[MI147] Niente più scatole
Posted: Sun Mar 28, 2021 9:48 pm
traccia di mezzogiorno: storie di traslochi
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È ora di partire. Mi fa un effetto strano, ma non so dire se mi dispiaccia davvero.
Amo i cambiamenti, i salti nel vuoto, i viaggi nell’ignoto. Non sono mai stata un’amante della consuetudine, mai avuto paura di lasciare la via vecchia per la nuova. Nemmeno le case. Forse perché di traslochi ne ho fatti tanti, in vita mia. Tanti da non poterli nemmeno contare. Di sicuro non so contare quelli da bambina, al seguito d’un padre militare. Trasferimenti su e giù per il bel paese, con la famiglia appresso. A mia madre non sembrava importasse: era una persona schiva, senza bisogno di legarsi, di parlare, di sentirsi “di casa” nel posto in cui viveva, le bastavamo noi. O forse erano tutti quei traslochi a fare sì che non si legasse, per non soffrire: chi può dirlo? Da bambini i genitori rappresentano un’ancora solida, una protezione, una risorsa, non individui cui chiedere “cosa vuoi? Cosa ti piace? Sei felice?” e quando cresci, bè, in genere non glielo chiedi lo stesso.
L’unica preoccupazione di mamma, ogni volta che arrivava il messaggio ufficiale di una nuova destinazione, eravamo noi figli: che potessimo finire l’anno scolastico, che il posto nuovo fosse vicino a scuole buone, a un medico, a parchi in cui giocare; che non subissimo traumi eccessivi. Ed era la stessa priorità con cui gestiva l’inscatolamento delle cose: che non ci ritrovassimo troppo sperduti e privi di riferimenti. Per questo le nostre cose, giocattoli e “coperte di Linus” in particolare, dovevano essere sempre a portata di mano, prima, durante e dopo il viaggio; negli scatoloni di “sopravvivenza quotidiana”, per così dire.
Sì, perché c’è un ordine per inscatolare la propria vita, quando la si deve trasferire altrove. Inizi buttando via: inscatolare, spostare, ricollocare è un lavoraccio, inutile sobbarcarsi il peso di cose che nessuno sa perché le conservi ancora. Poi cominci a riporre, ben ordinati dentro capienti scatoloni, gli oggetti di cui non avrai bisogno immediato: i fornellini per la bagna cauda, la tovaglia di Fiandra della nonna che usi solo a Natale, i pantaloni da sci… tutte le cose, insomma, che impacchetti per prime e che tirerai fuori per ultime, a volte anche settimane o mesi dopo, quando non avrai più voglia di sgobbare e nemmeno un buco nei nuovi mobili dove sistemarli. E ti renderai conto che, forse, non hai osato abbastanza al momento di scegliere cosa buttare.
Perché trasferirsi è l’occasione di fare una bella cernita degli oggetti accumulati: portatovaglioli a forma di gondola “oh, che carini, li voglio!” e poi rimasti seppelliti nello sgabuzzino perché non sapevi dove metterli, abiti per la grande occasione che poi non è mai capitata… un bel modo di fare i conti con sé stessi: le proprie debolezze, indecisioni, cattive decisioni. Una scusa, anche, per sentirsi buoni e generosi, con tutte le cose in ottimo stato, addirittura nuove, di cui non sai cosa fare e che regali a destra e sinistra perché “tutto lavoro in meno, mi togli peso”.
Posso dire di essere un’esperta del settore: dopo un po’, la mia organizzazione divenne quasi professionistica, rapida, efficace, razionale, ogni spazio e gesto ottimizzato. Perché anche una volta cresciuta, non ho smesso di muovermi. Non parlo dell’università: non sono veri traslochi, quelli, più un campeggio, porti con te lo stretto necessario, la stanza di quegli anni è un guscio, una crisalide in cui ti rinchiudi, mentre ti trasformi in adulto, in attesa di partire per il viaggio vero. O il primo dei tanti.
Il primo io lo feci a ventun anni, per seguire il grande amore e il suo contratto in Venezuela. Un trasloco transoceanico, quello sì fu un cambiamento: ottomila chilometri da percorrere in aereo, il magone in gola e l'eccitazione nel petto; lo stretto indispensabile nei bagagli, mentre il grosso della tua vita ti segue, o meglio ti precede, se sei fortunato, inscatolato su una nave. Arrivare in un nuovo continente, nuova lingua, abitudini. Non avevo nemmeno finito l’università, lo avrei fatto, poi, era il progetto. Mai mantenuto.
Nemmeno il grande amore mantenne le promesse. Non parlo tanto dell’uomo, quanto dei nostri sentimenti. Ci vollero alcuni anni perché mi rassegnassi: avevo le mie abitudini, amici, un lavoro, un appartamento simpatico. Ma non basta, se la persona con cui vivi non la senti “casa”. Ricominciai a fare scatoloni, ancora una volta: non molti, in verità, era un nuovo inizio, il primo solo mio, viaggiai leggera. Una nuova città, una vita da ricostruire, nuovi, volti, nuove aspettative. Ce ne furono tanti altri ancora, poi.
