Amore e Psiche

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Cominciamo da un fatto certo: Suzanne mi aveva lasciato. Mi aveva lasciato lei, con una decisione delle sue; netta e inoppugnabile. Era successo poco dopo che ci eravamo trasferiti nel pied-à-terre al 75esimo in Rue de Vaugirard, un cantuccio di neanche una cinquantina di metri quadri con tende di organza e un grand lit in noce laccato bianco al centro, che avrebbe dovuto fare da porto nella tempesta della nostra relazione. L’avevamo acquistato un giorno che le nuvole se n’erano andate chissà dove, pagandolo con dieci anni di notti una sopra l’altra; lei a barcamenarsi tra i piatti sporchi di un bistrot e io ad insanguinarmi gli occhi su “Le Figaro” o il “France Dimanche” nella guardiola di una fabbrica petrolchimica a Levallois-Perret. Durante il giorno io dormivo e lei frequentava un circolo letterario a Montmartre e faceva altre cose che non so. Non avevamo poi molto in comune, ma eravamo stati travolti da una di quelle passioni che ti strappano i piedi dalla terra solida e ti sballottolano in aria finché gli pare, come un tornado, e poi all’improvviso ti rimettono giù e ognuno per la sua strada. Suzanne non aveva fatto in tempo a rimettere i piedi a terra ché un altro tornado se l’era presa, all’angolo tra il Tardieu e piazza Louise-Michel. Una sera prima di uscire aveva messo le mie mani nelle sue: la pelle bianca come porcellana dei piatti che lavava, morbide come appena insaponate. Mi aveva guardato negli occhi e detto che se ne andava, che era innamorata di un altro, un poeta o chessò io, che io ero un automa, che nulla mi scalfiva, che ero privo d’immaginazione, di sentimenti, che sembravo già morto da un pezzo e lei invece era ancora viva e immaginava e sentiva e aveva bisogno delle favole. Aveva bisogno di poesia. Aveva chiuso la porta dietro di sé e in quel momento il tornado aveva smesso di girare anche per me, ma io non ne avevo un altro pronto a raccogliermi e la caduta era stata rovinosa. Non mi ero mosso di un millimetro ma ero carambolato per tutta la stanza. Non avevo detto una sola parola, respiravo a malapena, ma avevo gridato come un uomo intrappolato in una casa in fiamme. Il mio corpo era ancora integro, eppure mi sentivo sparso in mille frammenti sul grand lit.



Grazie a Dio c’era il negozio di liquori all’angolo. Neanche una settimana dopo Suzanne si era trasferita da un’amica che faceva la parrucchiera a Pigalle, ed io mi cullavo su un’onda d’alcol che mi stava portando alla deriva. Ormai bevevo fuori e dentro ai pasti, mischiando il whisky ai cereali la mattina e preferendo l’acquavite all’acqua minerale. Una volta barcollai fino a Pigalle passando davanti le panchine sul boulevard de Clichy, nei pressi del Moulin Rouge. Erano le sei del mattino e i clochard dormivano su lamiere di cartone fradicio. Cercai la casa di Claire, l’amica di Suzanne, ma solo una volta arrivato mi resi conto che io Claire non l’avevo neanche mai vista. Non avevo idea di dove abitasse e la testa mi suggerì quello che suggeriscono le teste quando hanno più cognac che sangue in circolo: raccolsi da terra un quotidiano slabbrato e mi stesi su una panchina. Mi addormentai di colpo. Non so per certo quanto tempo passò, ma poi una mano venne a scuotermi e, aperti gli occhi, vidi due cose: il sole ormai alto sopra il mulino, e la faccia di Kevin. Abitava nell’appartamento confinante a quello che avevamo acquistato io e Suzanne e faceva il diacono al Saint-Jaques du Haut Pas.

«Che ci fai ridotto così?»

«Non sono cavoli tuoi» risposi. Non volevo essere scortese, quelle poche volte che l’avevo incrociato mi era sembrato un tipo gentile e posato. Le meningi però urlavano.

«Dovresti reagire, mon ami». Gentile e posato, ma non tanto originale.

«Sì, grazie. Adesso lo faccio eh.»

«Perché non facciamo due passi? Dai, vieni». Mi aiutò ad alzarmi e il mondo tornò in orizzontale. «Ho saputo di Suzanne, mi dispiace» disse.

«Sì, beh. Doveva andare così.» Non avevo per niente voglia di parlargli di Suzanne.

