[MI148] Novgorod
Posted: Sun Apr 11, 2021 3:52 pm
Commento: Qui
Traccia di mezzanotte: il carcere.
Non ho paura. Mostro il tesserino alla guardia che mi squadra dall'alto in basso con fare sprezzante e con un impercettibile movimento della testa mi fa segno di andare. Prima di oltrepassare quel confine invisibile sbatto per bene i vecchi scarponi liberandoli dalla neve ed entro dalla piccola porta ricavata nel grosso e pesante portone d’ingresso. Ora sono dentro il carcere di massima sicurezza di Novgorod e posso rilassarmi un istante. Mi dirigo con fare sicuro verso le scale alla mia sinistra, quelle che scendono di sotto, non bado a ciò che ho davanti. Altre guardie mi osservano ma non mi fermano, hanno riconosciuto in me la giovane che nei giorni scorsi veniva accompagnata da un inserviente per imparare le mansioni da svolgere e il tragitto da fare una volta entrata. Oggi è il primo giorno che mi avventuro da sola tra quelle spesse mura in cui centinaia di uomini sono rinchiusi. La tensione torna a farsi sentire e devo fare bene attenzione a non scivolare sulle scale umide. Mi tengo al corrimano consumato dalle migliaia di mani che lo hanno percorso prima delle mie. Sto sudando troppo, mi slaccio il pesante cappotto e tolgo il copricapo di pelliccia anche se so già che non è il caldo umido che si respira lì dentro ad arrossarmi le guance. Mi faccio coraggio «il più è fatto, sei dentro, basta seguire il piano.» mi dico per trovare la forza di continuare la prova che mi è stata assegnata. Prendo un bel respiro profondo e apro le pesanti porte basculanti, entro nelle cucine. Subito un lezzo nauseante mi pervade le narici. Un misto di grasso animale e rancido, mi sforzo di non farmi venire la nausea, non ora, perlomeno. Mi dirigo come un automa negli spogliatoi, come se conoscessi la strada da chissà quanto. Mi cambio più veloce che posso e torno velocemente tra i pentoloni fumanti. L’inserviente il giorno prima mi ha confidato che la grassa Irina non tollera che si perda tempo, nemmeno un minuto. Perciò metto su un sorriso imbarazzato tra l’umile e l’ossequioso e mi presento al suo cospetto. La capo cucina ha lo stesso atteggiamento della guardia al portone e mi sbatte con aria di superiorità a tagliare patate. Meglio così. Per fortuna sono piuttosto abile per quel compito, a casa sono sempre io a farlo. E poi, quando mai si è visto una donna russa che non sa pelare le patate? Anche se sono mezze marce e quelle appena commestibili hanno già i germogli tossici non mi faccio scrupoli, sbuccio tutto quello che mi capita sotto le mani, sciacquo i tuberi in una tinozza di acqua sporca e le butto nel pentolone fumante. Pela, sciacqua, butta, pela, sciacqua, butta. Dopo qualche minuto ho le mani marroni di terra e la pelle marcita dall'acqua. I movimenti si fanno meccanici e la mente può concentrarsi sulla prova. Mi fermo solo un secondo per non richiamare lo sguardo di Irina, asciugo la mano sul grembiule lercio e palpo la tasca dei pantaloni di tessuto grezzo. Il sacchettino è lì, rassicurante, e mi tranquillizzo. Con un gesto automatico sistemo una ciocca di capelli sfuggita alla cuffia. Mi guardo attorno e riprendo a pelare. Nessuno degli addetti alle cucine alza mai lo sguardo e le guardie di turno sembrano più annoiate che mai. E il momento, sebbene non riesca a controllare il tremolio alle mani decido di agire comunque. Un’ultima occhiata e via. Prendo un tubero particolarmente grande, ci scavo un interstizio con la punta del pelapatate e quando lo ritengo della misura giusta sciacquo rapidamente con la mano sinistra mentre con l’altra mano prendo fulminea il sacchettino dalla tasca. Nel frattempo prego con tutto il cuore che non mi cada dalle mani e che nessuno mi stia osservando. Pochi secondi dopo con il pollice schiaccio il sacchetto nella patata e la getto nel pentolone. So di avere le guance arrossate, sento la pelle bollente, mi passo il braccio sul viso per togliermi il sudore, ho caldo, mi sento soffocare e il cuore non vuole rallentare la sua corsa. Provo a ricominciare il lavoro meccanico che mi è stato assegnato, ma il pelapatate mi sfugge di mano e cade sul pavimento, attirando l’attenzione della grassona. Lo raccolgo ma subito dopo mi accascio a terra fingendo un mancamento. Sento i passi di Irina avvicinarsi senza fretta e dopo pochi secondi gli scarponi militari di una guardia sono a pochi centimetri dal mio viso. Cerco di riprendermi. Un’altra donna si è accostata ma Irina la allontana apostrofandola in malo modo. La capo cucina mi solleva senza apparente sforzo e mi riaccompagna negli spogliatoi. Il fresco mi rianima, mi siedo sulla panca, sfinita.
