Hélène

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Hélène

Folle. Come neve su un prato molle. O l’estremo rincorrere di un bambino dal viso nudo. Eterna fu la riconoscenza, una volta giunti al punto di svolta. Di una relazione amara e di altri demoni. Così potrei descrivere la nostra unione. Una volta che tutto fu labile come un cerchio nel grano.
L’ombra della tua bocca sulla tazzina del mattino. Provocava in me la stessa risposta eccitante di quando ti accarezzavo le gambe per dire addio. Salutavo la vita per spingermi nell'orrore della morte dell’amore. Quando mi affacciavo all'oblio dell’amplesso, quando affannavo nel morderti le labbra. E dicevo a me stesso che ero buono solo a mentire.
Rimorso. La pelle avida. Stringevo ciò che credevo che fossi e allontanavo da me qualsiasi forma di dolore. Per non percepire il male che facevi a letto. Eri assente e placida. Quasi informe, la cronistoria di te. Tu, l’ombra di un pavone o il gergo della domenica mattina a colazione. Forse imitavi me. Chiedevi cibo in modo difforme, come si fa alla mensa. Un vassoio da riempire di gesti, inutili e ripetitivi, che volevano solo adularmi. Affondavi le mani nei miei capelli, una volta apparentemente sazia. Ma ti mancava altro cibo, altro nutrimento per il corpo. Decidesti che fossi io il tuo dio, colui che potesse soddisfare una vita di voglie in una lunghissima corsa attraverso un prato. Vergine assidua frequentatrice di opinioni rese al miglior offerente. Io.  E ancora il tuo dio doveva raggiungerti durante la giornata. Che fosse la fermata dell’autobus o un desco appena fuori dal mondo. Dove mi conducevi perché negassi di esistere per me mentre era chiaro che ero ridotto a una funzione di puro piacere e sesso.
Usato. Regredii allo stato di stupore tutte le volte che me lo chiedesti. Fosti malattia e dolore, ancora. Mi aggrappavo a te come al lamento, anima che brucia. E dirti tutto fu sempre impossibile, ormai schiacciato da un’esistenza vuota e semplice. Parlammo, un giorno. Forse di martedì. Eri già lontana da qualunque focalizzazione spontanea e veleggiavi con un assurdo sorriso. Era ancora un dio per te. Ma in tono minore, sordo. Capii di essere un muto loquace con tutti i veti che imponevi. Mi rivolgevo a te come alla fonte della tristezza, umile, assetato. Coevo di un naufrago incapace di esistere nel mare che mi offrivi. Cercando, sempre, di avere qualcosa in cambio. Le nostre notti d’amore. Sognate. Realizzate al netto di sospiri e carezze. In modo violento, distruttivo. Ma tu sei sempre stata questo. La mia evasione.
La fine fu docile. Scontata. Ormai eravamo consumati, pelle contro pelle, dall'orrore di ciò che succedeva in camera da letto, al quinto piano. Mi conducevi con la mano decisa stretta su di te, non importava dove. Furono anche intese e lacci, solitudini amare vissute in due, l’uno dentro l’altra. Mancava l’aria. Soffocati. Rivolgerti all'unico essere che poteva farsi sconfiggere in silenzio. E per cosa, poi? Un cenno di tristezza. La voglia di annientarsi nel culto di una signora profana, dea dell’inganno.
Sola. Mi baciavi con tutti i tuoi errori stampati sul viso. E piangevi, dopo. Per la forte emozione e perché una parte di me ne era respinta. La bellezza. Il rapporto malizioso tra un fiore e un ospite. Sgradito.
Lacrime. Sono quelle che sporcano il mio corpo. Avido di male e tenebra. Ciò che mi sapesti dedicare. Il vuoto ci colpisce peggio del dolore. Ho sempre cercato di scavare a fondo. Alla ricerca della pepita d’oro. Ma ho trovato solo altra terra da rimuovere, e fango. La consapevolezza del tradimento, delle foglie che cadono in autunno. E gli sforzi per sembrare sobria, di amore. Ma troppi si abbeverarono col sangue che scorreva in gocce da quelle gambe. Aperte. Anche per me.
Futile sarebbe ringraziarti, se non fosse che brucio anche oggi per ciò che non ho avuto e che ho dovuto condividere con espressioni algebriche di pianto. Come me.
Brucia, amica mia. Adesso che mi hai lasciato, affoga nella risata che ti provocherà sapermi in fiamme. E distrutto. Tanto da non poter dedicare la vita a qualcos'altro se non al dolore che un giorno tu possa ritornare.

