[MI148] Nuvole
Posted: Sun Apr 11, 2021 9:39 pm
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Traccia di Mezzogiorno
Nuvole
Quando il sole mi colpisce le palpebre un attimo prima che la lancetta dell’orologio segni le sette e trenta, sono fiera che mia testa sia già in funzione, lavora e calcola e mi rimanda decine di informazioni utili: in un minuto ci sono sessanta secondi, in un’ora, sessanta minuti.
L’orologio che ho nel cervello è in sincronia con le ore e i minuti: mi ci vogliono trenta respiri per decidere di girare la testa, mezzo secondo. Altri trenta respiri per contare i granelli di polvere che vorticano nell’aria sopra di me, colpiti dal sole che inizia a cambiare i tratti di questa stanza bianca.
Nascondo la testa nel cuscino e lo mordo, nella speranza che l’ansia possa rimanere lì, impressa nel segno della chiostra. La pulsione di dover pulire, di dover usare ben dieci prodotti diversi, due scope ed un’aspirapolvere, mi vortica davanti.
Altri trenta secondi e il cervello mi salva: mi balena in mente il ricordo dei sassolini piatti che mi divertivo a lanciare a pelo d’acqua, quando andavo al mare.
uno.
Due.
Tre.
Ciaf!
Ed è quando sento quel ciaf che posso liberarmi della ragnatela di coperte, sollevandomi di slancio.
Sbatto energicamente le lenzuola, allontano la polvere che percepisco muoversi in direzione della finestra. E sono più calma. Ma…tutti quei rivoli di grinze senza senso, sul lenzuolo, senza geometria, mi disorientano, ci passo la mano sopra centoventi volte. Due minuti. Spariscono. Ricopro il lenzuolo rettangolare con il tessuto blu della sopraccoperta. Blu su bianco. Le nuvole ricoprono il mare, come quei giorni alla spiaggia in cui lanciavo i sassi per contarne i battiti sull’acqua.
Potrei non uscire mai da quella stanza ora che il letto è perfetto e raccoglie il mare e le nuvole nella sua perfezione senza pieghe. Ma Isabella ha bisogno di essere svegliata e di fare colazione.
Devo farmi forza e attraversare le mattonelle quadrate del pavimento. Sono nere come le rondini, e potrebbero farmi volar via ad ogni passo. Appoggio la mano al muro e conto, uno a dritto, salta la riga, due a dritto, salta la riga, tre a dritto, salta la riga e così, fino ad arrivare a sessanta. Che segna la fine del minuto, dell’ora, del muro e devo voltarmi verso destra per arrivare in cucina.
Sui fornelli c’è una padella. L’ho lasciata lì la sera prima, con le uova accanto per non dimenticarmene il motivo.
Ne rompo tre con un movimento del polso. Il guscio si divide in due. Nessuna buccia a danneggiare quella perfetta triade gialla e trasparente.
Finalmente posso far scattare la fiamma del fornello in tre schicchi.
Ora mi posso concentrare sull’albume che si gonfia in centinaia di bollicine, mi piace contarle e poi alzo gli occhi sul tuorlo, rimasto circolare e perfetto, come un sole della grandezza di mezzo palmo che darà energia mia piccola.
La colazione salata sarà una sorpresa, ma insieme al giallo e al bianco il suo colore preferito è anche il rosso, e quindi taglio una fragola in quattro spicchi, e poi in due parti uguali.
La sveglia suona all’ottava ripetizione dei campanelli, sento che tutto si quieta.
Isabella si alzerà esattamente tra trenta respiri. Posso occuparmi di disporre le fragole sotto le uova perché i tuorli siano tre occhi di un alieno e le fragole il suo sorriso e due antenne.
“Mamma che bello!” il pigolio del suo urlo mi scalda il cuore, si stropiccia gli occhi sgranati dalla sorpresa. Ama l’alieno di fragole e uova.
Soffia via gli involti bianchi del calore che si sollevano dal piatto di coccio, per un tempo eccessivamente lungo per lei. Le ho spiegato che se non soffia attentamente, si scotterà la lingua e non potrà sentire i sapori. Poi mangia, a bocconi piccoli, avvolgendo tutta la mano attorno alla forchetta per afferrarla e infilzare le fragole.
