[MI 149] Una pietra sul cuore
Posted: Sun Apr 25, 2021 9:00 pm
Tema di mezzogiorno
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Kambeddu sapeva che l’altopiano del signore Babarant non era l’unico della poca terra rimasta emersa, ma quello era tutto ciò che conosceva del mondo. Intorno all’altopiano un immenso mare scuro, dal forte odore di sale e paglia marina in decomposizione.
«Ci vorrebbe una bella tempesta per pulire l’aria, che dici vecchio?»
Homar sembrava quasi gentile, Kambeddu lo aveva visto nascere sull’altopiano. Annuì pensieroso guardando la moltitudine di piccoli isolotti che circondavano la loro barca. Ogni tanto Homar si avvicinava al grosso motore fuoribordo che perdeva colpi ed emanava un forte odore di gasolio che mischiandosi all’odore del mare rendeva quella giornata di sole quasi piacevole. Scambiava qualche parola con il guidatore e le altre guardie che comandava; tutti avevano le magliette nere grondanti di sudore salato e bianco.
Anche Kambeddu indossava una maglietta nera come loro, ma nessuno lo avrebbe mai scambiato per una guardia di Babarant. Era troppo anziano e troppo triste.
«Io avrei scelto un’isolotto più vicino» disse Homar, guardando preoccupato l’altopiano che si allontanava e assicurandosi che i caricatori dei fucili fossero pieni. «Ma Babarant mi ha chiesto di venire proprio a Jenusa. Dice che glielo hai consigliato tu.
«Bisogna fare come dice lui»»
«Si, ma tu un tempo eri di Jenusa…»
«Tanto tempo fa»
Homar si grattò la barba nera e ispida. «La tua famiglia?»
Kambeddu sorrise appena. «Morti. Tutti»
«E tu non ci sei mai più tornato…»
«No. Dovevo servire il signore di Babarant. Prima suo nonno, poi suo padre e ora lui»
«Eppure Jenusa non è molto lontana dall’altopiano. Non ti è mai venuta voglia di fuggire e di tornare dalla tua gente?»
«Lo avrei fatto se i miei fossero stati ancora in vita. Ma a cosa mi sarebbe servito? Questo arcipelago è grande, ma anche piccolo. Prima o poi a cercare si trova tutto»
Homar annuì guardando l’orizzonte. «Ho parlato con Babarant. So che la tua famiglia venne uccisa da suo nonno quando eri un bambino. Ti risparmiarono per una scommessa vinta e per servire sull’altopiano. Io non ero ancora nato. Ma hai ragione: è passato tanto tempo. La tua famiglia non esiste più» Homar teneva fra le ginocchia il fucile unto d’olio e fumava silenzioso, sorridendo.
A Jenusa accolsero in silenzio la barca, aiutando le guardie a ormeggiare in un piccolo porticciolo naturale. Un’alta torre di pietra bianca si ergeva appena oltre la scogliera, circondata da olivastri e carrubi. Era accorsa della folla che guardava in silenzio gli uomini.
«State pure tranquilli» diceva Homar con i piedi nell’acqua e tenendo alto il fucile. «Non siamo venuti per riscuotere la decima del vostro signore» Si guardò intorno considerando quei visi silenziosi. «Anche se siamo certi che ci darete qualcosa da bere e da mangiare, come sempre»
Gli uomini annuirono portando alcune brocche di vino, alle quali Homar e i suoi si attaccarono con piacere.
«Tu non bevi?» disse qualcuno porgendo una brocca a Kambeddu che la prese in silenzio, bevendo alcuni sorsi.
«Buona vigna, amara» disse restituendo la brocca.
«Sempre stata così» gli fu risposto.

L’oggetto dello sbarco era la torre di pietra bianca, una delle costruzioni più considerevoli dell’isolotto e il suo circondario boscoso. L’interno della vecchia fortezza era spazioso, suddiviso in tre piani. In quello di mezzo era stata allestita una sala da pranzo con tavoli e panche di rovere.
«Quindi qui farà festa Babarant, la famiglia e i suoi ospiti? Ma non ci staranno tutti!» disse Homar contrariato.
«Qui solo Babarant e la famiglia. Gli ospiti si accomoderanno fuori della torre, all’ombra degli ulivi. Staranno molto bene al fresco. Ma se vuoi fare cambiamenti li facciamo» disse Kambeddu.
Homar ci pensò e poi disse «Può anche andare così. Si può sempre cambiare all’ultimo momento»
I giorni successivi vennero altre barche mandate da Babarant; alcuni dei suoi uomini si piazzarono a Jenusa, mangiando, bevendo e ubriacandosi. Fra di loro c’era anche Quilian, il figlio maggiore di Babarant. La cerimonia riguardava lui; il padre aveva deciso di festeggiare in uno dei suoi possedimenti la maggiore età del figlio. Quilian non era mai sceso dall’altopiano in vita sua, vedeva il mare dall’alto, contornato da innumerevoli isolotti, possedimenti della sua famiglia e quello era il suo mondo. D’altronde aveva tutto quello che si poteva desiderare sull’altopiano. I signori e i servi delle isole, pur essendo circondati dall’acqua non l’amavano e preferivano la poca terra rimasta nel mondo.
Quilian camminò per tutti i confini di Jenusa, accompagnato dalle sue guardie e dai servitori, mangiando e dormendo all’aperto, che si era nella bella stagione. Imparò a nuotare, in acque profonde e talmente limpide che immergendosi gli sembrava di librarsi nell’aria. Mangiò del pesce arrostito al fuoco sulla spiaggia, capre selvatiche, cervi e cinghiali catturati a caccia.
Fu in una di queste sere che conobbe Kinisia una delle ragazze che servivano gli uomini a tavola. Come figlio del padrone avrebbe potuto prenderla a suo piacimento, ma non lo fece e Homar lo rimproverò scherzosamente, dicendo che se del caso ci avrebbe pensato lui.
Con altrettanta allegria Quilian gli disse «Se lo farai, o una delle guardie lo farà, ti ucciderò»
«Sei sicuro che abbia detto proprio così?»
«Si Kambeddu», disse il vecchio Joberte. «Lo hanno sentito»
Kambeddu rimuginava queste cose nei giorni seguenti, durante i preparativi della cerimonia. Seguiva i lavori muovendosi in libertà, ricordando i luoghi della sua infanzia, ritrovando qualche vecchio coetaneo, rievocando antiche storie.
Sapevano che aveva servito i tiranni Babarant, che non aveva avuto scelta e sapevano che prima o poi si sarebbe vendicato per quello che gli avevano fatto, anche dopo molti anni. Era la loro legge non scritta.
La vendetta avrebbe anche sancito la sua fine. Nessuna fuga sarebbe stata possibile, non a lungo e poi non avrebbe potuto: era vecchio, dove poteva andare? Anche uscendo da quell’arcipelago di isole e raggiungendo un altro luogo non avrebbe avuto senso ricominciare una vita. Il suo tempo era quasi finito. Voleva far capire al tiranno quanto dolore si provava nel perdere la propria famiglia. Per anni aveva lavorato e rimuginato in silenzio. Era morto Babarant l’autore della sua infelicità e aveva servito il padre. Era morto anche lui e aveva servito il figlio, l’attuale tiranno che ricordava vagamente la storia di Kambeddu, tanto lontana da essere velata di leggenda. E poi Kambeddu era un cerimoniere perfetto, organizzatore di banchetti e feste con i migliori prodotti che venivano riscossi dai servi delle isole nel mare intorno all’altopiano.
Spesso il tiranno si trovava a parlare quasi in confidenza con Kambeddu e gli aveva rivelato di voler festeggiare la maggiore età del suo primogenito in una delle sue isole. Aveva nulla in contrario a organizzare una festa a Jenusa? Disse un giorno con leggerezza.
Qualunque vostro desiderio è un ordine, aveva risposto Kambeddu, che da allora non era più riuscito a dormire. Sarebbe tornato alla sua terra! E avrebbe avuto modo di vendicarsi! Si era portato il pensiero della vendetta per anni, tutti i giorni della sua vita.
Ora Kambeddu camminava di notte nel bosco ai margini di una spiaggia. Sentì delle voci e rallentò il passo, avanzando piano. Sulla riva del mare vide Quilian che andava a fianco di Kinisia. I due ragazzi si tenevano per mano e sorridevano. Si fermarono, si sdraiarono e si baciarono, con l’acqua che luccicava sotto la luna piena, avvolti dall’odore del mare e del bosco. Kambeddu strinse il coltello che teneva in tasca.
Sarebbe stato facile, molto facile sgozzare Quilian come un capretto in quel momento. E Kinisia? Erano felici. Non era giusto. Non era giusto. Prese il coltello, lo gettò lontano. Per la prima volta da quando era bambino sentì il suo cuore diventare leggero, come se si fosse tolta una pietra.
Per la prima volta si sentì felice. Allora pianse.
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Kambeddu sapeva che l’altopiano del signore Babarant non era l’unico della poca terra rimasta emersa, ma quello era tutto ciò che conosceva del mondo. Intorno all’altopiano un immenso mare scuro, dal forte odore di sale e paglia marina in decomposizione.
«Ci vorrebbe una bella tempesta per pulire l’aria, che dici vecchio?»
Homar sembrava quasi gentile, Kambeddu lo aveva visto nascere sull’altopiano. Annuì pensieroso guardando la moltitudine di piccoli isolotti che circondavano la loro barca. Ogni tanto Homar si avvicinava al grosso motore fuoribordo che perdeva colpi ed emanava un forte odore di gasolio che mischiandosi all’odore del mare rendeva quella giornata di sole quasi piacevole. Scambiava qualche parola con il guidatore e le altre guardie che comandava; tutti avevano le magliette nere grondanti di sudore salato e bianco.
Anche Kambeddu indossava una maglietta nera come loro, ma nessuno lo avrebbe mai scambiato per una guardia di Babarant. Era troppo anziano e troppo triste.
«Io avrei scelto un’isolotto più vicino» disse Homar, guardando preoccupato l’altopiano che si allontanava e assicurandosi che i caricatori dei fucili fossero pieni. «Ma Babarant mi ha chiesto di venire proprio a Jenusa. Dice che glielo hai consigliato tu.
«Bisogna fare come dice lui»»
«Si, ma tu un tempo eri di Jenusa…»
«Tanto tempo fa»
Homar si grattò la barba nera e ispida. «La tua famiglia?»
Kambeddu sorrise appena. «Morti. Tutti»
«E tu non ci sei mai più tornato…»
«No. Dovevo servire il signore di Babarant. Prima suo nonno, poi suo padre e ora lui»
«Eppure Jenusa non è molto lontana dall’altopiano. Non ti è mai venuta voglia di fuggire e di tornare dalla tua gente?»
«Lo avrei fatto se i miei fossero stati ancora in vita. Ma a cosa mi sarebbe servito? Questo arcipelago è grande, ma anche piccolo. Prima o poi a cercare si trova tutto»
Homar annuì guardando l’orizzonte. «Ho parlato con Babarant. So che la tua famiglia venne uccisa da suo nonno quando eri un bambino. Ti risparmiarono per una scommessa vinta e per servire sull’altopiano. Io non ero ancora nato. Ma hai ragione: è passato tanto tempo. La tua famiglia non esiste più» Homar teneva fra le ginocchia il fucile unto d’olio e fumava silenzioso, sorridendo.
A Jenusa accolsero in silenzio la barca, aiutando le guardie a ormeggiare in un piccolo porticciolo naturale. Un’alta torre di pietra bianca si ergeva appena oltre la scogliera, circondata da olivastri e carrubi. Era accorsa della folla che guardava in silenzio gli uomini.
«State pure tranquilli» diceva Homar con i piedi nell’acqua e tenendo alto il fucile. «Non siamo venuti per riscuotere la decima del vostro signore» Si guardò intorno considerando quei visi silenziosi. «Anche se siamo certi che ci darete qualcosa da bere e da mangiare, come sempre»
Gli uomini annuirono portando alcune brocche di vino, alle quali Homar e i suoi si attaccarono con piacere.
«Tu non bevi?» disse qualcuno porgendo una brocca a Kambeddu che la prese in silenzio, bevendo alcuni sorsi.
«Buona vigna, amara» disse restituendo la brocca.
«Sempre stata così» gli fu risposto.
L’oggetto dello sbarco era la torre di pietra bianca, una delle costruzioni più considerevoli dell’isolotto e il suo circondario boscoso. L’interno della vecchia fortezza era spazioso, suddiviso in tre piani. In quello di mezzo era stata allestita una sala da pranzo con tavoli e panche di rovere.
«Quindi qui farà festa Babarant, la famiglia e i suoi ospiti? Ma non ci staranno tutti!» disse Homar contrariato.
«Qui solo Babarant e la famiglia. Gli ospiti si accomoderanno fuori della torre, all’ombra degli ulivi. Staranno molto bene al fresco. Ma se vuoi fare cambiamenti li facciamo» disse Kambeddu.