Re: Hélène

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Ciao @Atlab the Alchemist 

Che botta questo flusso di coscienza. Non ho mai letto niente scritto da te prima di oggi, ma wow... questa storia non lascia certo indifferenti.
Atlab the Alchemist ha scritto: Folle. Come neve su un prato molle. O l’estremo rincorrere di un bambino dal viso nudo. Eterna fu la riconoscenza, una volta giunti al punto di svolta. Di una relazione amara e di altri demoni. Così potrei descrivere la nostra unione. Una volta che tutto fu labile come un cerchio nel grano.
L’incipit è folgorante. Quella specie di cantilena “Folle. Come neve su un prato molle.” Non ha alcun significato oggettivo, ma risulta inquietante. Mi ha fatto venire in mente “shining”. 
Anche il resto delle similitudini è davvero particolare, quasi senza senso. 
Intenso quando definisci l’unione  di questa coppia come “relazione amara e di altri demoni.”
Efficace e convincente questa immagine: “[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Una volta che tutto fu labile come un cerchio nel grano”[/font]

Atlab the Alchemist ha scritto: L’ombra della tua bocca sulla tazzina del mattino. Provocava in me la stessa risposta eccitante di quando ti accarezzavo le gambe per dire addio. Salutavo la vita per spingermi nell'orrore della morte dell’amore. Quando mi affacciavo all'oblio dell’amplesso, quando affannavo nel morderti le labbra. E dicevo a me stesso che ero buono solo a mentire.
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]È difficile intervenire sulla punteggiatura di un flusso di coscienza. Se ne trovano al uni completamente sprovvisti. Qui invece penso che tu abbia spezzato troppo le frasi. Una punteggiatura così “selvaggia” rende poco scorrevole la lettura.[/font]
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]L’ombra della tua bocca sulla tazzina del mattino provocava in me la stessa etc. Etc.[/font]
Atlab the Alchemist ha scritto: Chiedevi cibo in modo difforme, come si fa alla mensa.
Anche questa preposizione è particolare. Non ho capito cosa intendevi dire. Perchè alla mensa si chiede il,cibo in modo difforme?
Atlab the Alchemist ha scritto: Capii di essere un muto loquace con tutti i veti che imponevi. Mi rivolgevo a te come alla fonte della tristezza, umile, assetato.
Anche in questo caso trovo difficile entrare nel tuo mondo. Ho capito che questa relazione è impari.  Che la donna per qualche strano motivo tiene in scacco l’uomo. Ma perchė rivolgersi assetato di tristezza? Perché voler dissetarsi a quella fonte?
Atlab the Alchemist ha scritto: Mi baciavi con tutti i tuoi errori stampati sul viso.
Questa ė bella
Atlab the Alchemist ha scritto: Futile sarebbe ringraziarti, se non fosse che brucio anche oggi per ciò che non ho avuto e che ho dovuto condividere con espressioni algebriche di pianto. Come me.
Questa è una frase che starebbe bene in una canzone di Bersani. Le “espressioni algebriche di pianto”  . Notevole.
Atlab the Alchemist ha scritto: Brucia, amica mia. Adesso che mi hai lasciato, affoga nella risata che ti provocherà sapermi in fiamme. E distrutto. Tanto da non poter dedicare la vita a qualcos'altro se non al dolore che un giorno tu possa ritornare.
La chiusa di questo “delirio” ė molto amara e la trovo davvero azzeccata. Complimenti.


In totale è un testo che credo parli di un rapporto “malato” fatto di sesso estremo e sottomissione. Ne esce fuori una sorta di monologo delirante. Il linguaggio è completamente al servizio delle emozioni. Non c’ė una logica ma tutto arriva forte e chiaro e l’impatto lascia stupiti. 

Re: Hélène

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Ciao @Atlab the Alchemist 

Posso dire che questo tuo racconto possiede una forza di scrittura che è travolgente: toglie letteralmente il respiro al lettore.
E’ la confessione introspettiva di un rapporto di passione portato all’ estremo.
Descrivi lo stato febbrile e delirante di una attrazione carnale divorante,
incandescente e annientante come la fiammata di una supernova.
Hai una scrittura violenta e passionale come la relazione che descrivi nel racconto: nel leggerti si è trascinati in questo gorgo di sentimenti, recriminazioni e rimpianti, che ci fa percepire la consunzione di un amore che soffoca
nell’ esasperazione del sesso la propria umanità.
Incapace di rapportarsi attraverso la parola e l’empatia, di riconoscersi e accettarsi nella propria solitudine esistenziale per incontrarsi e unirsi.

E’ la fotografia di un rapporto malato e autodistruttivo, una condizione di dipendenza psicologica letale quanto quella procurata da sostanze tossiche che assoggettano il corpo e la mente, qualcosa che avvelena l’anima incapace di sottrarsi al suo consumo ripetuto e smodato.
Non è una lettura distensiva quella che ci proponi, la frenesia lirica che metti nella tua prosa non lascia indifferenti, scuote l’animo del lettore e lo rende suo malgrado partecipe e sofferente del dramma che coinvolge l’accorato protagonista della tua storia.
Colpisce soprattutto l’acredine rivendicativa con cui il protagonista descrive la figura femminile che è causa della sua sofferenza.
In questo leggiamo un lamento vittimistico che un poco ci disturba, ci pare di capire che l’uomo sia riuscito a trovare e invaghirsi di una sorta di mantide religiosa che crudelmente si nutre del suo corpo dopo avergli strappato la testa e divorato l’anima.