Il dolce prima del salato. Non avere le antenne consentirà all’alieno di non sentirla mentre si avventa sulle altre parti di lui.
La mia piccola scienziata intelligente se ne sta seduta soddisfatta sulla sedia verde, della sua misura, davanti al tavolo piccolo che ho comprato per lei, e del quale le consento di colorare gli angoli.
“Mamma, ieri Irene mi ha detto che è arrivato il circo in città. Possiamo andare al centro a vedere se è vero?” la sua domanda mi colpisce, facendomi sentire freddo. Non possiamo uscire, ci sono molte cose da fare in casa, i biscotti, l’amaca sul balcone
“Amore, non possiamo dobbiamo fare i biscotti”, le faccio notare, nascondendo il respiro corto. Non voglio uscire di casa, attraversare la strada guardando a destra e a sinistra due volte prima di attraversare, dovendo attraversare la strada passando solo sulle strisce bianche, e poi camminare sul marciapiede stando attente a rasentare i muri per non oscillare e perdere l’equilibrio. E cadere in strada.
“Mamma per favore, non voglio fare i biscotti. Voglio andare a controllare se c’è il circo. Se non c’è torniamo a casa, ma intanto, lungo la strada possiamo contare le nuvole in cielo. Ti aiuterò io a vedere le forme nascoste tra loro, se non ce la fai.” Mi promette con la voce piccola e sottile, ma risoluta. Una scienziata vera, che sa come zittire la mia testa e portami a spasso con il cuore. Ha vinto lei. Usciamo.
***
“Mamma, perché quel signore cammina così?” mi chiede Isabella additando con la piccola mano rosea un uomo che cammina avanti e indietro nella piazza. La sua voce mi riscuote di soprassalto come l’assolo di un violino che trilla al di sopra del mormorio degli ottoni roboanti che mi rimandano i suoni della città.
Il suo movimento unisce i rivoli d’acqua in una ragnatela che sembra argentata sul suo impermeabile giallo. Le gocce cadono a terra come serpenti. Ne avevo contate trenta. E ora devo ricominciare.
Il respiro mi scappa affaticato dalle labbra, mi lascio trascinare, stringo la sua mano con forza: la sua spensieratezza allenta la morsa della paura che sento alla bocca dello stomaco, mi eviterà di sprofondare nella nera voragine che si nasconde sotto quella buca poco più avanti. Non succederà nulla. Mi ripeto. Non succederà nulla. Non succederà nulla. Non succederà nulla. Sentire tre volte quest’eco nella testa mi rassicura.
Senza Isabella non dovrei sovraccaricare la testa di mille pensieri che si riconcorrono come lucciole dentro di me, e mi illuminano le orecchie, gli occhi. Senza di lei non potrei neanche soffermarmi a vedere il rosa sintetico dello zucchero filato che resta in equilibrio sul bastoncino di legno sfidando la gravità e sbeffeggiando le nuvole in volute di rosa innaturale.
È l’unica cosa che non le pulisco mai dalla bocca, quando si sporca. Le dico sempre che ha le nuvole rosa intorno al sorriso.
Ora ci stiamo muovendo nella direzione del giocoliere: da lontano mi sembra una fiamma che guizza, ma al dodicesimo passo noto che si muove in circolo sul terreno, sembra voler stare attento a non pestare le linee della pavimentazione.
Questo mi distende, mi attrae e non trattengo più Isabella che corre avanti e rimane ferma sul limitare di un cerchio invisibile alla giusta distanza dall’uomo che sembra fatto della stessa sostanza della terra.
Dentro di me, un grumo di soddisfazione si addensa ed esplode in decine di stelle. Sta apprendendo bene, vede la geometria degli spazi, ma non come la vedo io, con i suoi occhi piuttosto. Pieni di meraviglia.
L’uomo continua la sua danza passandosi sette palline blu tra le mani, sopra la testa, tra le gambe e nel frattempo esegue capriole, per spingersi sulle mani, sui gomiti, sulla testa, e rimane coi piedi in aria. Somiglia sempre di più ad una fiamma che vuole toccare le nuvole.
Io e Isabella restiamo a guardarla finché le nuvole si tingono d’oro e il sole si addormenta oltre le colline.
Vorrei parlargli, ma a una fiamma che ha incendiato le nuvole per me e per il sorriso di mia figlia, non si può chiedere nulla di meglio.
