[MI148] Strano
Posted: Sun Apr 11, 2021 11:50 pm
Il mio commento
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Traccia di Mezzogiorno: La maledizione delle piccole cose[/font]
Il paese è un’erta stretta e lastricata.
È uno spingersi di case incombenti, talmente pigiate tra loro che basterebbe sfilarne via una per vederle ruzzolare tutte a terra. Loro e i panni perennemente stesi, sempre gli stessi come cinquant’anni fa.
Il paese è la salita umida che percorro, un budello ombroso slavato della pioggia appena cessata, un vicolo che puzza di muffa e di ricordi.
Io so che non dovrei essere qui, vorrei non esserci. Eppure, è bastata una voce ed eccomi, arrancante nei miei sette decenni lungo questi muri zeppi di ricordi. Travolto dai dettagli, dal significato di ogni mattone, di ogni finestra, di ciascun uscio.
Se potessi, procederei con gli occhi chiusi, completamente cieco di pensieri, ma ogni lastra sconnessa è un trabocchetto per le mie instabili gambe e non desidero affatto rotolare giù, come un sacco di patate, o come il vecchio che sono.
Così devo lottare con la follia che mi ha portato via da qui. Quanti, quanti anni mi ci sono voluti per imparare a gestire la mia stranezza?
Già, era così che mi definivano le donne al mio passaggio: lo strano.
Salivo questo medesimo vicolo tirato dal passo svelto di mia madre, la domenica per la messa, quando sfidava la vergogna, osando portarmi fuori.
Nei miei passettini infantili, quasi volavo mentre gli occhi cercavano appigli ovunque. La maniglia d’ottone d’una porta, il perché della sua forma, l’alone scolorito da migliaia di prese… ed ero già oltre, a una ciocca di capelli scuri, lucidi, che sfuggiva da un foulard azzurro e al suo perché, alla ragione per cui… gli scalini di pietra davanti alla chiesa, il tarlo nel legno del portone, la mano inchiodata del poveretto sulla croce. Il sangue, la sofferenza sul suo volto.
Poi le panchine scricchiolavano di persone, il vociare cresceva. Visi, mani, vestiti. Troppi, troppe cose da guardare, da capire. Era come se la testa si frantumasse in migliaia di cristalli luminescenti. Tutto, tutto. Dovevo vedere ogni cosa e saettavo gli occhi, giravo la testa a destra, a sinistra e poi ancora di lato e ancora, senza fine.
Non sarei stato in grado di fermarmi, se non fosse stato per mia mamma, che estraeva dalla borsetta un foglio piegato in quattro, lo apriva e me lo passava.
Non ho idea di chi le avesse dato quella pagina di libro, vi erano rappresentate delle scale impossibili che iniziavano dove finivano, senza soluzione di continuità. Mi perdevo in esse per ore ed ore; forse sarebbe stato per sempre se ogni volta mia madre, finita la funzione e con la chiesa già vuota, non me le avesse strappate di mano.
Il cuore come lo sgretolarsi d’un sasso, manca il respiro. Mi devo fermare, appoggiandomi con la mano al muro, ed è quello che non vorrei fare. Ho paura e chiudo gli occhi, perché so dove sono. Ho visto lo scalino consumato, la crepa a forma di rosa, ora come cinquant’anni fa.
No. Qualcos’altro. Devo trovare un appiglio, un altro dettaglio.
Una enorme, mostruosa cicala mi stordiva, ferma sull’ulivo, il sole mordeva le spalle. Ero lì per l’una o per l’altro? O per l’increspatura del tronco? Indeciso mi domandavo a cosa fosse importante dare la mia attenzione, quando: «Tu sei quello Strano?»
Voce di bambina. Sconosciuta, carezzevole. Occhi neri enormi da non scordare mai. E viso ovale, dolci labbra sorridenti. Cosa strana le labbra di un essere umano, che cambiano forma, ma tornano sempre uguali a prima. Come il mare. Come l’erba piegata dal vento. Come…
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Traccia di Mezzogiorno: La maledizione delle piccole cose[/font]
Il paese è un’erta stretta e lastricata.
È uno spingersi di case incombenti, talmente pigiate tra loro che basterebbe sfilarne via una per vederle ruzzolare tutte a terra. Loro e i panni perennemente stesi, sempre gli stessi come cinquant’anni fa.