Ecco, come sempre succede, quando l’impeto dell’invettiva è così violento e unilaterale nell’ attribuire una colpa, viene meno la simpatia del danneggiato e si tende a cercare di meglio comprendere cause ed effetti, per attribuire il giusto peso alle responsabilità e agli atti dei protagonisti.
Certo ci commuovono le calde lacrime che versa, la condizione di disagio che lo vede ridotto in solitudine a rammentare con amarezza e rimpianto quel passato amore.
Ma ci pare di capire delle sue parole conclusive, che l’inferno vissuto non fosse poi così infelice e sgradevole. Che quantomeno una leggera vena di masochistico piacere doveva pur renderlo desiderabile, se invece di sentirsene al fine liberato, lo si rimpiange con tanto  ardore e trasporto.

Grande pezzo di bravura amico mio.
Buone cose e a presto rileggerti. Un saluto.

Re: Hélène

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ciao @Atlab the Alchemist. Questa è la prima volta che leggo qualcosa di tuo. Credo di dover saltare ogni qualsiasi valutazione sulla forma: è tutto perfetto. Ti segnalo che ho dovuto tornare indietro e rileggere i primi passi, questi:
Atlab the Alchemist ha scritto: Come neve su un prato molle. O l’estremo rincorrere di un bambino dal viso nudo. Eterna fu la riconoscenza, una volta giunti al punto di svolta. Di una relazione amara e di altri demoni. Così potrei descrivere la nostra unione. Una volta che tutto fu labile come un cerchio nel grano.
Non sono dirette, sono troppo avvinghiate al complesso stato d'animo di chi si interroga. Costringi il lettore a elaborare, interpretare i passi  molto suggestivi, ma facili nel perdersi della soggettiva idea che si potrebbe cogliere nell'immediato.


Atlab the Alchemist ha scritto: L’ombra della tua bocca sulla tazzina del mattino. Provocava in me la stessa risposta eccitante di quando ti accarezzavo le gambe per dire addio. Salutavo la vita per spingermi nell'orrore della morte dell’amore. Quando mi affacciavo all'oblio dell’amplesso, quando affannavo nel morderti le labbra. E dicevo a me stesso che ero buono solo a mentire.

Solo a questo punto capisco a cosa si riferisca lui. Niente di male che tu esordisca con questo approccio prosaico, ma solo per gusto personale, apprezzo la chiarezza immediata dell'incipit. Magari sono io che tardo a capire, quello che poi, arriva immediatamente nel susseguirsi del monologo.


Atlab the Alchemist ha scritto: d


Decisamente molto prosaico. Noto questa molto consueta posizione mentale di molti uomini. Descrivere con enfasi, quasi poeticamente, rapporti sterili di sentimenti, basati sul piacere carnale. Il tuo protagonista mi appare così: catturato dalla fame di lei e troppo preso a analizzarsi, confrontarsi con qualcosa che non è mai esistito in questa relazione. O lui è uno stupido sentimentalista che cerca dell'altro in lei, o è colui che fa lacrime di coccodrillo, dopo aver consumato a proprio piacere questa relazione. 
Atlab the Alchemist ha scritto: Sola. Mi baciavi con tutti i tuoi errori stampati sul viso. E piangevi, dopo. Per la forte emozione e perché una parte di me ne era respinta. La bellezza. Il rapporto malizioso tra un fiore e un ospite. Sgradito.
Lacrime. Sono quelle che sporcano il mio corpo. Avido di male e tenebra. Ciò che mi sapesti dedicare. Il vuoto ci colpisce peggio del dolore. Ho sempre cercato di scavare a fondo. Alla ricerca della pepita d’oro. Ma ho trovato solo altra terra da rimuovere, e fango. La consapevolezza del tradimento, delle foglie che cadono in autunno. E gli sforzi per sembrare sobria, di amore. Ma troppi si abbeverarono col sangue che scorreva in gocce da quelle gambe. Aperte. Anche per
Trovo molti passi sulla  descrizione di questo rapporto degni di nota. Anche il sentiero narrativo oramai stabilizzato, non rimane che lasciarlo spegnere nelle amare conclusioni del narratore. Non so se sia stata una tua scelta quella di far di questo monologo in prima persona, un racconto intriso della demagogia e ipocrisia tutta maschile. Questo è ciò che si coglie, almeno per me è così. Non vi è all'interno di esso nessuna voce da poter affrontare il contradittorio. Questa potrebbe essere una pecca; o altrimenti, potrebbe essere un valido motivo su cui riflettere di rapporti tra partners, collegandoli al mondo disumanizzato e sterilizzato da qualsiasi sentimento. Ho trovato, come già espresso, una contraddizione nell'atteggiamento di lui, che è palpabile e desumibile, dall'utilizzo sfrenato e troppo ricercato, di valori umani,  a cui lui si è da subito estraniato.  Spero di esserti stato di aiuto. ciao 
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