L'eccidio di Piazza Tasso
Posted: Tue Mar 30, 2021 5:41 pm
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Ciao, solo una piccola avvertenza. Questo racconto è inteso più come una scena di qualcosa di più grande, che però ancora nemmeno esiste. Quindi se vi sembra che forse manchi un po' di una trama solida tenete conto di questo.
Qualcosa gratta l'asfalto. Mi volto. È un vecchio cerchione di bicicletta, tutto ammaccato. Un bambino lo spingeva facendolo rotolare, ma ora è caduto e il bimbo, immobile, mi guarda mentre il cerchio s’accascia a terra con un suono sferzante.
Devo essere strana, ai suoi occhi, seduta qui, sola e zitta, mentre la piazza attorno gorgheggia di chiacchiere, rincorse fra bambini, pettegolezzi.
Mi accorgo che non sta guardando me, ma qualcuno alle mie spalle. Mi volto, lo vedo. I capelli neri sembrano intrisi di colla, la camicia è più grande di almeno due taglie, è pallido, sfinito. Tiene le mani strette l'una nell'altra per nascondere il tremore, ma si vede benissimo lo stesso.
Mio Dio, ma come abbiamo fatto ad arrivare comunque fin qui. È stato un miracolo. Si siede all'altra estremità della panchina. Il vento caldo mi spinge il suo tanfo nelle narici. Sudore e polvere. Paura. Il mio non dev’essere diverso. Il bambino afferra il cerchio, lo rimette in equilibrio e lo spinge via. Lui tamburella le mani, se le passa sui baffi.
«C'è da organizzarsi ancora» dice.
Lo guardo senza sbattere le palpebre.
«Sai resuscitare i morti, Luciano?» gli chiedo. Per un attimo il cranio gli vibra come se cercasse di scappare dal corpo. Chissà che fatica sta facendo per continuare a esistere, per mettere un piede dopo l'altro senza sfasciarsi, sbranato dalla consapevolezza che siamo tutti morti.
«Siamo ancora abbastanza - si affretta a dire - e ci hanno chiesto»
«Ci hanno chiesto? Chi è che ci chiede ancora qualcosa?». Prima che possa rispondermi il grido di una madre esplode nella piazza.
«Tornate qui, babbo ha detto di stare in casa». Tre bambini, senza ascoltarla, schizzan fuori da una porta, e si uniscono agli altri che scorrazzano per i giardini. Il vento alza una folata di polvere. Flemmatica, una vecchia seduta sull'uscio di casa solleva una mano per pararsi gli occhi.
«Il CLN, e a loro lo han chiesto gli alleati» dice Luciano. Ha gli occhi bagnati, le guance che d'improvviso si sono accese. Credo abbia la febbre.
«Gli alleati stanno arrivando. Quello che potevamo l'abbiamo fatto. Ora basta, aspettiamo che vengano a liberarci». Luciano batte i denti.
«Dobbiamo occupare la tipografia del Valecchi, in Viale dei Mille». Come se non mi avesse sentito, e forse non mi ha sentito davvero. Rido.
«Una bella trappola per topi» dico. Solo ora sembra accorgersi che ci sono davvero, che non sono un fantasma anch'io. Solleva la testa e mi guarda, le labbra spalancate che inspirano a fatica.
«Quanti saremo rimasti in tutto, Luciano, venti?» gli chiedo.
«A - balbetta - a venti non ci arriviamo». China la testa. Toglie un fazzoletto sudicio di tasca e se lo passa sul collo mizzo di sudore.
Mi volto dall'altra parte, butto lo sguardo giù per Via della Chiesa. I bambini di poco fa m’attraversano la vista. Uno si ferma, s'inginocchia, si toglie le scarpe.
«Avremo sì e no dieci fucili e qualche pistola, e il laboratorio è andato, niente bombe o granate»
«Hanno detto che ci riforniscono» insiste. Afferro fra le dita l'orlo del vestito, lo stiro. Appena ho passato la mano le pieghe tornano, ormai sono impresse nel tessuto.
«È di là della ferrovia, comunque»
«E allora?»