Il paese è la salita umida che percorro, un budello ombroso slavato della pioggia appena cessata, un vicolo che puzza di muffa e di ricordi.
Io so che non dovrei essere qui, vorrei non esserci. Eppure, è bastata una voce ed eccomi, arrancante nei miei sette decenni lungo questi muri zeppi di ricordi. Travolto dai dettagli, dal significato di ogni mattone, di ogni finestra, di ciascun uscio.
Se potessi, procederei con gli occhi chiusi, completamente cieco di pensieri, ma ogni lastra sconnessa è un trabocchetto per le mie instabili gambe e non desidero affatto rotolare giù, come un sacco di patate, o come il vecchio che sono.
Così devo lottare con la follia che mi ha portato via da qui. Quanti, quanti anni mi ci sono voluti per imparare a gestire la mia stranezza?
Già, era così che mi definivano le donne al mio passaggio: lo strano.
Salivo questo medesimo vicolo tirato dal passo svelto di mia madre, la domenica per la messa, quando sfidava la vergogna, osando portarmi fuori.
Nei miei passettini infantili, quasi volavo mentre gli occhi cercavano appigli ovunque. La maniglia d’ottone d’una porta, il perché della sua forma, l’alone scolorito da migliaia di prese… ed ero già oltre, a una ciocca di capelli scuri, lucidi, che sfuggiva da un foulard azzurro e al suo perché, alla ragione per cui… gli scalini di pietra davanti alla chiesa, il tarlo nel legno del portone, la mano inchiodata del poveretto sulla croce. Il sangue, la sofferenza sul suo volto.
Poi le panchine scricchiolavano di persone, il vociare cresceva. Visi, mani, vestiti. Troppi, troppe cose da guardare, da capire. Era come se la testa si frantumasse in migliaia di cristalli luminescenti. Tutto, tutto. Dovevo vedere ogni cosa e saettavo gli occhi, giravo la testa a destra, a sinistra e poi ancora di lato e ancora, senza fine.
Non sarei stato in grado di fermarmi, se non fosse stato per mia mamma, che estraeva dalla borsetta un foglio piegato in quattro, lo apriva e me lo passava.
Non ho idea di chi le avesse dato quella pagina di libro, vi erano rappresentate delle scale impossibili che iniziavano dove finivano, senza soluzione di continuità. Mi perdevo in esse per ore ed ore; forse sarebbe stato per sempre se ogni volta mia madre, finita la funzione e con la chiesa già vuota, non me le avesse strappate di mano.
Il cuore come lo sgretolarsi d’un sasso, manca il respiro. Mi devo fermare, appoggiandomi con la mano al muro, ed è quello che non vorrei fare. Ho paura e chiudo gli occhi, perché so dove sono. Ho visto lo scalino consumato, la crepa a forma di rosa, ora come cinquant’anni fa.
No. Qualcos’altro. Devo trovare un appiglio, un altro dettaglio.
Una enorme, mostruosa cicala mi stordiva, ferma sull’ulivo, il sole mordeva le spalle. Ero lì per l’una o per l’altro? O per l’increspatura del tronco? Indeciso mi domandavo a cosa fosse importante dare la mia attenzione, quando: «Tu sei quello Strano?»
Voce di bambina. Sconosciuta, carezzevole. Occhi neri enormi da non scordare mai. E viso ovale, dolci labbra sorridenti. Cosa strana le labbra di un essere umano, che cambiano forma, ma tornano sempre uguali a prima. Come il mare. Come l’erba piegata dal vento. Come…
«Non ti agitare, sono Anna. Mio papà è il nuovo medico del paese. Sono giorni che ti spio. Perché fai quello che fai?» la sua manina calda mi prese il mento e lo volse a sé.
La forma delle sue scapole ossute era come la linea dolce delle colline, il collo la corda dei panni tra due finestre socchiuse e gemiti incomprensibili.
«Che dici, diventiamo amici?», sorrise radiosa.
Cercai nuovamente la cicala, ma non c’era più. Non avevo sentito che smetteva il suo richiamo e mi spaventai al pensiero di quanto mondo avevo perso per colpa della mia «Amica?» le domandai.
E lei sorridendo mi tirò per un braccio per andare a giocare.
Sono scivolato seduto per terra, sempre con gli occhi chiusi, maledicendo d’essere lì.
