Barbie Girl

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Le bambole sono per le femmine, glielo dicevano sempre. Glielo diceva soprattutto suo padre, quando tornato da scuola, dopo che a tavola, si svegliava: più alcol che sangue, e io ero lì con la bambola di Mary in grembo. Allora lui veniva barcollante, neanche mi guardava e biascicava che le bambole sono per le femmine e se ne tornava sul divano, a volte senza mangiare. Io poi non mangiavo mai dopo. Mi alzavo e lasciavo la bambola per terra sul plaid davanti la TV e me ne scendevo al cortile a vedere se Mimmo era sceso anche lui, così per fare quattro tiri col pallone. Di solito non c’era e me ne stavo con le scarpe slacciate nella polvere a tirare calci ai sassi, la faccia bruciata, la luce di mezzogiorno che mi urlava addosso.



La luce oggi è serena, mi ha sorpreso allo specchio e ha sussurrato qualcosa sulla mia schiena, la testa imperniata sull’asse verticale del mio corpo, tesa all’indietro a contarmi le vertebre. Da tempo ho deciso che i pigiami non fanno per me e così appena mi riprendo la mattina salto giù e mi fisso davanti lo specchio. Ci faccio anche tardi al lavoro o dove capita che devo andare, me ne sto lì e mi conto i nodi sotto la pelle, le pieghe tra le gambe, i peli sempre più radi. Passo una mano sulle asole del mio corpo. Cicatrici, sorrisi fragili. Sembrano inconsistenti, come se a ficcarci un dito dentro la patina opale potesse friare.



Sei grasso, glielo dicevano sempre. Una palla di lardo. Un po’ banale come insulto, ma i bambini rubano le parole dove capita. Da un film, da un amico, da un adulto. Comunque era l’insulto che lo feriva di meno. Era quasi candido, pulito. Quelli in dialetto facevano più male, sembravano più veri e più sporchi, come se a dirli ti si riempisse la bocca di merda, e quando hai finito l’ultima lettera ecco che la merda l’hai sputata in faccia. Guardava gli altri come da dietro un vetro. Forse, quasi come da dietro uno specchio. E gli altri lo guardavano e pensava che forse non vedevano proprio proprio, ma che vedessero loro stessi o qualcosa oltre loro stessi. Qualcosa che faceva schifo e che poteva prenderli addosso da un momento all’altro. Allora meglio sputargli contro. Non credo si rendessero conto, effettivamente. Un bel faccione rosso, sì, gli insulti, ma un bel faccione rosso ti porta più lontano di quanto uno pensi. Perché in fondo per gli altri sei un po come una bambola. Nessuno pensa mai che dietro a un bel faccione rosso ci possa essere malizia, che ci possa essere alcunché, ecco.



Mi passo una mano tra le gambe.



- Mangia.

Guardo la nuca di mia madre, i capelli striati, il seno che straborda sul piatto, la testa china. Non incontro i suoi occhi.

- Cos’ha che non va? Mangia.

Lo stomaco brontola ma non mi muovo, non voglio muovermi di un millimetro. Gli occhi di Pa’ mi sono addosso, non li incontro ma questi li sento. Faccio come mia madre e mi concentro sui rigatoni, un sugo rosso luccicante. Mi fisso su un rigatone in particolare che è mezzo rotto e mezzo moscio e galleggia appena sopra un grumo di parmigiano. Sugo rosso. Mangia. Mangia! Luccicante. Rosso sangue. La testa nel piatto. Una botta e una fitta e il naso che affonda nei rigatoni. Mezzo rotto. Non mangio.



Stendo il palmo sul ventre piatto e sento la carne respirare, salire e rigonfiarsi sotto le unghie.



- Tu come ti chiami?

- Elia.

- Allora sei ricchione!

Guarda perplesso. L’ha detta filato dritto, il tempo che la r gli si finisca di arrotolare in bocca e se n’è già pentito. Guarda i lacci delle scarpe.

- Beh… finisce con la “a”. Pa’ dice che se finisce con la “a” è da femmina, ecco.



Ci sono nomi che danno il prurito. Ti tirano via gli schiaffi dalle mani. Alcuni ti danno un senso di disagio, come la sensazione che qualcosa sia andata storta e che si faccia finta di niente per stare bene con la gente, ma che comunque è andata storta. Il mio era così.