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Traccia di Mezzogiorno
Nuvole
Quando il sole mi colpisce le palpebre un attimo prima che la lancetta dell’orologio segni le sette e trenta, sono fiera che mia testa sia già in funzione, lavora e calcola e mi rimanda decine di informazioni utili: in un minuto ci sono sessanta secondi, in un’ora, sessanta minuti.
L’orologio che ho nel cervello è in sincronia con le ore e i minuti: mi ci vogliono trenta respiri per decidere di girare la testa, mezzo secondo. Altri trenta respiri per contare i granelli di polvere che vorticano nell’aria sopra di me, colpiti dal sole che inizia a cambiare i tratti di questa stanza bianca.
Nascondo la testa nel cuscino e lo mordo, nella speranza che l’ansia possa rimanere lì, impressa nel segno della chiostra. La pulsione di dover pulire, di dover usare ben dieci prodotti diversi, due scope ed un’aspirapolvere, mi vortica davanti.
Altri trenta secondi e il cervello mi salva: mi balena in mente il ricordo dei sassolini piatti che mi divertivo a lanciare a pelo d’acqua, quando andavo al mare.
uno.
Due.
Tre.
Ciaf!
Ed è quando sento quel ciaf che posso liberarmi della ragnatela di coperte, sollevandomi di slancio.
Sbatto energicamente le lenzuola, allontano la polvere che percepisco muoversi in direzione della finestra. E sono più calma. Ma…tutti quei rivoli di grinze senza senso, sul lenzuolo, senza geometria, mi disorientano, ci passo la mano sopra centoventi volte. Due minuti. Spariscono. Ricopro il lenzuolo rettangolare con il tessuto blu della sopraccoperta. Blu su bianco. Le nuvole ricoprono il mare, come quei giorni alla spiaggia in cui lanciavo i sassi per contarne i battiti sull’acqua.
Potrei non uscire mai da quella stanza ora che il letto è perfetto e raccoglie il mare e le nuvole nella sua perfezione senza pieghe. Ma Isabella ha bisogno di essere svegliata e di fare colazione.
Devo farmi forza e attraversare le mattonelle quadrate del pavimento. Sono nere come le rondini, e potrebbero farmi volar via ad ogni passo. Appoggio la mano al muro e conto, uno a dritto, salta la riga, due a dritto, salta la riga, tre a dritto, salta la riga e così, fino ad arrivare a sessanta. Che segna la fine del minuto, dell’ora, del muro e devo voltarmi verso destra per arrivare in cucina.
Sui fornelli c’è una padella. L’ho lasciata lì la sera prima, con le uova accanto per non dimenticarmene il motivo.
Ne rompo tre con un movimento del polso. Il guscio si divide in due. Nessuna buccia a danneggiare quella perfetta triade gialla e trasparente.
Finalmente posso far scattare la fiamma del fornello in tre schicchi.
Ora mi posso concentrare sull’albume che si gonfia in centinaia di bollicine, mi piace contarle e poi alzo gli occhi sul tuorlo, rimasto circolare e perfetto, come un sole della grandezza di mezzo palmo che darà energia mia piccola.
La colazione salata sarà una sorpresa, ma insieme al giallo e al bianco il suo colore preferito è anche il rosso, e quindi taglio una fragola in quattro spicchi, e poi in due parti uguali.
La sveglia suona all’ottava ripetizione dei campanelli, sento che tutto si quieta.
Isabella si alzerà esattamente tra trenta respiri. Posso occuparmi di disporre le fragole sotto le uova perché i tuorli siano tre occhi di un alieno e le fragole il suo sorriso e due antenne.
“Mamma che bello!” il pigolio del suo urlo mi scalda il cuore, si stropiccia gli occhi sgranati dalla sorpresa. Ama l’alieno di fragole e uova.
Soffia via gli involti bianchi del calore che si sollevano dal piatto di coccio, per un tempo eccessivamente lungo per lei. Le ho spiegato che se non soffia attentamente, si scotterà la lingua e non potrà sentire i sapori. Poi mangia, a bocconi piccoli, avvolgendo tutta la mano attorno alla forchetta per afferrarla e infilzare le fragole.
Il dolce prima del salato. Non avere le antenne consentirà all’alieno di non sentirla mentre si avventa sulle altre parti di lui.
