[MI 150] Il bottone
Posted: Sun May 09, 2021 9:43 pm
Traccia di mezzogiorno: Padrone del tempo.
Il bottone
Il signor Hannover si era svegliato presto quel giorno. Una notte di sogni agitati, il pigiama sudato appiccicato alla schiena e la gola secca lo costrinsero ad alzarsi prima del solito. Per prima cosa si lavò i denti e si tolse il sapore cattivo che il sonno gli aveva lasciato in bocca, poi si sciacquò la faccia. Doveva avere un aspetto dignitoso per affrontare la fine del mondo. Infine si preparò il caffè. Normalmente avrebbe invertito l'ordine di tutte queste azioni, ma oggi non era un giorno come gli altri. Aspettò che il caffè uscisse con il suo caratteristico gorgoglio e sospirò.
L'ultimo caffè, pensò mentre se lo versava. Lo bevve con una certa solennità, anche se, si disse, era certo che non sarebbe stato l'ultimo. Se ne sarebbe concesso altri durante la giornata. Uno a metà mattina e un altro dopo pranzo, come sempre. Sorseggiò comunque la bevanda con un insolito piacere, se non era l'ultimo ci si avvicinava molto e ne sentì il gusto già ammantato di nostalgia delle cose che si perderanno presto. Ne bevve il fondo con un brivido: quello era uno degli ultimi caffè di tutti gli esseri umani, mica solo per lui, anzi dell'intera esistenza, poiché era assai improbabile che una volta sterminata l'umanità, altre creature, magari di galassie lontane, avrebbero inventato una bevanda identica.
Dopo tali elucubrazioni metafisiche, si vestì, piuttosto in ghingheri per i suoi standard, prese la valigetta con i calcoli e le formule, che per tante notti lo avevano tenuto sveglio, e si avviò alla fermata del filobus.
La carrozza era piena come al solito, corpi maleodoranti pigiati all'inverosimile si accalcavano pure sulla pensilina, tanto che si maledisse per non aver pensato a prendere un taxi. Che idiota! L'abitudine alla parsimonia, caratteristica ereditata dai genitori, più vicina alla tirchieria per essere sinceri, era stata più forte del buon senso. L'indomani il concetto di risparmio, così come la mera esistenza del denaro, sarebbe stata inghiottita nel buco nero della fine. Avrebbe potuto farsi un ultimo viaggio più confortevole. Ma la fortuna era dalla sua parte e un posto a sedere si liberò proprio davanti a lui. Si sedette con grande soddisfazione e si mise ad osservare gli altri passeggeri. Avevano la solita aria spenta e annoiata del lunedì mattina. "Se sapessero cosa li aspetta oggi pomeriggio non starebbero lì impalati come dei baccalà" si disse con un ghigno "scenderebbero in strada a darsi alla pazza gioia, a ubriacarsi, le donne si darebbero ai primi uomini a disposizione, oppure si metterebbero a correre in preda al panico. Ma di certo non si preoccuperebbero di arrivare in orario al lavoro, anzi, non ci andrebbero proprio." Sentì il petto gonfiarsi di orgoglio: la valigetta che stringeva in grembo gli dava un potere enorme, il più grande immaginabile, quello di togliere il tempo ai suoi simili. La consapevolezza che anche lui avrebbe condiviso la stessa sorte non diminuiva l'ebbrezza di essere il padrone della Terra, il più grande orologio di tutti i tempi, il conto alla rovescia universale. Una vertigine lo colse. Si alzò in piedi, anche perché la prossima era la sua fermata, e barcollò. Gli altri passeggeri lo sorressero. Li ringraziò, fuggendone gli sguardi, per paura di provare un moto di compassione.
Scese dal filobus e si spolverò gli abiti per darsi un contegno. L'ultima cosa che doveva fare era farsi prendere da sciocchi sentimentalismi. L'empatia verso gli altri, e al limite anche verso se stesso, non avrebbe messo fine al suo essere un grigio e insignificante impiegato con la passione per la fisica nucleare. Meglio essere un mostro grandioso che un insulso ingranaggio del tempo lineare. Il piano era tutto e per attuarlo avrebbe sacrificato tutti, anche se stesso.
In stazione si comprò un panino imbottito. L'ultimo pranzo non sarebbe stato il massimo, ma per lo meno non badò a spese e prese il più caro, quello con la crema di tartufo. Una birra in lattina lo avrebbe accompagnato. Non se ne rammaricò, l'aveva sempre preferita al vino.
