Il perditempo

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Se ne sta seduto su una delle due sedie di fronte la scrivania, gli occhiali da vista gettati là come se qualcuno gli avesse dato un cazzotto e li avesse fatti volare via, la testa bassa che ti mostra una precoce alopecia, i capelli sottili e unti, lo sguardo vacuo. Non ti ha ancora detto il suo nome, e anche avendolo cercato nel registro delle prenotazioni, sul foglio davanti ai tuoi occhi, quello che leggi sembra solo uno scherzo di cattivo gusto della segretaria, Milena, che ti hanno imposto gli esimi colleghi coi quali condividi in subaffitto questo, chiamiamolo, studio.

– Si prenda pure il suo tempo.

– Non sono sicuro di avere un tempo mio, per così dire.
Fai un bel respiro, la questione sarà lunga. Lo dici a te stessa ogni volta che un nuovo paziente viene sputato dentro lo studio e fuori dalla striminzita sala d’attesa, che in realtà è solo il disimpegno di questo posto, ma si è stabilito di chiamarla sala d'attesa per non caricare di troppi significati gli attendenti che vi abitano buona parte delle loro mattinate e che potrebbero sentire nella parola disimpegno il preludio ad un opposto impegno nel momento in cui varcassero il confine da quel luogo al tuo studio. Con alcuni di loro la questione è più semplice: entrano dall’ingresso, appendono cappello, cappotto, impermeabile se piove, pelliccia se sono donne e arrivano da un’altra epoca, sciarpa o guanti nelle tasche larghe se fuori è freddo o nevica; spendono il proprio tempo in religioso, o vergognoso, silenzio, sfogliando qualcuna delle riviste sul tavolino in vetro o contemplandosi la punta delle scarpe, ben attenti a non incrociare gli sguardi degli altri, che potrebbero inavvertitamente provocare una parola qua, una frase là, e così dar via a una discussione. Quando sentono chiamare il proprio nome, o cognome, o soprannome (dipende da quello che hanno riferito al telefono e quello che Milena s’è ricordata di segnare), si alzano e camminano in direzione della porta con indosso il loro paraocchi immaginario, strascicano i piedi, le mani insaccate nei pantaloni o ammanettate dietro la schiena, quasi andassero incontro al plotone d’esecuzione e il corpo stesse in qualche modo tentando di ritirarsi, rimpicciolirsi e scomparire. Poi varcano la soglia, volgi loro un bel sorriso — non troppo largo, che non scambino tutti quei denti lattiginosi come il morso di un predatore pronto ad affondarglisi nel collo — magari un gesto con la mano, o col capo, ad indicare “prego, si sieda pure. Aspettavo proprio lei”. Un bellissimo rituale che ti piace perché mette anche te a tuo agio e che i nuovi pazienti non ti lasciano fare, nella fretta della spavalderia incontrollata e incongrua con cui vogliono mostrarsi indifferenti a quanto sta accadendo, come non riguardasse loro ma qualcun altro. Si precipitano dentro, la porta quasi sbatte con violenza contro la fragile parete in cartongesso e l’unica cosa che evita il disastro, un bel buco da parte a parte tra il tuo studio e quello di Morandi, è il vaso dorato che ti hanno regalato alla laurea e l’aspidistra che hai interrato il primo giorno di lavoro indipendente e che nonostante i tuoi sforzi e la quantità smisurata di acqua con cui l’hai ingozzata, non ne vuole sapere di fiorire.
Guardi ancora una vola il foglio delle prenotazioni e tenti di decifrare la scrittura di Milena, piena di arzigogoli, tutta riccioli e cuoricini. Potresti anche chiedergli come si chiama, semplicemente, ma non ti ha ancora guardato negli occhi, non ha notato il sorriso né il tuo cenno a mettersi comodo, insomma non si è ancora stabilita alcuna connessione, neanche superficiale, tra di voi, e da qualche parte dentro di te senti che le connessioni sono fondamentali, che sono tutto ciò che rimane e quando una viene a mancare o evita di formarsi, ti senti come se fossi sul fondo di un pozzo buio mentre tenti la risalita in superficie, avessi messo un piede in fallo e fossi sdrucciolata ancora più in basso. Meglio evitare di dare un nome a questa connessione mancata, per il momento.
– Posso chiederle cosa intende?

Continua a non guardarti come non fossi lì.

– Certo che può.

È uno di quelli stronzi. Di quelli che vanno dal terapeuta con un bel carico di sicurezza, un breviario di citazioni erudite e tanta voglia di dimostrare al prossimo sconosciuto tutta la loro superiorità. Ah, non dategli dello “speciale”, per carità. No, loro sono normali. Soltanto, di una normalità superiore, qualsiasi cosa voglia dire.

– D’accordo. Cosa intende?

– Che non ho del tempo mio. È tutto in prestito.

– Il suo tempo è in prestito?

– Credo di sì.

– E chi glie l’ha prestato, se posso?

– No, non è quello che intendo.

– Mi aiuti a capire, se le va.

– È un po’ come comprare abiti usati, ha presente? Per quanto ti possano stare bene, lo senti che non sono tuoi. È come se ci fossero ancora tracce della persona che li ha indossati prima, come se stessi indossando non un abito, ma una persona. Ecco, io indosso il mio tempo come se fosse il tempo di un altro.

