[MI147] La viola di Emmett Meyer
Posted: Sun Mar 28, 2021 11:48 pm
Traccia di mezzanotte
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La viola di Emmett Meyer
Ho sempre avuto una memoria debole, nonostante i miei ventiquattro anni, per tutto il periodo che ho abitato a Londra in Holborn.
Eppure che io stesso non riesca a trovare la mia casa è strano e mi lascia perplesso, perché non è a più di mezz’ora a piedi dalla Inns of Court e in quanto giurista non avrei potuto dimenticarla.
Non ricordo come ci arrivai, avevo abitato in parecchie zone, e ritenni di essere capitato in Holborn affascinato dalla sua storia settecentesca; lì mi fermai proprio di fronte all’Inns of Court e mi accorsi che quella che doveva essere la mia casa era edificata proprio lì.
Vivevo in una mansarda, questo lo ricordavo, ed era l’unico appartamento affittato, fatta eccezione per il secondo piano, dove abitava il portiere dello stabile. Proprio in quel momento sentii una strana musica salire dal pian terreno, che doveva essere disabitato.
Perplesso chiesi spiegazioni al portiere che mi venne incontro in quel momento. Mi disse che si trattava di un vecchio suonatore di viola, di nome Emmett Meyer ormai in pensione, ma che amava suonare la notte.
Da allora sentii sempre le sonate di Meyer, e sebbene mi tenessero sveglio ne ero ossessionato.
Ne conclusi che era un genio: più lo ascoltavo più ne ero affascinato, finché, dopo due settimane, decisi di fare la sua conoscenza.
Andai a bussare al suo appartamento e gli dissi che mi sarebbe piaciuto ascoltarlo mentre suonava.
Era un individuo alto, magro, vestito elegante e con due occhi verdi che brillavano e alle mie parole reagì con irritazione.
Infine con riluttanza mi fece segno di seguirlo.
La sua camera era grande: l’arredamento si limitava a un letto, un tavolino, una piccola libreria, un leggio per musica e due vecchie sedie. Sul pavimento erano sparsi alla rinfusa spartiti.
Tolse la viola dalla custodia e si sedette. Non guardò il leggio, ma suonando a orecchio, mi incantò per un’ora con la musica.
Ricordavo quelle note misteriose e a volte le avevo canticchiate tra me senza farci caso; così, quando il musicista posò l’arco gli chiesi se fosse disposto a continuare a farmele ascoltare. La faccia, perse l’espressione di tranquillità che aveva avuto durante il concerto e tornò a esprimere la rabbia che avevo notato nei primi momenti. Pensai che sarei riuscito a convincerlo, vincendo le sue resistenze, e per risvegliare la sua vena artistica accennai a uno dei motivi che avevo sentito la notte prima; quando riconobbe l’aria che fischiavo il suo dito indice ossut0, balzò verso la mia bocca per bloccare l’indegna imitazione. Questo strano atteggiamento fu accompagnato da un’occhiata di terrore verso la finestra nascosta dalle tende, come se Meyer temesse l’ingresso di qualcuno. La direzione del suo sguardo mi suggerì di tirare le tende, ma il vecchio mi saltò addosso con rabbia. Mi indicò la porta con un cenno della testa e cercò di trascinarmi con tutt’e due le mani in quella direzione. Disgustato da quell’atteggiamento, gli promisi che me ne sarei andato immediatamente. La stretta di Meyer diminuì, e, vedendomi offeso, sembrò calmarsi. Mi strinse il braccio, stavolta cordiale, poi, con aria triste, si mise dall’altra parte del tavolo e cominciò a scrivere un lungo messaggio.
Il biglietto che alla fine mi consegnò era una richiesta accorata di scuse. Meyer diceva di essere afflitto da strane paure, che avevano a che fare con la sua musica e non solo. Gli aveva fatto piacere avermi come ascoltatore e sperava che sarei tornato. Fino al nostro incontro non aveva immaginato che io potessi apprezzare la sua musica. Nel silenzio tuonò un rumore che veniva dalla finestra: le imposte dovevano aver sbattuto per il vento, ma per qualche motivo sussultai. Quando ebbi finito di leggere strinsi la mano al musicista e me ne andai.