- Non cominciare a dire che sono ricchione anch’io eh!

Andrea abitava dietro la parrocchia giù il campo dei noci, in una specie di budello di calce e polvere bianca che chiamavano casa e dove il padre ci tirava su dei cavalli bruni che nessuno capiva a che servissero, su quel terreno secco e duro che toccava riferrarli di continuo.

- Ok, ok. Mi ci fai giocare?

- No che s’incazza.

- Ma se hai detto che è andata a studiare da un’amica.

- Ma perché ci vuoi giocare?

- E se non hai un cazzo di niente in questo posto di merda! Con che gioco io?

Allora me la passa e io la studio. Senza metterci attenzione, fingendo il sonno e il caldo addosso, butto un’occhiata qua e là e me la rigiro tra le mani, come se non sapessi che farci. Andrea si scolla da terra e va a prendersi della Coca-Cola.

- La vuoi?

- Uhm? Ah, no no.

Le piego le gambe all’insù, tiro fuori l’etichetta dal body fucsia, la rigiro, le stacco il body. Non ha niente in mezzo alle gambe. Niente di niente. Né un buco né un qualcosa. Mi rimane comunque il dubbio, non so se sono fatte davvero così, sapevo che almeno il buco ce l’avevano.



Io credo che ad ognuno di noi sia capitato di veder nascere qualcuno. Magari qualcuno che non sarà per nulla rilevante nelle nostre vite. Giusto il tempo di un vagito. Qualcuno nasce che è un mostro e lo vedi subito: gambe ricurve, pelle reticolata, un labbro leporino. Per qualcun’altro, ci vuole un po’ più di tempo. A guardarlo solo con gli occhi ti frega.



- Insomma devi scegliere, o me o lei.

Rosalia è più piccola di una bambina normale, appena un po’, abbastanza affinché gli occhi le coprano mezza faccia, trasparenti come uno specchio. Ho perso un bel po’ di lardo quest’estate. Nel retro della merceria dei genitori di Luna stiamo giocando a nasconderci tra pacchi di detersivi e scopettini del cesso. Corri corri tanto ti prendo. Preso! Presa! Non mi tirare. Appena un po’ più forte, la pancia si scopre. Luna da dietro mi centra la testa con uno scopettino.

- Ti piace più di me.

Non rispondo e scatto verso di lei che si gira e tenta la fuga ma la mia mano è già sulla sua bocca. Un’altra la stringe sotto il non-seno. Prendo un manico di legno per scope in mezzo agli altri, cinquecento lire. Rosalia da dietro se la ride - Infilala! Infilala! - Facciamo un gioco diverso.



Ho riletto da poco Lolita. Un mucchio di stronzate. Non è mica così, le ninfette e tutto quanto. Forse quando cresci e hai i peli sulla pancia, forse ci ragioni e il ragionarci sopra ti frega che è una meraviglia. Ti inventi un motivo, ti racconti una favola e buonanotte.



Tira vento giù il campo, la polvere si alza e ti sbatte in faccia, sembra che ti pigli a schiaffi. Ci mettiamo dietro Il Noce, il nostro fortino. Quattro pezzi di legno inchiodati sullo stomaco di un albero a caso dietro da Andrea, una tenda impigliata tra i rami e ci basta.

- Tu non puoi mica salire - Salvo fa un cenno convinto con la testa e mi sorride di sfuggita. No, non puoi mica salire.

- Le femmine non sono ammesse. Non l’hai visto il film?

Rosalia guarda tutti tranne me - Chi se ne frega del tuo film del cazzo.

Dico Dai, secondo me può salire. Ti ricordi l’ultima settimana di Quarta? Ha rotto il culo a Tonino.

- Non se ne parla. È pure scalza.

Guardo Salvo un po’ infastidito ma non dico niente. Ci sono delle regole qui. Una parola sbagliata e sono fuori anch’io.

- Facciamole il test!

Non è convinto ma l’idea è piaciuta ad Andrea e Mimmo. Rosalia mi guarda, non la so decifrare. - Fatemelo - dice.

- Andrè, pigliate una corda e uno zaino. Mo vediamo.