«Cosa credi, che Firenze la conquistano in un giorno? Prima arrivan qui, e dovranno passare l'Arno. E se i tedeschi fan saltare i ponti li voglio vedere. Poi si attesteranno un po’ più indietro. La città andrà strappata casa per cosa, vicolo per vicolo. E intanto noi, di là dalle linee nemiche, chiusi nella tipografia, a farci ammazzare uno via l'altro».
I bambini han fatto il giro della piazza. Quello che s’è tolto le scarpe se l’è legate al collo, gli ballonzolano sul petto mentre insegue gli altri. Ride.
«No Luciano - dico -. A cosa serve che muoia anch'io». Lo guardo. Acqua gli cala giù per le guance. Non sono lacrime, piuttosto un velo. Sollevo una mano dal grembo, e, mentre l'altra ancora arriccia l'orlo del vestito, gliela poggio fra le scapole. I singulti la fanno sbattere contro il palmo come un pugno che di notte bussi disperato implorando accoglienza.
«Non possiamo non fare niente – singhiozza – rimanere fermi ad aspettare. Io non voglio». Si ferma. Non può dire che non vuole portare il dolore per tutta la vita, non vuole ammettere che preferisce morire anche lui, e che Bruno, il Babbo, Pilade e tutti gli altri son stati quasi più fortunati, perché non dovranno preoccuparsi di ricordare, di trascinarsi la pena mentre tutti, attorno, dimenticano.
I bambini si son messi a giocare nella rena d’un cantiere. Quello senza scarpe lo riconosco, è Ivo, il figlio dei Poli. La madre, sulla soglia, li guarda preoccupata, poi alza lo sguardo su viale Petrarca. La mano mi cade nel vuoto. Luciano s'è alzato.
«Davvero non vieni?» mi chiede. «Noi andremo lo stesso. O anche io da»
Un rumore lo interrompe, un grido.
«Ritorneremo!», bercia un tale vestito di nero, in piedi sul cassone d'un camion che s’è appena fermato nella piazza.
Dovrei alzarmi e scappare come stan già facendo tutti. E invece resto qui e penso che non ha senso, ancora non se ne sono neanche andati. Anche loro, però, si sentono già morti. Vedo il cranio lucido del loro capo luccicare al sole. Sembra che stia per scoppiare a ridere, ma rimane serio, digrigna i denti. Scappo. Alle mie spalle iniziano gli spari. Supero un signore, troppo grasso e lento. Lo crivellano alla schiena.
Luciano è già distante, sparisce dietro l'angolo di via del Leone. Io sento crepitare i colpi sempre più vicini, il fiato sempre più rovente. Laggiù, dove ora Luciano mi chiama affacciato all'angolo della strada, non c'arrivo.
Si spalanca una porta, mi ci butto dentro. Il muro si frantuma in un fischiare di schegge. Urto qualcuno, cado, batto la testa.
Una voce ansiosa dice «Uno, due, e tre», passi affrettati giù per il corridoio. Qualcuno piange «Mamma». Mi tocco la nuca. Fuori ancora colpi di fucile. Le dita si bagnano, sgusciano l'una sull'altra. Distendo le gambe, il sangue che sgorga allenta la tensione. Starei qui distesa finché non arrivano gli alleati. Chiudo gli occhi.
Mi scuote un lamento. Le palpebre faticano a sollevarsi, incollate dalle lacrime. Mi alzo. Di nuovo il lamento, in fondo al buio del corridoio. Quando arrivo nella cucina sento lo sgocciolio e penso che morirò, sto perdendo troppo sangue dalla testa. No, che stupida, non cola dal mio cranio, ma dal bordo del tavolo. Lo risalgo, e vedo un laccio polveroso, la punta di una scarpa ingrugnita, un nodo, un altro laccio, un'altra scarpa. È il piccolo Ivo, se le era tolte e le teneva al collo. Forse per questo ha corso più piano, forse per questo è rimasto ultimo, forse per questo si è preso una pallottola alla schiena e sta morendo sul tavolo, i fratelli che lo guardano attoniti, la madre che si accascia sul pavimento col gemito di un ferro piegato. Mentre gli sfioro il piede, e sento l'ultima pulsazione affannarglisi nelle vene, penso che domani andrò a cercare i GAP rimasti, e ci organizzeranno per l'azione alla tipografia.