Sento il vibrare di chi si muove dentro la casa al di là del muro e il loro parlare pacato m’attrae. Altri dettagli incombono, cercano strada nella mia spossatezza, ma più di tutti una voce di donna che mi chiama, la notte prima. L’assenza di mia moglie, solo una foto uguale a quella scelta per la lapide al finire della sua malattia e, Anna vorrebbe vederti, dice la voce.
Annuisco e dopo tanti anni trascorsi senza averlo nemmeno pensato, monto sul primo treno per tornare al luogo da cui fui rinchiuso. Proprio dove mi trovo ora, accanto alla crepa a forma di rosa.
Io e lei eravamo diventati amici. Di nascosto da genitori e adulti, timorosi del male che uno strano come me poteva procurare a una ragazza. Ogni notte d’estate dosavo la pressione delle dita per uscire di soppiatto dalla finestra. Salivo rapido l’erta pensando, concentrandomi, su dettagli di Anna, per non farmi catturare la mente dalle civette, dall’ondeggiare d’una camicia dimenticata appesa. Dalla luna verticale e dalla sua ombra, che non avrebbe dovuto esistere. Tutte le notti ci trovavamo in segreto alla rosa, e poi a zonzo per chiacchierare nel fresco dei prati, ma non quell’ultima notte.
Dettagli, in testa dettagli per non vedere il tutto. Un seno bianco, scoperto. Scuro capezzolo e sangue dalla bocca, e sotto i capelli. Scuro colore rubino, le mie mani che tremano. Vedo i pantaloncini intorno alla caviglia. La chiamo, prendo il suo volto tra le mani «Anna» grido «Anna». Ma non risponde. Le sue mutandine strappate proprio sopra la forma di rosa. Dettagli. Il pelo riccio sul suo pube. Morbido, sembra morbido. Posso toccarlo, Anna? Solo sfiorare quel particolare di te. L’ombra della luna sul suo ventre all’abbassarsi della mia mano.
E uno strillo. Un colpo alla testa e nero.
Piango mentre mi rialzo, ma ugualmente riesco a leggere l’ora.
Non penso all’acqua piovana tra le fessure del lastricato. Nemmeno alle pasticche, alle cure, all’abbandono nella clinica di detenzione minorile. Non penso alla vita passata, ma solo ad affrettarmi, perché manca poco e le nubi si sono aperte per me, per noi. Perché nel tramonto abbiamo un appuntamento speciale.
Mancano pochi metri alla curva che cela il miracolo. Il cuore sembra impazzito quando raggiungo l’angolo che cela l’ultimo tratto, svolto, e il dettaglio impresso a fuoco nella mia mente è davvero lì, ora come mezzo secolo prima. Un obliquo fascio di tramonto che trova spazio tra due case, che in queste sere d’estate sembrano scansarsi un poco per lasciarlo passare.
Sedici anni, sto salendo ondeggiante sul lastricato e quell’inatteso chiarore mi sorprende. Polvere galleggiante nel suo aranciato splendore. Il nido d’una rondine come una conchiglia del cielo e il raggio che scivola fino alla finestra di Anna. I suoi occhi languidamente chiusi, affacciata a godersi quella luminosa carezza.
La sua maglietta leggera che sagoma le forme mature. Il naso dolce e le mie nocchie che le sfiorano la guancia. Vellutato calore. Il suo stupefacente sorriso e un bacio che promette amore eterno.
Ancora lacrime e ricordi.
Io di nuovo libero, curato dicevano, e Anna che è lì ad aspettarmi. Il suo scusarsi timido, perché non le avevano creduto quando giurava che non ero stato io. E perfino più umilmente il suo chiedermi se la volevo ancora. Se ancora ci amavamo come in quell’estate.
«Nonno!» chiama Elisa salendo affannata verso di me «Ti abbiamo trovato, per fortuna. Se alla mamma non fosse venuto in mente che cinquant’anni fa…»
«Tua nonna» risponde la mia voce rugginosa «Voleva salutarmi un’ultima volta, mi ha chiesto lei di venire qui»
«E cosa doveva dirti, nonna Anna, di così importante?»
La osservo.
Dettagli. I suoi occhi come quelli di Anna. Sedici anni come al nostro primo bacio. Il viso ovale e un sorriso che sa di futuro.
«Mi ha ricordato che una vita è nei dettagli. Di non dimenticarlo e viverli tutti, uno per uno»