Dopo qualche giorno capii che Meyer non desiderava affatto la mia compagnia. Non mi invitava mai e quando andavo a trovarlo di mia iniziativa sembrava a disagio e suonava svogliato. Tutto questo avveniva di notte: durante il giorno dormiva. A volte sul pianerottolo, davanti alla porta chiusa e attraverso il buco della serratura, udivo cose che mi procuravano un terrore indefinibile. Tuttavia Emmett Meyer era un genio dal talento sopraffino. Col passare delle settimane la musica divenne sempre più fantastica, mentre il vecchio artista si rifiutava di farmi entrare in casa e se ci incontravamo mi evitava.
Una notte, mentre origliavo alla porta, la viola sprigionò una serie di suoni incontrollati. Ne seguì un urlo spaventoso, denso di paura e angoscia. Bussai ripetutamente alla porta ma senza risposta. Aspettai, tremando di paura, finché sentii che il musicista tentava di venirmi ad aprire. Bussai di nuovo. Meyer chiuse di scatto le imposte; poi venne all’uscio, che aprì per farmi entrare. Stavolta il piacere di vedermi era autentico, perché il viso brillò di sollievo e mi afferrò con forza. Emmett mi fece sedere mentre lui si accasciava su una sedia; la viola e l’arco erano abbandonati sul pavimento.
Per qualche tempo Meyer non fece niente, mi guardò in silenzio. Poi si avvicinò al tavolo e scrisse un biglietto che mi passò. Il testo era breve e mi pregava, di ascoltare la causa dei terrori da cui era perseguitato. Io aspettai. Dopo circa un’ora, lo vidi trasalire come per un terribile shock. Non c’era dubbio: fissava la finestra nascosta dalle tende. Mi sembrò di udire qualcosa: non era un suono minaccioso ma piuttosto una nota musicale, lontana, che probabilmente veniva da un’altra casa. Doveva esserci un altro suonatore, fuori. Su Meyer l’effetto fu terribile, perché, si alzò di scatto, afferrò la viola e suonò alla notte.
Fu la cosa più spaventosa che avessi mai sentito. Cercava di far rumore: di soffocare, qualcosa che stava fuori… che cosa non riuscivo a immaginare, ma doveva essere mostruoso. Il concerto diventò delirante, isterico, ma conservò fino in fondo le qualità geniali che il vecchio possedeva. Sempre più forte, sempre più febbrile suonava l’arco sulla viola. Il musicista si contorceva come un animale, senza perdere d’occhio la finestra. Poi credetti di sentire una nota più acuta e più decisa che non veniva dallo strumento: una nota calma, implacabile, piena di significato, quasi beffarda.
A questo punto le imposte cominciarono a sbattere al vento.
La viola di Meyer superò se stessa, emettendo suoni che non avrei mai creduto possibili. Diedi un’occhiata al vecchio. Gli occhi verdi erano vitrei; la folle esecuzione era diventata un'accozzaglia di suoni meccanici e irriconoscibili.
All’improvviso ricordai il mio desiderio di guardare dalla finestra. Era molto buio, solo tenebre. Mentre il terrore m’inchiodava, il vento spense le candele, lasciandomi nel buio impenetrabile.
Arretrai di qualche passo, senza poter accendere una luce, e andai a sbattere contro il tavolo. Mi diressi verso il punto in cui palpitava la musica. Dovevo tentare di salvare me ed Emmett Meyer. Ebbi la sensazione di essere sfiorato da una cosa fredda e urlai, ma il grido non riuscì a sovrastare il suono della viola. Poi l’arco impazzito mi colpì nel buio e capii di essere arrivato accanto al musicista. Toccai lo schienale della sedia di Meyer e gli diedi un colpo alla spalla.
Non reagì e la viola continuò a suonare. Gli gridai all’orecchio che dovevamo fuggire. Lui continuò a suonare con una frenesia inaudita, mentre misteriose correnti d’aria sembravano avvolgerci. Quando lo sfiorai con la mano rabbrividii; poi gli tastai la faccia fredda, rigida e senza respiro, i cui occhi sporgevano nel vuoto. Allora capii, e per miracolo, trovai la porta. Mi precipitai fuori, lontano dal cadavere con gli occhi spalancati e dalla macabra sonata della viola, la cui furia aumentava mentre fuggivo. Corsi, mi gettai a precipizio per la strada.
Nonostante le ricerche scrupolose, non sono mai riuscito a rintracciare la mia casa a Londra e mi sono trasferito quella sera stessa a Parigi.