«Sei troppo delicata per questo lavoro.» mi rimprovera.
«Ho bisogno di lavorare.» rispondo tremante. La supplico di farmi restare anche se in realtà non desidero altro che uscire da quella prigione.
«Torna domani.» replica seccata lei lanciandomi in grembo il mio pesante cappotto. Poi mi lascia sola. Mi cambio con calma, riprendo il controllo, respiro a fondo ritrovando la sicurezza perduta. Prendo le scale senza guardarmi indietro, non ci tornerò più in questo posto. Di questo sono sicura. Al massimo mi ritroverò di sopra dietro le sbarre della sezione femminile, per aver avvelenato una dozzina di carcerati. Mi scappa quasi un sorriso, è solo un attimo, prima di riprendere l’aspetto sofferente chi si addice al caso. Esco senza ulteriori intoppi. Mi fermo sul marciapiede e aspetto, chiudo per un momento gli occhi e sento solo il rumore della neve sotto gli scarponi e l'aria frizzante in faccia. Una Lada nera accosta. Salgo. Dimitri riparte e dopo qualche centinaio di metri mi pone la domanda fatidica: «tutto a posto?»
Faccio cenno di si con la testa.
Sorride. «Se è così facile superare i controlli di un carcere di massima sicurezza, il nostro rapporto farà cadere molte teste là dentro.»
Traccia di mezzanotte: il carcere.
Non ho paura. Mostro il tesserino alla guardia che mi squadra dall'alto in basso con fare sprezzante e con un impercettibile movimento della testa mi fa segno di andare. Prima di oltrepassare quel confine invisibile sbatto per bene i vecchi scarponi liberandoli dalla neve ed entro dalla piccola porta ricavata nel grosso e pesante portone d’ingresso. Ora sono dentro il carcere di massima sicurezza di Novgorod e posso rilassarmi un istante. Mi dirigo con fare sicuro verso le scale alla mia sinistra, quelle che scendono di sotto, non bado a ciò che ho davanti. Altre guardie mi osservano ma non mi fermano, hanno riconosciuto in me la giovane che nei giorni scorsi veniva accompagnata da un inserviente per imparare le mansioni da svolgere e il tragitto da fare una volta entrata. Oggi è il primo giorno che mi avventuro da sola tra quelle spesse mura in cui centinaia di uomini sono rinchiusi. La tensione torna a farsi sentire e devo fare bene attenzione a non scivolare sulle scale umide. Mi tengo al corrimano consumato dalle migliaia di mani che lo hanno percorso prima delle mie. Sto sudando troppo, mi slaccio il pesante cappotto e tolgo il copricapo di pelliccia anche se so già che non è il caldo umido che si respira lì dentro ad arrossarmi le guance. Mi faccio coraggio «il più è fatto, sei dentro, basta seguire il piano.» mi dico per trovare la forza di continuare la prova che mi è stata assegnata. Prendo un bel respiro profondo e apro le pesanti porte basculanti, entro nelle cucine. Subito un lezzo nauseante mi pervade le narici. Un misto di grasso animale e rancido, mi sforzo di non farmi venire la nausea, non ora, perlomeno. Mi dirigo come un automa negli spogliatoi, come se conoscessi la strada da chissà quanto. Mi cambio più veloce che posso e torno velocemente tra i pentoloni fumanti. L’inserviente il giorno prima mi ha confidato che la grassa Irina non tollera che si perda tempo, nemmeno un minuto. Perciò metto su un sorriso imbarazzato tra l’umile e l’ossequioso e mi presento al suo cospetto. La capo cucina ha lo stesso atteggiamento della guardia al portone e mi sbatte con aria di superiorità a tagliare patate. Meglio così. Per fortuna sono piuttosto abile per quel compito, a casa sono sempre io a farlo. E poi, quando