Salvo rovescia il mio zaino ai piedi del Noce e impila quattro libri. - Forza te, sali su. - Rosalia non esita un attimo e cerca di tenersi in equilibrio. - Passami la corda. Qua sotto, qua. Tira su le braccia. - Lo zio di Salvo fa il marinaio e gli ha insegnato un po’ di nodi. Tesa la corda tra le mani e frusta il vento a formare un doppino. Fa un giro a forma di otto attorno ai polsi di Rosalia e lancia il cappio dall’altra parte del ramo sopra la sua testa. Sopra, sotto, indietro, dentro. È fissata.

- E adesso?

- Adesso vediamo quanto resiste. - Salvo mi guarda soddisfatto. Non so cosa si aspetta da me, forse pensava mi sarei arrabbiato. Nessuno di noi ha fatto nessun test e lo sappiamo. Guardo lui e guardo lei.

- Aspetta.

Un libro. Per inziare. Mi piego davanti Rosalia e sfilo via il primo libro. Non dice una parola, vedo che comincia a tendere i muscoli. Salvo e Mimmo se la ridono. Un altro libro. Le braccia tese, Rosalia alza la testa, è in punta di piedi. Un altro libro. Si fa rossa in faccia e comincia a dondolare.

- Bravo, bravo. Facciamo… sì, facciamo tutto il pomeriggio? A stasera allora.

Ce ne andiamo. Rosalia dondola ancora.



Sì. Ti ci frega per bene, la curiosità.


Questo Natale lo passiamo nella casa dei nonni di Pa’. Non mi piace e non piace neanche a lui. È grande che ci si sta tutti insieme, quattordici fratelli e i cugini chi se li conta, coi figli e il resto. Puzza di muffa da far schifo che quando sei sotto a nascondino ti tieni una mano sugli occhi e una sul naso sennò la muffa ti entra dentro prima di riuscire a dire unoduetrequattrocinquedieci. Della mia età solo due, il resto è sparso per casa a quattro zampe. Melania ha sui tredici anni ed è venuta in macchina con gli zii dal nord. Dorme sul divano nel salotto piccolo dei nonni, dicono che ha mal di testa e tengono la porta chiusa. Pino è sotto a contare. Faccio un paio di giri a vuoto tra una pianta di ficus in plastica e il dietro dell’attaccapanni, Seba è andato fuori sul terrazzo in mezzo ai grandi. La regola era che non si usciva dal corridoio e le stanze su quel lato. Zia Lisa passa con un vassoio di panetti per la pizza che stavano a lievitare sul divano in salotto. Mi infilo nel buio dall’uscio semi-aperto: le tende sono tirate, le tapparelle mi nascondono. Filtra giusto un po’ di luce puntinata dal terrazzo e si porta dietro qualche mugolio, risate e stridio di stoviglie. È stesa sotto una coperta leggera che le si è incollata addosso, i capelli scorrono sulle spalle fino al fianco, un ruscello di corvi. Mi abbasso a quattro zampe e cerco di non fare rumore, respirando il pulviscolo che mi prende in faccia e prende anche sui suoi piedi. Si vedono solo quelli, due piedi affusolati e morbidi, accavallati sul calcagno. Nudi. Passi in corridoio; sul terrazzo. Mi stendo sotto di lei, spalle al pavimento. Sembrano panetti di burro, il suo corpo come un crinale che svetta sulle cuciture in finta pelle del divano. Ne sento il peso nell’aria, leggero, sottile, le gambe formano una s aggrovigliata. Non sono neanche tanto puliti. Panetti di burro. Comincio a leccare.



Mi vesto e sono già in ritardo, ma ci vuole cura. Infilo le scarpe da sopra i piedi nudi. Non mi sono mai piaciuti i piedi, non so perché. Ancora oggi non riesco a portare i sandali. La mano scorre dai polpacci in su, le cosce brune, un reticolato di pizzo. La mia camicetta preferita, stringe un po’ sul seno. Una carezza, l’ultimo punto di luce sulle labbra. Capelli come un ruscello di corvi.

È tutto nuovo, sembra come quando scartavo i regali: l’attesa, l’eccitazione. Me li fisso negli occhi. Mi fisso negli occhi. Ci gioco, li rincorro, ne traccio mille volte i confini.
Ci gioco, che le bambole sono per le femmine.

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