Hélène
Posted: Wed Apr 28, 2021 12:25 am
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Hélène
Folle. Come neve su un prato molle. O l’estremo rincorrere di un bambino dal viso nudo. Eterna fu la riconoscenza, una volta giunti al punto di svolta. Di una relazione amara e di altri demoni. Così potrei descrivere la nostra unione. Una volta che tutto fu labile come un cerchio nel grano.
L’ombra della tua bocca sulla tazzina del mattino. Provocava in me la stessa risposta eccitante di quando ti accarezzavo le gambe per dire addio. Salutavo la vita per spingermi nell'orrore della morte dell’amore. Quando mi affacciavo all'oblio dell’amplesso, quando affannavo nel morderti le labbra. E dicevo a me stesso che ero buono solo a mentire.
Rimorso. La pelle avida. Stringevo ciò che credevo che fossi e allontanavo da me qualsiasi forma di dolore. Per non percepire il male che facevi a letto. Eri assente e placida. Quasi informe, la cronistoria di te. Tu, l’ombra di un pavone o il gergo della domenica mattina a colazione. Forse imitavi me. Chiedevi cibo in modo difforme, come si fa alla mensa. Un vassoio da riempire di gesti, inutili e ripetitivi, che volevano solo adularmi. Affondavi le mani nei miei capelli, una volta apparentemente sazia. Ma ti mancava altro cibo, altro nutrimento per il corpo. Decidesti che fossi io il tuo dio, colui che potesse soddisfare una vita di voglie in una lunghissima corsa attraverso un prato. Vergine assidua frequentatrice di opinioni rese al miglior offerente. Io. E ancora il tuo dio doveva raggiungerti durante la giornata. Che fosse la fermata dell’autobus o un desco appena fuori dal mondo. Dove mi conducevi perché negassi di esistere per me mentre era chiaro che ero ridotto a una funzione di puro piacere e sesso.
Usato. Regredii allo stato di stupore tutte le volte che me lo chiedesti. Fosti malattia e dolore, ancora. Mi aggrappavo a te come al lamento, anima che brucia. E dirti tutto fu sempre impossibile, ormai schiacciato da un’esistenza vuota e semplice. Parlammo, un giorno. Forse di martedì. Eri già lontana da qualunque focalizzazione spontanea e veleggiavi con un assurdo sorriso. Era ancora un dio per te. Ma in tono minore, sordo. Capii di essere un muto loquace con tutti i veti che imponevi. Mi rivolgevo a te come alla fonte della tristezza, umile, assetato. Coevo di un naufrago incapace di esistere nel mare che mi offrivi. Cercando, sempre, di avere qualcosa in cambio. Le nostre notti d’amore. Sognate. Realizzate al netto di sospiri e carezze. In modo violento, distruttivo. Ma tu sei sempre stata questo. La mia evasione.
La fine fu docile. Scontata. Ormai eravamo consumati, pelle contro pelle, dall'orrore di ciò che succedeva in camera da letto, al quinto piano. Mi conducevi con la mano decisa stretta su di te, non importava dove. Furono anche intese e lacci, solitudini amare vissute in due, l’uno dentro l’altra. Mancava l’aria. Soffocati. Rivolgerti all'unico essere che poteva farsi sconfiggere in silenzio. E per cosa, poi? Un cenno di tristezza. La voglia di annientarsi nel culto di una signora profana, dea dell’inganno.
Sola. Mi baciavi con tutti i tuoi errori stampati sul viso. E piangevi, dopo. Per la forte emozione e perché una parte di me ne era respinta. La bellezza. Il rapporto malizioso tra un fiore e un ospite. Sgradito.
Lacrime. Sono quelle che sporcano il mio corpo. Avido di male e tenebra. Ciò che mi sapesti dedicare. Il vuoto ci colpisce peggio del dolore. Ho sempre cercato di scavare a fondo. Alla ricerca della pepita d’oro. Ma ho trovato solo altra terra da rimuovere, e fango. La consapevolezza del tradimento, delle foglie che cadono in autunno. E gli sforzi per sembrare sobria, di amore. Ma troppi si abbeverarono col sangue che scorreva in gocce da quelle gambe. Aperte. Anche per me.
Futile sarebbe ringraziarti, se non fosse che brucio anche oggi per ciò che non ho avuto e che ho dovuto condividere con espressioni algebriche di pianto. Come me.
Brucia, amica mia. Adesso che mi hai lasciato, affoga nella risata che ti provocherà sapermi in fiamme. E distrutto. Tanto da non poter dedicare la vita a qualcos'altro se non al dolore che un giorno tu possa ritornare.