«Io non giudico, ma credo ti farebbe bene staccare la spina e andare via, per un po’.»

«Giusto» dissi «potrei farmi un bel puttan-tour, per riprendermi.» Per la prima volta mi guardò impietosito, non rispose. Cominciai a pensare che forse Suzanne non aveva poi tutti i torti su di me.

«Secondo te dove dovrei andare?»

«La settimana prossima organizziamo un viaggio coi fedeli per andare a vedere la Santa Sindone, a Torino. Ti aiuterebbe a cambiare aria.»

«Italia, eh? La Francia cominciava giusto a puzzarmi.»



Costruita sulle spalle di tre basiliche, con un monolite in pietra di Bussoleno che cantava la voce del Signore sulla testa della città, la cattedrale di Torino mi colpì per un particolare che condividevamo in quel periodo: era incompleta. Come me, la cattedrale si era fermata sul più bello, lasciando ad altri il compito di portare a termine i lavori con la fantasia. Quando entrai, presi per la prima volta coscienza dell’immortale. Di ciò che si prova al cospetto di un qualcosa che sembra essere sempre esistita, e con i suoi odori polverosi ti dice che, lei, esisterà per sempre. Sul fondo della navata centrale, tra l’abside e il coro, un'imponente struttura in marmo nero sembrava significare che, pur nell’immortalità, cala il buio. Rallentai il passo per godere di quella camminata nell’infinito, già consapevole della fine che la cattedrale mi mostrava. Sentivo i sussurri riecheggiare bassi tra le gambe della gente intenta a pregare. Al lato del fonte battesimale, un sussurro più intenso degli altri mi attirò come le sirene di Ulisse. Continuai a camminare senza fermarmi, come se stessi seguendo lo stesso percorso, già previsto. Dall’immortalità al mistero di un confessionale. La tenda di raso rossa era annodata al lato della cuccetta riservata al prete, mostrandone l’assenza, mentre quella riservata ai peccatori era tesa a celarne l’identità. Mi avvicinai come ipnotizzato, cercando di ovattare i passi sui mosaici di marmo. Sentii dei singhiozzi spasmodici trattenuti a stento tra i denti, un respiro sibilato.

«Amore mio». Una voce di donna.

«Amore, perché? Eravamo uno, tu e io… me l’avevi giurato… come Cristo… amore mio… come il fuoco che non brucia... »

All’inizio credetti che stesse pregando, ma poi mi sembrò quasi ascoltare un ritmo, una melodia. Come una poesia. Sta recitando una poesia? Da sola nel confessionale? Non sapevo bene perché, forse per la situazione, forse per il modo in cui quei versi mi arrivavano. Andarono dritti oltre il mio dolore, sovrapponendosi, stringendolo in un abbraccio. Dolore nel dolore, che cancellava il mio e mi restituiva, per la prima volta, alla mia vita.



Tornato a Parigi, ricominciai a prendere sembianze umane. Con gli anni, tollerai anche la presenza di Suzanne e del suo nuovo compagno, Jacques, nelle serate con gli amici. Lui era un poeta. Un poeta vero, insomma. Pubblicato. Addirittura pare che ci mangiasse, con quello che scriveva, anche se sono convinto che entrambi si sfamassero più con l’assegno che passavo a lei ogni mese. Ma non m’importava più, avevo fatto pace con quel periodo della mia vita. Una sera ci ritrovammo come sempre negli ultimi mesi, il Giovedì, al circolo letterario a Montmartre. Jacques avrebbe letto la sua ultima raccolte di poesie, scritte nel periodo che chiamava “periodo oronero”. Mi sedetti vicino a Suzanne, appena prima che Jacques iniziasse a declamare:



Come Amore

Come Psiche

Come di due, uno

Come fuoco che non brucia

Come nebbia che non copre

Come acqua che non disseta

Amore mio

Come una promessa

Come una bugia

Come il fiume

Come le arance dalla Cina

Come Cristo

Come un marinaio

Amore mio

Come l’infinito

Come un addio.



Mi persi nelle parole. Dopo anni, finalmente riascoltavo la poesia di quella donna. O era di Jacques? No. Non era di Jacques. Forse non era neanche di quella donna. Forse entrambi l’avevano rubata a qualcun’altro, o a qualcos’altro. Qualcosa di più grande di noi.

Suzanne mi sfiorò il gomito.

«Tutto bene? Sembravi assente. Dov’eri?»

«In una chiesa, tanti anni fa.»

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