– È un concetto interessante. La cosa le crea problemi?

– Nessuno. Semmai ne crea agli altri. Voglio dire, mi hanno detto di venire qui per questo.

– Le hanno detto di venire perché lei crea problemi al tempo degli altri?

– In pratica.

– Ma cos’è che fa, di preciso?

– Non faccio nulla. È solo che quando passo troppo tempo con qualcuno, è come se questa persona cominciasse a sentire l’urgenza di muoversi, di fare qualcos’altro che non sia stare a parlare con me. Di solito iniziano ad alzarsi, fare qualche passo in cerchio, giochicchiare con qualsiasi cosa gli capiti a tiro, e io lì capisco che sta per succedere di nuovo.

– Cosa “sta per succedere di nuovo”?

– Gli sto rubando il tempo.

– Intende che queste persone sentono di star perdendo tempo con lei?

– No, non è che sentano che lo stanno perdendo. Quando perdi una cosa di solito è perché non sai più dove si trova. Nel mio caso per lo più sentono che il loro tempo si trova nel medesimo punto del mio.

Mandalo via. Dagli uno di quei test a risposta multipla, due crocette in fila, un disegno da completare e mandalo via. Diagnosi: è un perditempo. Non ci riesci eh? Lo so, non fa parte di te. Tu non ti comporti così con le persone, non fai di tutto per togliertele di torno. Continui a guardarlo mentre se ne sta in silenzio, gli occhi come due biglie di vetro, trasparenti che quasi puoi vedergli il nervo e contargli i vasi retinici. Forse sono gli occhi, è tutto lì il problema: quegli occhi vuoti che sembrano riempirsi di te, riempirsi del mondo intero, portarlo oltre la superficie acquosa della cornea, mescolarlo al proprio umor vitreo, e non restituirti nulla in cambio. Un po’ ti senti derubata anche tu, ammettilo. E nonostante tutto non riesci a mandarlo via, ti sembra di avere di fronte un anziano indifeso, piccolo e curvo su se stesso, preoccupato di non far torto a nessuno, che nessuno si senta derubato da lui, che nessuno si senta in credito. Talmente vecchio e indifeso da sembrare davvero in grado di poter rubare il tempo, e vivere per sempre. Ma lo vedi anche tu che non è così, è solo un ragazzo. Un ragazzo solo.
– Potremmo rivederci?

– Quando vuoi. Diamoci del tu, ti va?

– Certo, sì.

– Allora facciamo così, ti segno per domattina.

– Non hai paura che stia rubando del tempo anche a te?

Rispondi. Dì la verità.

– Sai, non ho mai creduto che il tempo fosse una cosa così importante.

Sorride.

– Neanch’io.

Raccoglie gli occhiali e si alza. Non tende una mano, non ti guarda: è presto per quel tipo di connessione. Non appena inforcati, lo sguardo posa sull’aspidistra.

– È davvero bella, sai?

– Forse un giorno, quando fiorirà. Per ora a me sembra solo un groviglio di verdure.

– Beh, come si dice. Dai tempo al tempo.

Anche l’ultimo paziente ha abbandonato lo studio. Milena è uscita in anticipo e sei rimasta sola, puoi chiudere, adesso. Passando affianco al vaso, prima di spegnere le luci, una piccola perla viola luccica sullo stelo.


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Re: Il perditempo

2
Ecco le frasi che ho preferito, del colloquio tra il medico e il paziente che non era padrone del suo tempo:
Ton ha scritto: sab gen 02, 2021 1:55 pm
– Si prenda pure il suo tempo.
– Non sono sicuro di avere un tempo mio, per così dire.

– Posso chiederle cosa intende?

– Che non ho del tempo mio. È tutto in prestito.

– È un po’ come comprare abiti usati, ha presente? Per quanto ti possano stare bene, lo senti che non sono tuoi. È come se ci fossero ancora tracce della persona che li ha indossati prima, come se stessi indossando non un abito, ma una persona. Ecco, io indosso il mio tempo come se fosse il tempo di un altro.

– È un concetto interessante. La cosa le crea problemi?

– Nessuno. Semmai ne crea agli altri. Voglio dire, mi hanno detto di venire qui per questo.

– Non faccio nulla. È solo che quando passo troppo tempo con qualcuno, è come se questa persona cominciasse a sentire l’urgenza di muoversi, di fare qualcos’altro che non sia stare a parlare con me. Di solito iniziano ad alzarsi, fare qualche passo in cerchio, giochicchiare con qualsiasi cosa gli capiti a tiro, e io lì capisco che sta per succedere di nuovo.

– Cosa “sta per succedere di nuovo”?

– Gli sto rubando il tempo.

Raccoglie gli occhiali e si alza. Non tende una mano, non ti guarda: è presto per quel tipo di connessione. Non appena inforcati, lo sguardo posa sull’aspidistra.

– È davvero bella, sai?

– Forse un giorno, quando fiorirà. Per ora a me sembra solo un groviglio di verdure.

– Beh, come si dice. Dai tempo al tempo.

Anche l’ultimo paziente ha abbandonato lo studio.
Passando affianco al vaso, prima di spegnere le luci, una piccola perla viola luccica sullo stelo.
È fiorita l'aspidistra, prima del tempo suo. Un bel segnale. Bravo, @Ton. :)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


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