Mangiò in treno mentre ammirava il paesaggio sfrecciare dal finestrino. Chilometri e chilometri di campi, aree edificate, boschi che presto il suo dito avrebbe ridotto in cenere. Come ultimo caffè si accontentò di quello servito in treno dal bar ambulante. In cuor suo ammise di non sentirne la magnificenza poiché era davvero cattivo. Pazienza, cosa vuoi che sia di fronte al mistero del tempo che presto si sarebbe svelato. "Il tempo è relativo, il tempo non esiste" si ripeté la tanto amata lezione della fisica quantistica, "ma io possiedo la chiave che permetterà non solo di interrompere il flusso della vita, di pietrificare in morte il senso umano dello scorrere del tempo, ma anche di eliminare qualsiasi testimone. La fisica non esiste senza un osservatore che ne analizzi i fenomeni. Lo stesso concetto di tempo sparirà." A questo pensiero il suo giubilo divenne tangibile, una risata si levò dalla sua bocca, tanto che i passeggeri del suo stesso scompartimento si girarono a guardarlo. Per fortuna il treno era quasi arrivato a destinazione.
Camminò, camminò tanto prima di arrivare allo stabilimento abbandonato. Ci aveva impiegato anni ad attuare il suo piano: comprare in internet l'uranio impoverito, costruire l'ordigno, studiare le rotte che avrebbero colpito gli obiettivi russi in modo che questi avrebbero a loro volta attaccato gli americani, provocando l'annientamento globale. Si sedette di fronte all'ordigno e stappò l'ultima birra. Aprì la sua valigetta, sopra ai quaderni con le istruzioni spiccava un fascicoletto di fogli rilegati. Sul primo foglio, sotto al suo nome, era scritto "IL BOTTONE" a caratteri cubitali. Il signor Hannover non aveva resistito a scrivere le sue memorie, un resoconto filosofico del piano, un sublime studio filosofico sulla natura del tempo, anche se era cosciente che non ne sarebbe rimasto neanche la cenere. Bevve la birra e si apprestò a schiacciare il bottone, pensando che, ironia della sorte, non c'era nessun bottone da schiacciare, quelle sono fantasticherie buone per il cinema. C'erano una serie di leve da sollevare, codici da digitare e altre azioni molto più prosaiche e per nulla poetiche da compiere, anche perché sganciare una bomba di solito è un lavoro di squadra, ma va beh, pensò il signor Hannover, anche la fine del mondo non è poi questa gran cosa, specie se ad accompagnarla è una birra calda.
Il bottone
Il signor Hannover si era svegliato presto quel giorno. Una notte di sogni agitati, il pigiama sudato appiccicato alla schiena e la gola secca lo costrinsero ad alzarsi prima del solito. Per prima cosa si lavò i denti e si tolse il sapore cattivo che il sonno gli aveva lasciato in bocca, poi si sciacquò la faccia. Doveva avere un aspetto dignitoso per affrontare la fine del mondo. Infine si preparò il caffè. Normalmente avrebbe invertito l'ordine di tutte queste azioni, ma oggi non era un giorno come gli altri. Aspettò che il caffè uscisse con il suo caratteristico gorgoglio e sospirò.
L'ultimo caffè, pensò mentre se lo versava. Lo bevve con una certa solennità, anche se, si disse, era certo che non sarebbe stato l'ultimo. Se ne sarebbe concesso altri durante la giornata. Uno a metà mattina e un altro dopo pranzo, come sempre. Sorseggiò comunque la bevanda con un insolito piacere, se non era l'ultimo ci si avvicinava molto e ne sentì il gusto già ammantato di nostalgia delle cose che si perderanno presto. Ne bevve il fondo con un brivido: quello era uno degli ultimi caffè di tutti gli esseri umani, mica solo per lui, anzi dell'intera esistenza, poiché era assai improbabile che una volta sterminata l'umanità, altre creature, magari di galassie lontane, avrebbero inventato una bevanda identica.
Dopo tali elucubrazioni metafisiche, si vestì, piuttosto in ghingheri per i suoi standard, prese la valigetta con i calcoli e le formule, che per tante notti lo avevano tenuto sveglio, e si avviò alla fermata del filobus.
