[MI148] Cane da guarda
Posted: Sun Apr 11, 2021 9:04 pm
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Traccia di mezzogiorno
«Dovresti dargli una lavata, ho tutte le dita nere». Gli sembrava che Anna lo avesse detto sorridendo, ma Guglielmo poteva solo immaginarlo. Teneva gli occhi chiusi, cercando di chiudere il mondo fuori, ma l’idea delle dita sporche gli si era infilata lo stesso sotto alle palpebre. Immaginava lo sporco e la polvere graffiargli il cristallino, addensarsi nella forma del cane da qualche parte sopra la pupilla, una coltre di pelo nero e sporco che raspava nel buio -unghie nere su pelo nero- fino ad aprire così un varco per il sole. Le idee gli avevano fatto spalancare le palpebre: era di nuovo costretto a guardare.
«Brutta giornata? Sto zitta?».
Ogni sillaba della donna veniva sminuzzata in morfemi, fonemi, foni, curve intonative.
«Oggi è ancora peggio».
«Lo vedo, hai una faccia da cane bastonato…» Cane, cane da guarda, gli dicevano a scuola, una vita fa. Anna non intendeva quello.
Il cane vero, nero, sporco, lo guardava placido dalle gambe di lei.
«Ti ho portato la spesa, comunque. Tutta roba da microonde, così non ti ci perdi troppo. E ho preso cose neutre, niente colori accesi. Zuppine monocromo, vanno bene?».
«Benissimo». Guglielmo aveva richiuso gli occhi, mentre l'idea del supermercato lo assaliva con il rosso dei pomodori, la forma dell’uva, lei con la giacca beige e i capelli corti setosi castani curati, con ciocca dietro le orecchie e il ciuffo un po' più lungo sulla destra sopra gli occhi, bistrati di kajal-eyeliner-matita, con le ciglia nere, allungate-infoltite, più ciglia, quante? E nella mente si apriva un’altra pagina, ipertesto, quante ciglia possiedono le donne umane? Ma donne umane non è come dire Anna.
«Microonde. Okay?». L'ha interrotto. Lui ha riaperto gli occhi.
Il cane non era più al suo posto. Guglielmo faticava a ritrovarlo, a isolarne l'immagine: doveva cercare l'idea del cane attraverso gli stimoli, disturbato dai mobili come dalle frasche in una battuta di caccia - una lepre, un fagiano in un campo, che raspa la terra con zampe unghiate, cardi bassi nell’erba, bestie che scappano dai cani, ecco! Il cane.
Era solo saltato giù dalle gambe di Anna.
«Sì, okay», le dice.
Ora è solo, è un po' stanco. Le cose non si limitano a starsene lì, no, vogliono esistere. Lo fanno tutte insieme, sgomitando per farsi vedere, notare. Si sovrappongono, si richiamano tra loro, vieni, vieni! C'è Guglielmo che ci guarda, finalmente!
E si fa avanti l'idea del coltello: vasca, rubinetto, acqua calda, un timer uno due tre quattro cinque sei sette otto giri di lancetta prima di ridestarsi ancora in salotto, senza aver mosso un dito, poi un’altra idea, quella della corda che è giù in cantina, ma per prenderla dovrebbe scendere i gradini e guardare l’intrico dei mattoni, le muffe, i ragni-
Il vento ha fatto sbattere la finestra della terrazza. Sarebbero pochi passi, da fare a occhi chiusi, per vedere se le idee hanno il coraggio di inseguirlo fino in fondo, fino alla strada, e di mischiarsi alle cervella sfracellate, rosse sul grigio dell’asfalto mentre i denti se ne volano fino alle aiuole e rimbalzano contro il ferro della panchina.
Già il primo passo viene fermato dal poggiolo. Il profumo dei fiori gli ha sbarrato la strada, fiori rosa, bianchi, con foglie carnose, che hanno bisogno di quindici giorni senza acqua e solo se il terreno è perfettamente secco, e forse se aprisse gli occhi vedrebbe le radici uscire dal vaso, andrebbe cambiato, e se non volesse morire - bara marrone lucida con fodero rosso e fiori bianchi e rosa e opere di bene e
Sente un calore alla gamba che lo scuote, lo richiama.
È il cane, gli ha pisciato su una caviglia.
Guglielmo rimane immobile mentre la chiazza si allarga, l'azzurro dei jeans che si tinge di blu, il tepore che passa ai calzini, i peli che si impregnano di urina. Il cane non lo sta guardando. Fissa il mondo fuori, e basta.
