While a rainbow gently creeps

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Credo di poter dire in maniera instancabile quello che penso. Per lo meno, ne sono decentemente convinto. Trovo che scrivere a mano aiuti a concentrarmi, anche se poi il callo sul dito medio s’infiamma e i tendini si piegano alla dura scorza della mia penna Bic.

Niente di troppo poetico, per carità. Continuiamo su questa falsa riga, è meglio per tutti.

Credo ci sia qualcosa, nella scrittura dei grandi, di quelli che si leggono e si capisce subito, dalla prima frase, che c’è qualcosa di unico ad aspettarci. Non sono ancora sicuro di cosa sia, ma la ritrovo ad esempio quando leggo Marquez, o Borges con la sua abilità di sintesi perfetta. O Vonnegut, o Murakami, o Kafka, o anche il mediocre King.

Hanno tutti un’abilità che mi sfugge, una capacità di mettere in fila parole anche comuni, si direbbero banali, ma che messe in fila in una certa maniera ti restituiscono quella certa atmosfera, quel tono di voce unico che hanno solo loro. E ti sembra che sappiano scrivere per davvero, non che scrivano solo per far vedere di saper scrivere, come fai tu.

Cosa cambia? Quanto la mia percezione è influenzata dal fatto di conoscere chi è lo scrittore e qual’è il testo che sto leggendo? Se avessi iniziato a leggere Cent’anni di solitudine senza conoscere Marquez e senza conoscere l’importanza di quel testo nella letteratura moderna, l’avrei apprezzato allo stesso modo?

Credo di no.

Mi accorgo, o mi sembra di accorgermi, che la qualità di ciò che scrivo a mano sia nettamente superiore alla qualità di ciò che scrivo quando sono al computer. Quando scrivo a mano, i miei occhi sono presenti a me stesso. Vedo quello che scrivo, la vista è acuita come non mai. Quando scrivo al computer invece il mio sguardo vaga, non mette a fuoco le parole, e la testa si riempie d’aria. Sembro non essere presente: le dita vanno avanti seguendo un movimento meccanico, non cosciente. Non sono io a scrivere. Sì, io muovo le dita, forse anche mi rendo conto appena delle parole che stanno per venir fuori, ma non sono mie. Sono qualcosa di indotto, sembra che ci sia qualcuno dentro di me che scrive al posto mio.

Quando scrivo a penna sono solo io e il foglio, e sono io per davvero. Sono io con le mie banalità, le mie frasi fatte, le parole semplici, di quelle che uso tutti i giorni per parlare con mia moglie o mia madre. Perché con mia moglie o mia madre non potrei mai dire che una cosa è lapalissiana, o che adoro le mattine fredde in cui la rugiada riluccica sulla punta delle foglie rosse d’autunno. Perché chi è che parla così?

Nessuno. Ecco chi. Solo in un romanzo o in una storia si può parlare così, ed essere presi sul serio. Ma non bisogna esagerare.

E poi c’è qualcos’altro. Qualcosa all’interno della frase stessa. Forse un concetto di struttura che non ho ancora imparato a dovere. La frase inizia in un modo, con un tema, e poi c’è una contrapposizione, un gioco di parole, un ribaltamento. Qualcosa che ti fa pensare “Ah!” E ti rendi conto che tu quella cosa lì non l’avevi mai pensata prima o forse non in quel modo. È forse uno show off d’intelligenza o di arguzia, ma lo ritrovo spesso e mi crea un momento dentro. Crea qualcosa in me che mi dispone immediatamente alla lettura e mi da una buona impressione dello scrittore e del testo che ho davanti.



Forse è questa la chiave. Il flusso di coscienza rimescolato in maniera tale da non sembrare più un flusso di coscienza. Forse dovrei scrivere con lo sguardo vacuo senza fissare nessuna delle parole che escono fuori dalle mie dita, e poi valutare solo il risultato finale. Già, ma anche sulla valutazione ho dei bei problemi. Non ho la minima idea di cosa costituisca un testo valido, ne tantomeno se quelli che scrivo io lo siano ed eventualmente in che misura. Tiro avanti e mi trascino dietro la carretta dei miei pensieri, ma è come se le parole mi precedessero. Non vengono scaturite dai pensieri, non si formano tramite un processo logico, sono come respirate. L’aria entra ed esce da esse e io non posso farci assolutamente nulla. Posso solo lasciarle passare e aspettare che il tormento finisca, che si stendano per bene sul foglio una dietro l’altra e alla fine mi lascino con la testa in balia di questo freddo denso che mi ha attraversato, senza sapere esattamente cosa ho fatto, cosa ho scritto. Figuriamoci saperlo valutare, poi.

No, la valutazione da solo non è possibile. Almeno per me. Almeno in questo momento. Non ne sono in grado. Anche se un mio testo dovesse decantare per anni, e qualcuno ce l’ho lasciato per anni, quando lo riprendo sembra sempre un po’ mio. Sembra sempre che l’abbia scritto io, e questa cosa mi frega alla grande. Perché non riesco ad essere obiettivo, non ci riuscirò mai. Quello che scrivo mi sembra perfetto e allo stesso tempo mi sembra uno schifo totale. Non sono mai stato tipo da mezze misure, nei miei pensieri soprattutto più che nelle azioni, sono sempre stato tremendamente brutale. O bianco o nero.

Cosa strana, perché poi nella vita non c’è nulla che possa convincermi che al mondo non esista un’infinità di sfumature di grigio, e magari anche di altri colori. Colori continui, colori tenui, deformi o deformanti dello specchio d’acqua che ho davanti agli occhi.



Ecco, questo testo per esempio non ha alcun senso. Potrei chiamarlo “While a rainbow gently creeps” e partire dal mio stato di indecisione e sconforto perenne per arrivare poi ad un piccolissimo punto di colore che inizia a formarsi. Perché sono convinto che un po’ di colore ci sia, o che ce ne sia bisogno per lo meno, in ogni momento. E allora mi sforzo di mettercelo, quel po’ di colore. Scrivo e scrivo e scrivo e alla fine mi sembra che a volte, ma solo a volte, un po’ di colore sulla pagina arrivi. Come un arcobaleno che appare solo per una frazione infinitesimale di secondo, e poi sparisce. E io sono sempre là sulla strada bagnata e grigia.

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