La carrozza era piena come al solito, corpi maleodoranti pigiati all'inverosimile si accalcavano pure sulla pensilina, tanto che si maledisse per non aver pensato a prendere un taxi. Che idiota! L'abitudine alla parsimonia, caratteristica ereditata dai genitori, più vicina alla tirchieria per essere sinceri, era stata più forte del buon senso. L'indomani il concetto di risparmio, così come la mera esistenza del denaro, sarebbe stata inghiottita nel buco nero della fine. Avrebbe potuto farsi un ultimo viaggio più confortevole. Ma la fortuna era dalla sua parte e un posto a sedere si liberò proprio davanti a lui. Si sedette con grande soddisfazione e si mise ad osservare gli altri passeggeri. Avevano la solita aria spenta e annoiata del lunedì mattina. "Se sapessero cosa li aspetta oggi pomeriggio non starebbero lì impalati come dei baccalà" si disse con un ghigno "scenderebbero in strada a darsi alla pazza gioia, a ubriacarsi, le donne si darebbero ai primi uomini a disposizione, oppure si metterebbero a correre in preda al panico. Ma di certo non si preoccuperebbero di arrivare in orario al lavoro, anzi, non ci andrebbero proprio." Sentì il petto gonfiarsi di orgoglio: la valigetta che stringeva in grembo gli dava un potere enorme, il più grande immaginabile, quello di togliere il tempo ai suoi simili. La consapevolezza che anche lui avrebbe condiviso la stessa sorte non diminuiva l'ebbrezza di essere il padrone della Terra, il più grande orologio di tutti i tempi, il conto alla rovescia universale. Una vertigine lo colse. Si alzò in piedi, anche perché la prossima era la sua fermata, e barcollò. Gli altri passeggeri lo sorressero. Li ringraziò, fuggendone gli sguardi, per paura di provare un moto di compassione.
Scese dal filobus e si spolverò gli abiti per darsi un contegno. L'ultima cosa che doveva fare era farsi prendere da sciocchi sentimentalismi. L'empatia verso gli altri, e al limite anche verso se stesso, non avrebbe messo fine al suo essere un grigio e insignificante impiegato con la passione per la fisica nucleare. Meglio essere un mostro grandioso che un insulso ingranaggio del tempo lineare. Il piano era tutto e per attuarlo avrebbe sacrificato tutti, anche se stesso.
In stazione si comprò un panino imbottito. L'ultimo pranzo non sarebbe stato il massimo, ma per lo meno non badò a spese e prese il più caro, quello con la crema di tartufo. Una birra in lattina lo avrebbe accompagnato. Non se ne rammaricò, l'aveva sempre preferita al vino.
Mangiò in treno mentre ammirava il paesaggio sfrecciare dal finestrino. Chilometri e chilometri di campi, aree edificate, boschi che presto il suo dito avrebbe ridotto in cenere. Come ultimo caffè si accontentò di quello servito in treno dal bar ambulante. In cuor suo ammise di non sentirne la magnificenza poiché era davvero cattivo. Pazienza, cosa vuoi che sia di fronte al mistero del tempo che presto si sarebbe svelato. "Il tempo è relativo, il tempo non esiste" si ripeté la tanto amata lezione della fisica quantistica, "ma io possiedo la chiave che permetterà non solo di interrompere il flusso della vita, di pietrificare in morte il senso umano dello scorrere del tempo, ma anche di eliminare qualsiasi testimone. La fisica non esiste senza un osservatore che ne analizzi i fenomeni. Lo stesso concetto di tempo sparirà." A questo pensiero il suo giubilo divenne tangibile, una risata si levò dalla sua bocca, tanto che i passeggeri del suo stesso scompartimento si girarono a guardarlo. Per fortuna il treno era quasi arrivato a destinazione.
Camminò, camminò tanto prima di arrivare allo stabilimento abbandonato. Ci aveva impiegato anni ad attuare il suo piano: comprare in internet l'uranio impoverito, costruire l'ordigno, studiare le rotte che avrebbero colpito gli obiettivi russi in modo che questi avrebbero a loro volta attaccato gli americani, provocando l'annientamento globale. Si sedette di fronte all'ordigno e stappò l'ultima birra. Aprì la sua valigetta, sopra ai quaderni con le istruzioni spiccava un fascicoletto di fogli rilegati. Sul primo foglio, sotto al suo nome, era scritto "IL BOTTONE" a caratteri cubitali. Il signor Hannover non aveva resistito a scrivere le sue memorie, un resoconto filosofico del piano, un sublime studio filosofico sulla natura del tempo, anche se era cosciente che non ne sarebbe rimasto neanche la cenere. Bevve la birra e si apprestò a schiacciare il bottone, pensando che, ironia della sorte, non c'era nessun bottone da schiacciare, quelle sono fantasticherie buone per il cinema. C'erano una serie di leve da sollevare, codici da digitare e altre azioni molto più prosaiche e per nulla poetiche da compiere, anche perché sganciare una bomba di solito è un lavoro di squadra, ma va beh, pensò il signor Hannover, anche la fine del mondo non è poi questa gran cosa, specie se ad accompagnarla è una birra calda.