Hélène
Folle. Come neve su un prato molle. O l’estremo rincorrere di un bambino dal viso nudo. Eterna fu la riconoscenza, una volta giunti al punto di svolta. Di una relazione amara e di altri demoni. Così potrei descrivere la nostra unione. Una volta che tutto fu labile come un cerchio nel grano.
L’ombra della tua bocca sulla tazzina del mattino. Provocava in me la stessa risposta eccitante di quando ti accarezzavo le gambe per dire addio. Salutavo la vita per spingermi nell'orrore della morte dell’amore. Quando mi affacciavo all'oblio dell’amplesso, quando affannavo nel morderti le labbra. E dicevo a me stesso che ero buono solo a mentire.
Rimorso. La pelle avida. Stringevo ciò che credevo che fossi e allontanavo da me qualsiasi forma di dolore. Per non percepire il male che facevi a letto. Eri assente e placida. Quasi informe, la cronistoria di te. Tu, l’ombra di un pavone o il gergo della domenica mattina a colazione. Forse imitavi me. Chiedevi cibo in modo difforme, come si fa alla mensa. Un vassoio da riempire di gesti, inutili e ripetitivi, che volevano solo adularmi. Affondavi le mani nei miei capelli, una volta apparentemente sazia. Ma ti mancava altro cibo, altro nutrimento per il corpo. Decidesti che fossi io il tuo dio, colui che potesse soddisfare una vita di voglie in una lunghissima corsa attraverso un prato. Vergine assidua frequentatrice di opinioni rese al miglior offerente. Io. E ancora il tuo dio doveva raggiungerti durante la giornata. Che fosse la fermata dell’autobus o un desco appena fuori dal mondo. Dove mi conducevi perché negassi di esistere per me mentre era chiaro che ero ridotto a una funzione di puro piacere e sesso.
Usato. Regredii allo stato di stupore tutte le volte che me lo chiedesti. Fosti malattia e dolore, ancora. Mi aggrappavo a te come al lamento, anima che brucia. E dirti tutto fu sempre impossibile, ormai schiacciato da un’esistenza vuota e semplice. Parlammo, un giorno. Forse di martedì. Eri già lontana da qualunque focalizzazione spontanea e veleggiavi con un assurdo sorriso. Era ancora un dio per te. Ma in tono minore, sordo. Capii di essere un muto loquace con tutti i veti che imponevi. Mi rivolgevo a te come alla fonte della tristezza, umile, assetato. Coevo di un naufrago incapace di esistere nel mare che mi offrivi. Cercando, sempre, di avere qualcosa in cambio. Le nostre notti d’amore. Sognate. Realizzate al netto di sospiri e carezze. In modo violento, distruttivo. Ma tu sei sempre stata questo. La mia evasione.
La fine fu docile. Scontata. Ormai eravamo consumati, pelle contro pelle, dall'orrore di ciò che succedeva in camera da letto, al quinto piano. Mi conducevi con la mano decisa stretta su di te, non importava dove. Furono anche intese e lacci, solitudini amare vissute in due, l’uno dentro l’altra. Mancava l’aria. Soffocati. Rivolgerti all'unico essere che poteva farsi sconfiggere in silenzio. E per cosa, poi? Un cenno di tristezza. La voglia di annientarsi nel culto di una signora profana, dea dell’inganno.
Sola. Mi baciavi con tutti i tuoi errori stampati sul viso. E piangevi, dopo. Per la forte emozione e perché una parte di me ne era respinta. La bellezza. Il rapporto malizioso tra un fiore e un ospite. Sgradito.
Lacrime. Sono quelle che sporcano il mio corpo. Avido di male e tenebra. Ciò che mi sapesti dedicare. Il vuoto ci colpisce peggio del dolore. Ho sempre cercato di scavare a fondo. Alla ricerca della pepita d’oro. Ma ho trovato solo altra terra da rimuovere, e fango. La consapevolezza del tradimento, delle foglie che cadono in autunno. E gli sforzi per sembrare sobria, di amore. Ma troppi si abbeverarono col sangue che scorreva in gocce da quelle gambe. Aperte. Anche per me.
Futile sarebbe ringraziarti, se non fosse che brucio anche oggi per ciò che non ho avuto e che ho dovuto condividere con espressioni algebriche di pianto. Come me.
Brucia, amica mia. Adesso che mi hai lasciato, affoga nella risata che ti provocherà sapermi in fiamme. E distrutto. Tanto da non poter dedicare la vita a qualcos'altro se non al dolore che un giorno tu possa ritornare.