mai si è visto una donna russa che non sa pelare le patate? Anche se sono mezze marce e quelle appena commestibili hanno già i germogli tossici non mi faccio scrupoli, sbuccio tutto quello che mi capita sotto le mani, sciacquo i tuberi in una tinozza di acqua sporca e le butto nel pentolone fumante. Pela, sciacqua, butta, pela, sciacqua, butta. Dopo qualche minuto ho le mani marroni di terra e la pelle marcita dall'acqua. I movimenti si fanno meccanici e la mente può concentrarsi sulla prova. Mi fermo solo un secondo per non richiamare lo sguardo di Irina, asciugo la mano sul grembiule lercio e palpo la tasca dei pantaloni di tessuto grezzo. Il sacchettino è lì, rassicurante, e mi tranquillizzo. Con un gesto automatico sistemo una ciocca di capelli sfuggita alla cuffia. Mi guardo attorno e riprendo a pelare. Nessuno degli addetti alle cucine alza mai lo sguardo e le guardie di turno sembrano più annoiate che mai. E il momento, sebbene non riesca a controllare il tremolio alle mani decido di agire comunque. Un’ultima occhiata e via. Prendo un tubero particolarmente grande, ci scavo un interstizio con la punta del pelapatate e quando lo ritengo della misura giusta sciacquo rapidamente con la mano sinistra mentre con l’altra mano prendo fulminea il sacchettino dalla tasca. Nel frattempo prego con tutto il cuore che non mi cada dalle mani e che nessuno mi stia osservando. Pochi secondi dopo con il pollice schiaccio il sacchetto nella patata e la getto nel pentolone. So di avere le guance arrossate, sento la pelle bollente, mi passo il braccio sul viso per togliermi il sudore, ho caldo, mi sento soffocare e il cuore non vuole rallentare la sua corsa. Provo a ricominciare il lavoro meccanico che mi è stato assegnato, ma il pelapatate mi sfugge di mano e cade sul pavimento, attirando l’attenzione della grassona. Lo raccolgo ma subito dopo mi accascio a terra fingendo un mancamento. Sento i passi di Irina avvicinarsi senza fretta e dopo pochi secondi gli scarponi militari di una guardia sono a pochi centimetri dal mio viso. Cerco di riprendermi. Un’altra donna si è accostata ma Irina la allontana apostrofandola in malo modo. La capo cucina mi solleva senza apparente sforzo e mi riaccompagna negli spogliatoi. Il fresco mi rianima, mi siedo sulla panca, sfinita.
«Sei troppo delicata per questo lavoro.» mi rimprovera.
«Ho bisogno di lavorare.» rispondo tremante. La supplico di farmi restare anche se in realtà non desidero altro che uscire da quella prigione.
«Torna domani.» replica seccata lei lanciandomi in grembo il mio pesante cappotto. Poi mi lascia sola. Mi cambio con calma, riprendo il controllo, respiro a fondo ritrovando la sicurezza perduta. Prendo le scale senza guardarmi indietro, non ci tornerò più in questo posto. Di questo sono sicura. Al massimo mi ritroverò di sopra dietro le sbarre della sezione femminile, per aver avvelenato una dozzina di carcerati. Mi scappa quasi un sorriso, è solo un attimo, prima di riprendere l’aspetto sofferente chi si addice al caso. Esco senza ulteriori intoppi. Mi fermo sul marciapiede e aspetto, chiudo per un momento gli occhi e sento solo il rumore della neve sotto gli scarponi e l'aria frizzante in faccia. Una Lada nera accosta. Salgo. Dimitri riparte e dopo qualche centinaio di metri mi pone la domanda fatidica: «tutto a posto?»
Faccio cenno di si con la testa.
Sorride. «Se è così facile superare i controlli di un carcere di massima sicurezza, il nostro rapporto farà cadere molte teste là dentro.»