Non mi dispiace troppo, mi pare quasi di sentire ancora la musica di Emmett Meyer mentre addento un croissant.
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La viola di Emmett Meyer
Ho sempre avuto una memoria debole, nonostante i miei ventiquattro anni, per tutto il periodo che ho abitato a Londra in Holborn.
Eppure che io stesso non riesca a trovare la mia casa è strano e mi lascia perplesso, perché non è a più di mezz’ora a piedi dalla Inns of Court e in quanto giurista non avrei potuto dimenticarla.
Non ricordo come ci arrivai, avevo abitato in parecchie zone, e ritenni di essere capitato in Holborn affascinato dalla sua storia settecentesca; lì mi fermai proprio di fronte all’Inns of Court e mi accorsi che quella che doveva essere la mia casa era edificata proprio lì.
Vivevo in una mansarda, questo lo ricordavo, ed era l’unico appartamento affittato, fatta eccezione per il secondo piano, dove abitava il portiere dello stabile. Proprio in quel momento sentii una strana musica salire dal pian terreno, che doveva essere disabitato.
Perplesso chiesi spiegazioni al portiere che mi venne incontro in quel momento. Mi disse che si trattava di un vecchio suonatore di viola, di nome Emmett Meyer ormai in pensione, ma che amava suonare la notte.
Da allora sentii sempre le sonate di Meyer, e sebbene mi tenessero sveglio ne ero ossessionato.
Ne conclusi che era un genio: più lo ascoltavo più ne ero affascinato, finché, dopo due settimane, decisi di fare la sua conoscenza.
Andai a bussare al suo appartamento e gli dissi che mi sarebbe piaciuto ascoltarlo mentre suonava.
Era un individuo alto, magro, vestito elegante e con due occhi verdi che brillavano e alle mie parole reagì con irritazione.
Infine con riluttanza mi fece segno di seguirlo.
La sua camera era grande: l’arredamento si limitava a un letto, un tavolino, una piccola libreria, un leggio per musica e due vecchie sedie. Sul pavimento erano sparsi alla rinfusa spartiti.
Tolse la viola dalla custodia e si sedette. Non guardò il leggio, ma suonando a orecchio, mi incantò per un’ora con la musica.
Ricordavo quelle note misteriose e a volte le avevo canticchiate tra me senza farci caso; così, quando il musicista posò l’arco gli chiesi se fosse disposto a continuare a farmele ascoltare. La faccia, perse l’espressione di tranquillità che aveva avuto durante il concerto e tornò a esprimere la rabbia che avevo notato nei primi momenti. Pensai che sarei riuscito a convincerlo, vincendo le sue resistenze, e per risvegliare la sua vena artistica accennai a uno dei motivi che avevo sentito la notte prima; quando riconobbe l’aria che fischiavo il suo dito indice ossut0, balzò verso la mia bocca per bloccare l’indegna imitazione. Questo strano atteggiamento fu accompagnato da un’occhiata di terrore verso la finestra nascosta dalle tende, come se Meyer temesse l’ingresso di qualcuno. La direzione del suo sguardo mi suggerì di tirare le tende, ma il vecchio mi saltò addosso con rabbia. Mi indicò la porta con un cenno della testa e cercò di trascinarmi con tutt’e due le mani in quella direzione. Disgustato da quell’atteggiamento, gli promisi che me ne sarei andato immediatamente. La stretta di Meyer diminuì, e, vedendomi offeso, sembrò calmarsi. Mi strinse il braccio, stavolta cordiale, poi, con aria triste, si mise dall’altra parte del tavolo e cominciò a scrivere un lungo messaggio.
Il biglietto che alla fine mi consegnò era una richiesta accorata di scuse. Meyer diceva di essere afflitto da strane paure, che avevano a che fare con la sua musica e non solo. Gli aveva fatto piacere avermi come ascoltatore e sperava che sarei tornato. Fino al nostro incontro non aveva immaginato che io potessi apprezzare la sua musica. Nel silenzio tuonò un rumore che veniva dalla finestra: le imposte dovevano aver sbattuto per il vento, ma per qualche motivo sussultai. Quando ebbi finito di leggere strinsi la mano al musicista e me ne andai.