Ciao, solo una piccola avvertenza. Questo racconto è inteso più come una scena di qualcosa di più grande, che però ancora nemmeno esiste. Quindi se vi sembra che forse manchi un po' di una trama solida tenete conto di questo.
Qualcosa gratta l'asfalto. Mi volto. È un vecchio cerchione di bicicletta, tutto ammaccato. Un bambino lo spingeva facendolo rotolare, ma ora è caduto e il bimbo, immobile, mi guarda mentre il cerchio s’accascia a terra con un suono sferzante.
Devo essere strana, ai suoi occhi, seduta qui, sola e zitta, mentre la piazza attorno gorgheggia di chiacchiere, rincorse fra bambini, pettegolezzi.
Mi accorgo che non sta guardando me, ma qualcuno alle mie spalle. Mi volto, lo vedo. I capelli neri sembrano intrisi di colla, la camicia è più grande di almeno due taglie, è pallido, sfinito. Tiene le mani strette l'una nell'altra per nascondere il tremore, ma si vede benissimo lo stesso.
Mio Dio, ma come abbiamo fatto ad arrivare comunque fin qui. È stato un miracolo. Si siede all'altra estremità della panchina. Il vento caldo mi spinge il suo tanfo nelle narici. Sudore e polvere. Paura. Il mio non dev’essere diverso. Il bambino afferra il cerchio, lo rimette in equilibrio e lo spinge via. Lui tamburella le mani, se le passa sui baffi.
«C'è da organizzarsi ancora» dice.
Lo guardo senza sbattere le palpebre.
«Sai resuscitare i morti, Luciano?» gli chiedo. Per un attimo il cranio gli vibra come se cercasse di scappare dal corpo. Chissà che fatica sta facendo per continuare a esistere, per mettere un piede dopo l'altro senza sfasciarsi, sbranato dalla consapevolezza che siamo tutti morti.
«Siamo ancora abbastanza - si affretta a dire - e ci hanno chiesto»
«Ci hanno chiesto? Chi è che ci chiede ancora qualcosa?». Prima che possa rispondermi il grido di una madre esplode nella piazza.
«Tornate qui, babbo ha detto di stare in casa». Tre bambini, senza ascoltarla, schizzan fuori da una porta, e si uniscono agli altri che scorrazzano per i giardini. Il vento alza una folata di polvere. Flemmatica, una vecchia seduta sull'uscio di casa solleva una mano per pararsi gli occhi.
«Il CLN, e a loro lo han chiesto gli alleati» dice Luciano. Ha gli occhi bagnati, le guance che d'improvviso si sono accese. Credo abbia la febbre.
«Gli alleati stanno arrivando. Quello che potevamo l'abbiamo fatto. Ora basta, aspettiamo che vengano a liberarci». Luciano batte i denti.
«Dobbiamo occupare la tipografia del Valecchi, in Viale dei Mille». Come se non mi avesse sentito, e forse non mi ha sentito davvero. Rido.
«Una bella trappola per topi» dico. Solo ora sembra accorgersi che ci sono davvero, che non sono un fantasma anch'io. Solleva la testa e mi guarda, le labbra spalancate che inspirano a fatica.
«Quanti saremo rimasti in tutto, Luciano, venti?» gli chiedo.
«A - balbetta - a venti non ci arriviamo». China la testa. Toglie un fazzoletto sudicio di tasca e se lo passa sul collo mizzo di sudore.
Mi volto dall'altra parte, butto lo sguardo giù per Via della Chiesa. I bambini di poco fa m’attraversano la vista. Uno si ferma, s'inginocchia, si toglie le scarpe.
«Avremo sì e no dieci fucili e qualche pistola, e il laboratorio è andato, niente bombe o granate»
«Hanno detto che ci riforniscono» insiste. Afferro fra le dita l'orlo del vestito, lo stiro. Appena ho passato la mano le pieghe tornano, ormai sono impresse nel tessuto.
«È di là della ferrovia, comunque»
«E allora?»