Traccia di mezzogiorno
«Dovresti dargli una lavata, ho tutte le dita nere». Gli sembrava che Anna lo avesse detto sorridendo, ma Guglielmo poteva solo immaginarlo. Teneva gli occhi chiusi, cercando di chiudere il mondo fuori, ma l’idea delle dita sporche gli si era infilata lo stesso sotto alle palpebre. Immaginava lo sporco e la polvere graffiargli il cristallino, addensarsi nella forma del cane da qualche parte sopra la pupilla, una coltre di pelo nero e sporco che raspava nel buio -unghie nere su pelo nero- fino ad aprire così un varco per il sole. Le idee gli avevano fatto spalancare le palpebre: era di nuovo costretto a guardare.
«Brutta giornata? Sto zitta?».
Ogni sillaba della donna veniva sminuzzata in morfemi, fonemi, foni, curve intonative.
«Oggi è ancora peggio».
«Lo vedo, hai una faccia da cane bastonato…» Cane, cane da guarda, gli dicevano a scuola, una vita fa. Anna non intendeva quello.
Il cane vero, nero, sporco, lo guardava placido dalle gambe di lei.
«Ti ho portato la spesa, comunque. Tutta roba da microonde, così non ti ci perdi troppo. E ho preso cose neutre, niente colori accesi. Zuppine monocromo, vanno bene?».
«Benissimo». Guglielmo aveva richiuso gli occhi, mentre l'idea del supermercato lo assaliva con il rosso dei pomodori, la forma dell’uva, lei con la giacca beige e i capelli corti setosi castani curati, con ciocca dietro le orecchie e il ciuffo un po' più lungo sulla destra sopra gli occhi, bistrati di kajal-eyeliner-matita, con le ciglia nere, allungate-infoltite, più ciglia, quante? E nella mente si apriva un’altra pagina, ipertesto, quante ciglia possiedono le donne umane? Ma donne umane non è come dire Anna.
«Microonde. Okay?». L'ha interrotto. Lui ha riaperto gli occhi.
Il cane non era più al suo posto. Guglielmo faticava a ritrovarlo, a isolarne l'immagine: doveva cercare l'idea del cane attraverso gli stimoli, disturbato dai mobili come dalle frasche in una battuta di caccia - una lepre, un fagiano in un campo, che raspa la terra con zampe unghiate, cardi bassi nell’erba, bestie che scappano dai cani, ecco! Il cane.
Era solo saltato giù dalle gambe di Anna.
«Sì, okay», le dice.
Ora è solo, è un po' stanco. Le cose non si limitano a starsene lì, no, vogliono esistere. Lo fanno tutte insieme, sgomitando per farsi vedere, notare. Si sovrappongono, si richiamano tra loro, vieni, vieni! C'è Guglielmo che ci guarda, finalmente!
E si fa avanti l'idea del coltello: vasca, rubinetto, acqua calda, un timer uno due tre quattro cinque sei sette otto giri di lancetta prima di ridestarsi ancora in salotto, senza aver mosso un dito, poi un’altra idea, quella della corda che è giù in cantina, ma per prenderla dovrebbe scendere i gradini e guardare l’intrico dei mattoni, le muffe, i ragni-
Il vento ha fatto sbattere la finestra della terrazza. Sarebbero pochi passi, da fare a occhi chiusi, per vedere se le idee hanno il coraggio di inseguirlo fino in fondo, fino alla strada, e di mischiarsi alle cervella sfracellate, rosse sul grigio dell’asfalto mentre i denti se ne volano fino alle aiuole e rimbalzano contro il ferro della panchina.
Già il primo passo viene fermato dal poggiolo. Il profumo dei fiori gli ha sbarrato la strada, fiori rosa, bianchi, con foglie carnose, che hanno bisogno di quindici giorni senza acqua e solo se il terreno è perfettamente secco, e forse se aprisse gli occhi vedrebbe le radici uscire dal vaso, andrebbe cambiato, e se non volesse morire - bara marrone lucida con fodero rosso e fiori bianchi e rosa e opere di bene e
Sente un calore alla gamba che lo scuote, lo richiama.
È il cane, gli ha pisciato su una caviglia.
Guglielmo rimane immobile mentre la chiazza si allarga, l'azzurro dei jeans che si tinge di blu, il tepore che passa ai calzini, i peli che si impregnano di urina. Il cane non lo sta guardando. Fissa il mondo fuori, e basta.