Dopo qualche giorno capii che Meyer non desiderava affatto la mia compagnia. Non mi invitava mai e quando andavo a trovarlo di mia iniziativa sembrava a disagio e suonava svogliato. Tutto questo avveniva di notte: durante il giorno dormiva. A volte sul pianerottolo, davanti alla porta chiusa e attraverso il buco della serratura, udivo cose che mi procuravano un terrore indefinibile. Tuttavia Emmett Meyer era un genio dal talento sopraffino. Col passare delle settimane la musica divenne sempre più fantastica, mentre il vecchio artista si rifiutava di farmi entrare in casa e se ci incontravamo mi evitava.
Una notte, mentre origliavo alla porta, la viola sprigionò una serie di suoni incontrollati. Ne seguì un urlo spaventoso, denso di paura e angoscia. Bussai ripetutamente alla porta ma senza risposta. Aspettai, tremando di paura, finché sentii che il musicista tentava di venirmi ad aprire. Bussai di nuovo. Meyer chiuse di scatto le imposte; poi venne all’uscio, che aprì per farmi entrare. Stavolta il piacere di vedermi era autentico, perché il viso brillò di sollievo e mi afferrò con forza. Emmett mi fece sedere mentre lui si accasciava su una sedia; la viola e l’arco erano abbandonati sul pavimento.
Per qualche tempo Meyer non fece niente, mi guardò in silenzio. Poi si avvicinò al tavolo e scrisse un biglietto che mi passò. Il testo era breve e mi pregava, di ascoltare la causa dei terrori da cui era perseguitato. Io aspettai. Dopo circa un’ora, lo vidi trasalire come per un terribile shock. Non c’era dubbio: fissava la finestra nascosta dalle tende. Mi sembrò di udire qualcosa: non era un suono minaccioso ma piuttosto una nota musicale, lontana, che probabilmente veniva da un’altra casa. Doveva esserci un altro suonatore, fuori. Su Meyer l’effetto fu terribile, perché, si alzò di scatto, afferrò la viola e suonò alla notte.
Fu la cosa più spaventosa che avessi mai sentito. Cercava di far rumore: di soffocare, qualcosa che stava fuori… che cosa non riuscivo a immaginare, ma doveva essere mostruoso. Il concerto diventò delirante, isterico, ma conservò fino in fondo le qualità geniali che il vecchio possedeva. Sempre più forte, sempre più febbrile suonava l’arco sulla viola. Il musicista si contorceva come un animale, senza perdere d’occhio la finestra. Poi credetti di sentire una nota più acuta e più decisa che non veniva dallo strumento: una nota calma, implacabile, piena di significato, quasi beffarda.
A questo punto le imposte cominciarono a sbattere al vento.
La viola di Meyer superò se stessa, emettendo suoni che non avrei mai creduto possibili. Diedi un’occhiata al vecchio. Gli occhi verdi erano vitrei; la folle esecuzione era diventata un'accozzaglia di suoni meccanici e irriconoscibili.
All’improvviso ricordai il mio desiderio di guardare dalla finestra. Era molto buio, solo tenebre. Mentre il terrore m’inchiodava, il vento spense le candele, lasciandomi nel buio impenetrabile.
Arretrai di qualche passo, senza poter accendere una luce, e andai a sbattere contro il tavolo. Mi diressi verso il punto in cui palpitava la musica. Dovevo tentare di salvare me ed Emmett Meyer. Ebbi la sensazione di essere sfiorato da una cosa fredda e urlai, ma il grido non riuscì a sovrastare il suono della viola. Poi l’arco impazzito mi colpì nel buio e capii di essere arrivato accanto al musicista. Toccai lo schienale della sedia di Meyer e gli diedi un colpo alla spalla.
Non reagì e la viola continuò a suonare. Gli gridai all’orecchio che dovevamo fuggire. Lui continuò a suonare con una frenesia inaudita, mentre misteriose correnti d’aria sembravano avvolgerci. Quando lo sfiorai con la mano rabbrividii; poi gli tastai la faccia fredda, rigida e senza respiro, i cui occhi sporgevano nel vuoto. Allora capii, e per miracolo, trovai la porta. Mi precipitai fuori, lontano dal cadavere con gli occhi spalancati e dalla macabra sonata della viola, la cui furia aumentava mentre fuggivo. Corsi, mi gettai a precipizio per la strada.
Nonostante le ricerche scrupolose, non sono mai riuscito a rintracciare la mia casa a Londra e mi sono trasferito quella sera stessa a Parigi.
Non mi dispiace troppo, mi pare quasi di sentire ancora la musica di Emmett Meyer mentre addento un croissant.