevo con l’orologio al polso a braccetto con l’orologiaio Balthazar che mi aveva ritrovato, visto che mi chiamo Guglielmina, detta Mina, anch’io.
Mio fratello ed io parlavamo spesso di quell’orologio e ci piaceva molto quando la nonna tirava indietro le lancette.
Alle volte le dicevamo che ci servivano solo cinque minuti, altre chiedevamo un quarto d’ora per andare a comprare il giornaletto all’edicola prima di tornare a casa.
Crescendo ci sembrava solo un gioco, anche se prima di salutarla davamo un’occhiata al pendolo del salotto per vedere se davvero stesse cambiando qualcosa.
Durante l’adolescenza ho considerato il suo:” Sei in ritardo tesoro, aspetta che metto indietro l’orologio.” come un saluto segreto e affettuoso legato all’infanzia.
Finché un pomeriggio non venne a visitarla la signora Zunibelli, una vicina molto invadente e grande mangiatrice di biscotti altrui. Mia nonna non la sopportava, ma non voleva nemmeno essere scortese. Così mentre eravamo in cucina a preparare il tè con i biscotti mi disse con aria birichina: “Adesso metto avanti l’orologio di un quarto d’ora, vedrai che fretta che avrà di andarsene!” Scoppiammo a ridere tutte e due.
La signora Zunibelli bevve due sorsi di tè, mangiò appena tre biscotti e scappò via che alle cinque aveva un appuntamento.
“Nonna, cosa hai fatto?”
“Niente, tesoro. Non crederai che le abbia rubato un quarto d’ora?”
Mi aveva instillato il dubbio, ma anche con il cellulare alla mano, mentre la fissavo spostare le lancette sul quadrante per farmi arrivare puntuale, non riuscivo mai a cogliere un’incongruenza.
Ai miei trent’anni mia nonna si ruppe l’anca, era caduta da un gradino della veranda. Durante una visita in ospedale mi diede l’orologio:” Tieni Mina, a me adesso non serve più.”
“Ma nonna, devi spostare le lancette per non farmi arrivare in ritardo!”
“Adesso toccherà a te spostarle, ma non farlo prima che me ne sia andata.”
“Perché?”
“Con questo orologio tu puoi contrarre o dilatare il tempo attorno a te, ma non puoi cambiare il destino delle persone. Puoi regalare loro un’oscillazione del pendolo più ampia. Io non ne voglio più, ho fatto tutto quello che dovevo fare e ho amato tutti quelli che ho voluto amare. Ora l’orologio è tuo.”
Sono rimasta con lei tutta la notte. I medici insistevano per farmi andare a casa, mi dicevano che era solo una frattura all’anca, che si sarebbe ripresa al più presto.
Ma io sapevo che mi aveva salutato e volevo rimanere fino alla fine.
Negli anni ho spostato spesso le lancette, ma nella mia vita non è mai comparso un Balthazar. Sono andata a vivere nella casa della nonna e sto aspettando Artemisia, la figlia di mio fratello, per consegnarle l’orologio con il quale l’ho sempre fatta arrivare puntuale a casa.
traccia di mezzogiorno
Mia nonna Artemisia era magra come uno stecchino, sembrava un’indossatrice tanto si muoveva con grazia ed eleganza. Portava sempre gonna, golfino e camicetta accompagnate da un paio di scarpe con i tacchi. Non credo di averla mia vista in ciabatte, addirittura in camicia da notte e vestaglia portava pantofoline en pendant dal tacco leggero con un batuffolo di pelo decorativo in punta. L’unica eccezione erano gli scarponi da montagna per le passeggiate in alta quota che lei adorava, ma anche in quell’occasione rigorosamente in gonna.
Non amava i gioielli. Al collo e alle orecchie non portava nulla. Sulla mano sinistra aveva un brillante meraviglioso e al polso un orologio ovale.
Mi ricordo che da piccola mi diceva sempre:” Sei in ritardo tesoro, aspetta che metto indietro l’orologio di dieci minuti, così arrivi dalla mamma puntuale!” Allora aspettavo che lei portasse indietro di dieci minuti le lancette e correvo più che potevo fino a casa. Non sono mai arrivata in ritardo, un po’ credevo all’orologio, ma ero molto più convinta di essere veloce come un fulmine.
La nonna abitava da sola in una villetta decaduta circondata da un meraviglioso e selvaggio giardino. Le ortensie assieme alle rose avevano preso il sopravvento creando uno spettacolo meraviglioso. In primavera erano i tulipani assieme ai mughetti ad avere la meglio lungo il breve vialetto che dalla strada portava alla porta di casa.
I miei genitori ed io abitavamo due case più in là. Così aveva voluto il papà che era figlio unico e che non voleva lasciare da sola sua mamma da quando era diventata vedova. Mio fratello diceva sempre: ” Papà, sei un mammone!”, ma era lui l’unico che passava tutti i giorni dalla nonna e nel suo garage suonava la chitarra elettrica a tutto volume. Lei faceva il trucchetto dei dieci minuti anche con mio fratello.
Mia nonna però non era per nulla invadente, non organizzava pranzi domenicali se non per certe occasioni speciali, non veniva mai a trovarci se non invitata, ma era sempre felice se qualcuno di noi passava a trovarla.
Certo così era più facile per noi. Niente musi se le preferivamo i nostri amici oppure se per qualche settimana ce la dimenticavamo.
Lei aveva sempre da fare: leggeva, dipingeva acquarelli, faceva lunghe passeggiate e poi le piaceva da matti raccontare storie di tutti i tipi e generi.