Perché il più difficile, in fondo, non è tanto svuotare mobili e imballare oggetti fragili, ma ritrovarsi in un luogo sconosciuto, un alloggio che non senti tuo, luoghi e persone mai visti, imparare a orientarsi senza perdere un’ora ogni volta. Le settimane, a volte mesi, per tenere a mente dove stanno i bicchieri da vino, il nome della strada in cui si trova l’ufficio postale, o un fornaio che faccia le michette soffici ma croccanti come piacciono a te. Poi il tempo passa, il vicino la cui faccia all’inizio non t’ispirava nulla – se non un: “questo sicuro romperà le scatole per la musica troppo alta” – è diventato un amico il giorno in cui hai scordato le chiavi e ti ha prestato la scala per arrampicarti dal balcone. E ora ti annaffia i fiori quando parti in vacanza e gli porti a passeggio il cane quando fa tardi in ufficio.
Alla sera rientri dal lavoro, chiudi la porta con il sedere e lanci le scarpe sempre nello stesso angolo, poi sospiri rilassato e appoggi le chiavi senza nemmeno guardare; se ti alzi di notte, ti orienti tra i mobili e trovi le cose senza bisogno di accendere la luce. Sei a casa. Come sia successo, quando, non lo sai, ma è così. E dici “ora basta scatoloni, da qui non mi muovo più”.
Sì, c’è stato un momento della mia vita in cui ho detto “non mi muovo più”, stavo bene dov’ero, ero “a casa”, per davvero. Un’epoca in cui avevo piantato le radici e volevo solo lasciarle sviluppare, sentirne la forza, vederne crescere i frutti. Un'epoca in cui i traslochi sono quelli degli altri, i tuoi figli in primis, li guardi partire, li aiuti se ne hanno il bisogno, dicendo loro “sai dove trovarmi, dovesse servire, sto qui, non mi muovo”. E ci resti, davvero. E ci sono rimasta, ci resterei ancora un po’, se potessi.
Ma nulla è per sempre, ancor meno la vita, e ora è arrivato di nuovo il momento di partire, di salutare gli amici, i muri, i luoghi.
Non ho scelto io la data, né la partenza; capita e mi ci adatto. Un viaggio nuovo, di cui non so nulla. Un viaggio diverso. Non devo fare scatoloni, questa volta, non porto nulla con me, non solo perché non posso, ma non ne sento la voglia, preferisco partire leggera, abbandonare tutti i bagagli e le zavorre: in primis i rancori, ma anche i rimpianti e i desideri mai realizzati. Li lascio qui, non si sa mai servano a qualcun altro. Si potranno riciclare i sogni già usati ancora in buono stato?
Nessuna scatola per me, stavolta, e ho già preparato tutto il necessario per chi resta: tutto in ordine, perché mi ricordino con un sorriso e non con gli improperi del dover sistemare il disordine mio. Non porto via nulla, nemmeno il vecchio Bubu-orsetto che ha attraversato gli anni e i continenti insieme a me, né la sciarpa di mamma, lascio tutto qui.
Nessuna scatola, anzi, ho chiesto che non ce ne siano nemmeno per me, non voglio essere rinchiusa in quattro assi sigillate, infagottata e sotterrata.
Da quest’ultima partenza voglio arrivare in cenere, e la cenere la si regali al vento, che grazie a lui possa ancora viaggiare.
Amo i cambiamenti, i salti nel vuoto, i viaggi nell’ignoto. Non sono mai stata un’amante della consuetudine, mai avuto paura di lasciare la via vecchia per la nuova. Nemmeno le case. Forse perché di traslochi ne ho fatti tanti, in vita mia. Tanti da non poterli nemmeno contare. Di sicuro non so contare quelli da bambina, al seguito d’un padre militare. Trasferimenti su e giù per il bel paese, con la famiglia appresso. A mia madre non sembrava importasse: era una persona schiva, senza bisogno di legarsi, di parlare, di sentirsi “di casa” nel posto in cui viveva, le bastavamo noi. O forse erano tutti quei traslochi a fare sì che non si legasse, per non soffrire: chi può dirlo? Da bambini i genitori rappresentano un’ancora solida, una protezione, una risorsa, non individui cui chiedere “cosa vuoi? Cosa ti piace? Sei felice?” e quando cresci, bè, in genere non glielo chiedi lo stesso.
L’unica preoccupazione di mamma, ogni volta che arrivava il messaggio ufficiale di una nuova destinazione, eravamo noi figli: che potessimo finire l’anno scolastico, che il posto nuovo fosse vicino a scuole buone, a un medico, a parchi in cui giocare; che non subissimo traumi eccessivi. