Compattatore

1
Un giorno presi la decisione di farla finita con tutto. Quel tutto tanto caro all'uomo e che si traduce in: mostrati sorridente-non impazzire-sii produttivo-non impazzire-mostrati sorridente.
Ero solo un ragazzino quando, sotto a un cielo notturno privo di nuvole e la luna che mi irrideva come un pagliaccio indemoniato, venni colto alla sprovvista da due delinquenti.
Io ero a piedi e cercavo di tornare a casa lottando contro una decina di birre nello stomaco.
Sentii il loro lezzo ancor prima del rumore emesso dal motore elaborato montato sulla vespa special. Ho sempre avuto un radar interno per certi fetori.
I loro volti erano coperti da sciarpe nere, i cappelli con visiera inclinati a coprire gli occhi.
Si avvicinarono, poi spensero la moto.
Una precisazione: mi colsero alla sprovvista in quanto ho sempre creduto che a un tipo come me certe cose non potessero accadere. Non per via dell'ingenuità, bensì perché difficilmente un cane sceglie di defecare sopra altra merda. Ma qui si parla di porci, e si sa: loro razzolano dove possono. Dunque, lezione imparata.
Altra precisazione: ovviamente questo accadimento fu solo la goccia che fece traboccare un vaso colmo di delusioni.
«Devo fare il pieno al motore», disse il tipo alla guida. L'altro fece spuntare una pistola dalla giacca.
Originale, pensai. Originale e d'effetto. Bello. Un vero MacGuffin.
«Il portafogli, muoviti», aggiunse l'altro. Fece cadere lo sguardo prima sull'arma poi su di me. Tutto chiaro, sì.
Non avevo soldi, ma soprattutto non avevo intenzione di sottostare a quella tiritera tutta umana che si traduce sempre in: evita i problemi-non impazzire-sii civile-non impazzire-evita i problemi. Non più. E quindi raccolsi i frutti dell'allenamento estenuante, al quale avevo sottoposto i muscoli del viso per giorni interi, fatto di fronte allo specchio. Anzi, agli specchi. Era diventata un'ossessione: dinanzi al mio riflesso, non potevo esimermi dal provare a mettermi terrore facendo smorfie, grugniti, spalancando gli occhi o la bocca, fino a sentire i muscoli della faccia tutti indolenziti.
E non solo: più e più volte mi esercitavo a modulare la voce arrivando a emettere suoni strani, difficili da spiegare; una commistione di versi gutturali e denti che stridono.
«Oh, e allora?» Grugnì uno dei due porci.
Adagiai le braccia lungo ai fianchi e iniziai a dondolare avanti e indietro senza esagerare troppo. Spalancai talmente tanto gli occhi che per un attimo ebbi l'impressione che si stessero per staccare dalle orbite. Infine, aprii la bocca e feci uscire quei suoni, quei maledetti suoni.
Voglio essere sincero: a quel punto, mi aspettavo fragorose risate o, nella peggiore delle ipotesi, una pallottola in fronte. Ma non fu così. C'era qualcosa in quella patetica esibizione che spinse i due ladruncoli a mettere in moto e a darsela a gambe senza aggiungere nulla. Qualcosa che percepii anch'io, lungo la schiena e su per le braccia. Se solo ci fosse stato uno specchio, allora avrei potuto capire che si trattava di una sincera manifestazione di sofferenza. Uno sfogo di tale purezza che solo un uomo spogliato delle sue inutili regole può mettere a nudo.
Molto banalmente: non c'era rimedio per il mio dolore. Non volevo essere come loro, come voi, punto.
Altra banalità: da allora non feci che andare sempre più giù. Così in basso da toccare i rifiuti tossici dell'uomo, letteralmente.

Ho sempre avuto una predilezione per gli scarti. Ai miei occhi, ciò che ha perso la sua funzione in questa vita votata all'efficienza acquista valore e fascino. Non esiste luogo abbandonato che io non conosca nella mia città né cassonetto dei rifiuti a cui non abbia dato un'occhiata.
Dopo lo spiacevole, quanto rivelatore, MacGuffin, capii che avrei dovuto fare di meglio; non era più sufficiente fingersi un demone, dovevo esserlo.
Un rifiuto umano, una bestiaccia nata dal niente: senza culto, solo imbecillità e follia.
Avrei trovato finalmente il mio ruolo tra i maiali. Andai alla ricerca della cosa che più di ogni altra potesse identificarli al punto che loro stessi, incapaci di sostenerne anche solo la vista, se ne liberavano: il pattume.
Raccattai di tutto e di più. Ogni cassonetto era un forziere pieno di gioielli; biancheria sporca, piatti e bicchieri di plastica lacerati, sacchi di avanzi gocciolanti, microonde sfasciati, riviste spiegazzate, involucri di: cioccolatini, patatine, gelati e altre robacce. Pannolini, bambole con arti smembrati e occhi cavati da qualche bambina sadica, chiodi, e così via.
Alle volte arrivavo a tuffarmici dentro quelle meraviglie, e quando arrivava uno dei tanti bisognosi alla ricerca di qualcosa di inutile da poter rendere utile, allora affiorava la mia testa dal ciarpame, come un serpente, sibilando anatemi.

Per ultimare il progetto serviva un rituale cosicché potessi incidere il mio marchio sul mondo.
Portai i miei preziosi feticci all'interno di una catapecchia col tetto sfondato e i muri scrostati. Un vero paradiso in mezzo a un boschetto vicino al mio quartiere. Quel tugurio, contornato dai rami secchi degli alberi intenti a graffiarlo e baciato da una luna che adesso era così seria e impaurita, sembrava che lo conoscessi solo io. Meglio così.
Impiegai una notte per completare il mio sontuoso trasloco.

Non seguii un ordine preciso per la collocazione degli oggetti, volevo che quell'ambiente diventasse un rifugio ideale per loro, fatto di caos e tanto amore. Prima costellai il pavimento di candele; il vento, che si insinuava dalle finestre rotte, fece tremolare le fiammelle che davano l'impressione di volersi prostrare al mio cospetto. Poi cominciai a sistemare dei barattoli vuoti sopra a un vecchio tavolo storto a cui mancava mezza gamba. Alcuni scivolarono e si spaccarono. Bene, pensai. Ne approfittai: raccolsi i sacchi umidi pieni di schifezze riversandone il contenuto un po' ovunque. Ogni centimetro avrebbe dovuto essere coperto dalle leccornie lasciate a metà ad ammuffire, dai boli di cibo masticati e rigettati, dalle cartacce, dagli assorbenti, dai cocci dei bicchieri e dei piatti macchiati di sugo raggrumato. Presi a eccitarmi, ero così sudato che decisi di spogliarmi per poi buttare quelle insulse vesti insieme ai suoi compagni rifiutati. Tanto non mi servono più, riflettei. Conservai solo il portafogli che tenevo nella tasca posteriore dei pantaloni, e lo adagiai sul tavolo. Le ombre strisciavano timide sui muri rischiarati dalla luce mentre mi accingevo a inchiodare teste di bambole qua e là.
L'odore era un tripudio di fragranze che ottenebrava i sensi; il problema fu presto risolto grazie a una decina di sacchetti pieni delle mie feci miste a quelle di cane raccolte un po' in giro. Le lanciai con violenza in tutte le direzioni, ogni volta che riuscivo a centrare le testoline appese scoppiavo in una risata isterica.
Dopo, quando i pensieri si fecero sussurri, e i ricordi ovattati, presi uno specchio e lo poggiai a una parete di fronte a me. Quell'uomo nel riflesso non mi rappresentava più. Non faceva che dimenarsi e sgranare gli occhi. Ringhiava e cercava invano di mordere la sua prigione senza vie di fuga.
Con la bocca piena di sangue gengivale, insieme a un improvviso desiderio di morte, recuperai il portafogli per svuotarlo del suo unico contenuto: i documenti-la mia identità-un nome e un cognome-niente soldi, mi spiace.
Presi una candela e bruciai quelle illusioni. Nel riflesso vidi il corpo colorarsi, poco alla volta, di quel magnifico nero malaticcio, sbiadito, insito in tutto ciò che arde a fuoco lento, prima di cedere, per poi deformarsi e spegnersi.
Infine: completai il rituale attuando il battesimo. Il mio nome è Aroctpatomet, custodirò la vostra vera natura. Dissi.
Oltre la fine: Arriverà il giorno in cui non vi sarà più nulla da riciclare. Nessun uomo, mai più.
Rispondi

Torna a “Racconti”