La mia piccola scienziata intelligente se ne sta seduta soddisfatta sulla sedia verde, della sua misura, davanti al tavolo piccolo che ho comprato per lei, e del quale le consento di colorare gli angoli.
“Mamma, ieri Irene mi ha detto che è arrivato il circo in città. Possiamo andare al centro a vedere se è vero?” la sua domanda mi colpisce, facendomi sentire freddo. Non possiamo uscire, ci sono molte cose da fare in casa, i biscotti, l’amaca sul balcone
“Amore, non possiamo dobbiamo fare i biscotti”, le faccio notare, nascondendo il respiro corto. Non voglio uscire di casa, attraversare la strada guardando a destra e a sinistra due volte prima di attraversare, dovendo attraversare la strada passando solo sulle strisce bianche, e poi camminare sul marciapiede stando attente a rasentare i muri per non oscillare e perdere l’equilibrio. E cadere in strada.
“Mamma per favore, non voglio fare i biscotti. Voglio andare a controllare se c’è il circo. Se non c’è torniamo a casa, ma intanto, lungo la strada possiamo contare le nuvole in cielo. Ti aiuterò io a vedere le forme nascoste tra loro, se non ce la fai.” Mi promette con la voce piccola e sottile, ma risoluta. Una scienziata vera, che sa come zittire la mia testa e portami a spasso con il cuore. Ha vinto lei. Usciamo.
***
“Mamma, perché quel signore cammina così?” mi chiede Isabella additando con la piccola mano rosea un uomo che cammina avanti e indietro nella piazza. La sua voce mi riscuote di soprassalto come l’assolo di un violino che trilla al di sopra del mormorio degli ottoni roboanti che mi rimandano i suoni della città.
Il suo movimento unisce i rivoli d’acqua in una ragnatela che sembra argentata sul suo impermeabile giallo. Le gocce cadono a terra come serpenti. Ne avevo contate trenta. E ora devo ricominciare.
Il respiro mi scappa affaticato dalle labbra, mi lascio trascinare, stringo la sua mano con forza: la sua spensieratezza allenta la morsa della paura che sento alla bocca dello stomaco, mi eviterà di sprofondare nella nera voragine che si nasconde sotto quella buca poco più avanti. Non succederà nulla. Mi ripeto. Non succederà nulla. Non succederà nulla. Non succederà nulla. Sentire tre volte quest’eco nella testa mi rassicura.
Senza Isabella non dovrei sovraccaricare la testa di mille pensieri che si riconcorrono come lucciole dentro di me, e mi illuminano le orecchie, gli occhi. Senza di lei non potrei neanche soffermarmi a vedere il rosa sintetico dello zucchero filato che resta in equilibrio sul bastoncino di legno sfidando la gravità e sbeffeggiando le nuvole in volute di rosa innaturale.
È l’unica cosa che non le pulisco mai dalla bocca, quando si sporca. Le dico sempre che ha le nuvole rosa intorno al sorriso.
Ora ci stiamo muovendo nella direzione del giocoliere: da lontano mi sembra una fiamma che guizza, ma al dodicesimo passo noto che si muove in circolo sul terreno, sembra voler stare attento a non pestare le linee della pavimentazione.
Questo mi distende, mi attrae e non trattengo più Isabella che corre avanti e rimane ferma sul limitare di un cerchio invisibile alla giusta distanza dall’uomo che sembra fatto della stessa sostanza della terra.
Dentro di me, un grumo di soddisfazione si addensa ed esplode in decine di stelle. Sta apprendendo bene, vede la geometria degli spazi, ma non come la vedo io, con i suoi occhi piuttosto. Pieni di meraviglia.
L’uomo continua la sua danza passandosi sette palline blu tra le mani, sopra la testa, tra le gambe e nel frattempo esegue capriole, per spingersi sulle mani, sui gomiti, sulla testa, e rimane coi piedi in aria. Somiglia sempre di più ad una fiamma che vuole toccare le nuvole.
Io e Isabella restiamo a guardarla finché le nuvole si tingono d’oro e il sole si addormenta oltre le colline.
Vorrei parlargli, ma a una fiamma che ha incendiato le nuvole per me e per il sorriso di mia figlia, non si può chiedere nulla di meglio.