Homar ci pensò e poi disse «Può anche andare così. Si può sempre cambiare all’ultimo momento»
I giorni successivi vennero altre barche mandate da Babarant; alcuni dei suoi uomini si piazzarono a Jenusa, mangiando, bevendo e ubriacandosi. Fra di loro c’era anche Quilian, il figlio maggiore di Babarant. La cerimonia riguardava lui; il padre aveva deciso di festeggiare in uno dei suoi possedimenti la maggiore età del figlio. Quilian non era mai sceso dall’altopiano in vita sua, vedeva il mare dall’alto, contornato da innumerevoli isolotti, possedimenti della sua famiglia e quello era il suo mondo. D’altronde aveva tutto quello che si poteva desiderare sull’altopiano. I signori e i servi delle isole, pur essendo circondati dall’acqua non l’amavano e preferivano la poca terra rimasta nel mondo.
Quilian camminò per tutti i confini di Jenusa, accompagnato dalle sue guardie e dai servitori, mangiando e dormendo all’aperto, che si era nella bella stagione. Imparò a nuotare, in acque profonde e talmente limpide che immergendosi gli sembrava di librarsi nell’aria. Mangiò del pesce arrostito al fuoco sulla spiaggia, capre selvatiche, cervi e cinghiali catturati a caccia.
Fu in una di queste sere che conobbe Kinisia una delle ragazze che servivano gli uomini a tavola. Come figlio del padrone avrebbe potuto prenderla a suo piacimento, ma non lo fece e Homar lo rimproverò scherzosamente, dicendo che se del caso ci avrebbe pensato lui.
Con altrettanta allegria Quilian gli disse «Se lo farai, o una delle guardie lo farà, ti ucciderò»
«Sei sicuro che abbia detto proprio così?»
«Si Kambeddu», disse il vecchio Joberte. «Lo hanno sentito»
Kambeddu rimuginava queste cose nei giorni seguenti, durante i preparativi della cerimonia. Seguiva i lavori muovendosi in libertà, ricordando i luoghi della sua infanzia, ritrovando qualche vecchio coetaneo, rievocando antiche storie.
Sapevano che aveva servito i tiranni Babarant, che non aveva avuto scelta e sapevano che prima o poi si sarebbe vendicato per quello che gli avevano fatto, anche dopo molti anni. Era la loro legge non scritta.
La vendetta avrebbe anche sancito la sua fine. Nessuna fuga sarebbe stata possibile, non a lungo e poi non avrebbe potuto: era vecchio, dove poteva andare? Anche uscendo da quell’arcipelago di isole e raggiungendo un altro luogo non avrebbe avuto senso ricominciare una vita. Il suo tempo era quasi finito. Voleva far capire al tiranno quanto dolore si provava nel perdere la propria famiglia. Per anni aveva lavorato e rimuginato in silenzio. Era morto Babarant l’autore della sua infelicità e aveva servito il padre. Era morto anche lui e aveva servito il figlio, l’attuale tiranno che ricordava vagamente la storia di Kambeddu, tanto lontana da essere velata di leggenda. E poi Kambeddu era un cerimoniere perfetto, organizzatore di banchetti e feste con i migliori prodotti che venivano riscossi dai servi delle isole nel mare intorno all’altopiano.
Spesso il tiranno si trovava a parlare quasi in confidenza con Kambeddu e gli aveva rivelato di voler festeggiare la maggiore età del suo primogenito in una delle sue isole. Aveva nulla in contrario a organizzare una festa a Jenusa? Disse un giorno con leggerezza.
Qualunque vostro desiderio è un ordine, aveva risposto Kambeddu, che da allora non era più riuscito a dormire. Sarebbe tornato alla sua terra! E avrebbe avuto modo di vendicarsi! Si era portato il pensiero della vendetta per anni, tutti i giorni della sua vita.
Ora Kambeddu camminava di notte nel bosco ai margini di una spiaggia. Sentì delle voci e rallentò il passo, avanzando piano. Sulla riva del mare vide Quilian che andava a fianco di Kinisia. I due ragazzi si tenevano per mano e sorridevano. Si fermarono, si sdraiarono e si baciarono, con l’acqua che luccicava sotto la luna piena, avvolti dall’odore del mare e del bosco. Kambeddu strinse il coltello che teneva in tasca.
Sarebbe stato facile, molto facile sgozzare Quilian come un capretto in quel momento. E Kinisia? Erano felici. Non era giusto. Non era giusto. Prese il coltello, lo gettò lontano. Per la prima volta da quando era bambino sentì il suo cuore diventare leggero, come se si fosse tolta una pietra.
Per la prima volta si sentì felice. Allora pianse.