Rimanevo spesso a dormire nella sua stanza degli ospiti che un po’ era diventata mia. Mi ero fermata lì per studiare per la maturità, mi ci sono anche ritirata per preparare la mia tesi di laurea.
Negli anni mia nonna mi aveva raccontato la storia del suo orologio: era appartenuto a sua mamma, e prima ancora alla nonna e alla bisnonna. L’orologio era incastonato in un cinturino di maglia dorata, elegante come lei. Mi raccontava tutti i suoi pregi: resisteva all’acqua e si caricava da solo con il movimento del polso. Non aveva mai sentito che si fosse fermato o rotto negli anni.
Il quadrante era ovale color avorio, di fianco ai dodici numeri c’era un puntino dorato. Non si poteva mai sapere se erano precisamente le dodici e diciassette oppure le dodici e diciotto, ma secondo mia nonna bastava contare il tempo di cinque minuti in cinque minuti. Quello che c’era nello spazio fra due puntini bisognava impiegarlo in qualcosa di più costruttivo che fissare un orologio.
A me piaceva perché da nessuna parte c’era scritta la marca e perché nascondeva dei rubini al suo interno. Mia nonna diceva che veniva da Neuchâtel in Svizzera. Mi raccontava che la sua bisnonna Guglielmina, detta Mina era andata proprio lì in villeggiatura con sua mamma Clotilde e mentre camminavano sul lungolago un giovane orologiaio si era perdutamente innamorato di lei. Mina però si era già mezza promessa a un medico, inoltre il francese lo parlava poco e male. L’orologiaio, che pare si chiamasse Balthazar, passava tutte le mattine e tutte le sere per vederla. Alle volte le portava un fiore rubato, altre un piccolo dolce. L’ultima sera si rivolse a Clotilde per chiedere la mano di Mina. La chiese in ginocchio con gli occhi tristi, come se avesse già saputo di essere rifiutato.
Al mattino, poco prima di partire, una servetta portò un minuscolo pacchetto a Mina che se lo mise nella tasca del soprabito senza prestarci troppa attenzione. Arrivata a casa vi trovò l’orologio accompagnato da un bigliettino: ”Ti amerò per sempre, di cinque minuti in cinque minuti. B.”
Da quel giorno l’orologio è sempre rimasto in famiglia passando di donna in donna. Nei miei sogni di ragazzina mi vedevo con l’orologio al polso a braccetto con l’orologiaio Balthazar che mi aveva ritrovato, visto che mi chiamo Guglielmina, detta Mina, anch’io.
Mio fratello ed io parlavamo spesso di quell’orologio e ci piaceva molto quando la nonna tirava indietro le lancette.
Alle volte le dicevamo che ci servivano solo cinque minuti, altre chiedevamo un quarto d’ora per andare a comprare il giornaletto all’edicola prima di tornare a casa.
Crescendo ci sembrava solo un gioco, anche se prima di salutarla davamo un’occhiata al pendolo del salotto per vedere se davvero stesse cambiando qualcosa.
Durante l’adolescenza ho considerato il suo:” Sei in ritardo tesoro, aspetta che metto indietro l’orologio.” come un saluto segreto e affettuoso legato all’infanzia.
Finché un pomeriggio non venne a visitarla la signora Zunibelli, una vicina molto invadente e grande mangiatrice di biscotti altrui. Mia nonna non la sopportava, ma non voleva nemmeno essere scortese. Così mentre eravamo in cucina a preparare il tè con i biscotti mi disse con aria birichina: “Adesso metto avanti l’orologio di un quarto d’ora, vedrai che fretta che avrà di andarsene!” Scoppiammo a ridere tutte e due.
La signora Zunibelli bevve due sorsi di tè, mangiò appena tre biscotti e scappò via che alle cinque aveva un appuntamento.
“Nonna, cosa hai fatto?”
“Niente, tesoro. Non crederai che le abbia rubato un quarto d’ora?”
Mi aveva instillato il dubbio, ma anche con il cellulare alla mano, mentre la fissavo spostare le lancette sul quadrante per farmi arrivare puntuale, non riuscivo mai a cogliere un’incongruenza.
Ai miei trent’anni mia nonna si ruppe l’anca, era caduta da un gradino della veranda. Durante una visita in ospedale mi diede l’orologio:” Tieni Mina, a me adesso non serve più.”
“Ma nonna, devi spostare le lancette per non farmi arrivare in ritardo!”
“Adesso toccherà a te spostarle, ma non farlo prima che me ne sia andata.”
“Perché?”
“Con questo orologio tu puoi contrarre o dilatare il tempo attorno a te, ma non puoi cambiare il destino delle persone. Puoi regalare loro un’oscillazione del pendolo più ampia. Io non ne voglio più, ho fatto tutto quello che dovevo fare e ho amato tutti quelli che ho voluto amare. Ora l’orologio è tuo.”
Sono rimasta con lei tutta la notte. I medici insistevano per farmi andare a casa, mi dicevano che era solo una frattura all’anca, che si sarebbe ripresa al più presto.
Ma io sapevo che mi aveva salutato e volevo rimanere fino alla fine.
Negli anni ho spostato spesso le lancette, ma nella mia vita non è mai comparso un Balthazar. Sono andata a vivere nella casa della nonna e sto aspettando Artemisia, la figlia di mio fratello, per consegnarle l’orologio con il quale l’ho sempre fatta arrivare puntuale a casa.