«Cosa credi, che Firenze la conquistano in un giorno? Prima arrivan qui, e dovranno passare l'Arno. E se i tedeschi fan saltare i ponti li voglio vedere. Poi si attesteranno un po’ più indietro. La città andrà strappata casa per cosa, vicolo per vicolo. E intanto noi, di là dalle linee nemiche, chiusi nella tipografia, a farci ammazzare uno via l'altro».
I bambini han fatto il giro della piazza. Quello che s’è tolto le scarpe se l’è legate al collo, gli ballonzolano sul petto mentre insegue gli altri. Ride.
«No Luciano - dico -. A cosa serve che muoia anch'io». Lo guardo. Acqua gli cala giù per le guance. Non sono lacrime, piuttosto un velo. Sollevo una mano dal grembo, e, mentre l'altra ancora arriccia l'orlo del vestito, gliela poggio fra le scapole. I singulti la fanno sbattere contro il palmo come un pugno che di notte bussi disperato implorando accoglienza.
«Non possiamo non fare niente – singhiozza – rimanere fermi ad aspettare. Io non voglio». Si ferma. Non può dire che non vuole portare il dolore per tutta la vita, non vuole ammettere che preferisce morire anche lui, e che Bruno, il Babbo, Pilade e tutti gli altri son stati quasi più fortunati, perché non dovranno preoccuparsi di ricordare, di trascinarsi la pena mentre tutti, attorno, dimenticano.
I bambini si son messi a giocare nella rena d’un cantiere. Quello senza scarpe lo riconosco, è Ivo, il figlio dei Poli. La madre, sulla soglia, li guarda preoccupata, poi alza lo sguardo su viale Petrarca. La mano mi cade nel vuoto. Luciano s'è alzato.
«Davvero non vieni?» mi chiede. «Noi andremo lo stesso. O anche io da»
Un rumore lo interrompe, un grido.
«Ritorneremo!», bercia un tale vestito di nero, in piedi sul cassone d'un camion che s’è appena fermato nella piazza.
Dovrei alzarmi e scappare come stan già facendo tutti. E invece resto qui e penso che non ha senso, ancora non se ne sono neanche andati. Anche loro, però, si sentono già morti. Vedo il cranio lucido del loro capo luccicare al sole. Sembra che stia per scoppiare a ridere, ma rimane serio, digrigna i denti. Scappo. Alle mie spalle iniziano gli spari. Supero un signore, troppo grasso e lento. Lo crivellano alla schiena.
Luciano è già distante, sparisce dietro l'angolo di via del Leone. Io sento crepitare i colpi sempre più vicini, il fiato sempre più rovente. Laggiù, dove ora Luciano mi chiama affacciato all'angolo della strada, non c'arrivo.
Si spalanca una porta, mi ci butto dentro. Il muro si frantuma in un fischiare di schegge. Urto qualcuno, cado, batto la testa.
Una voce ansiosa dice «Uno, due, e tre», passi affrettati giù per il corridoio. Qualcuno piange «Mamma». Mi tocco la nuca. Fuori ancora colpi di fucile. Le dita si bagnano, sgusciano l'una sull'altra. Distendo le gambe, il sangue che sgorga allenta la tensione. Starei qui distesa finché non arrivano gli alleati. Chiudo gli occhi.
Mi scuote un lamento. Le palpebre faticano a sollevarsi, incollate dalle lacrime. Mi alzo. Di nuovo il lamento, in fondo al buio del corridoio. Quando arrivo nella cucina sento lo sgocciolio e penso che morirò, sto perdendo troppo sangue dalla testa. No, che stupida, non cola dal mio cranio, ma dal bordo del tavolo. Lo risalgo, e vedo un laccio polveroso, la punta di una scarpa ingrugnita, un nodo, un altro laccio, un'altra scarpa. È il piccolo Ivo, se le era tolte e le teneva al collo. Forse per questo ha corso più piano, forse per questo è rimasto ultimo, forse per questo si è preso una pallottola alla schiena e sta morendo sul tavolo, i fratelli che lo guardano attoniti, la madre che si accascia sul pavimento col gemito di un ferro piegato. Mentre gli sfioro il piede, e sento l'ultima pulsazione affannarglisi nelle vene, penso che domani andrò a cercare i GAP rimasti, e ci organizzeranno per l'azione alla tipografia.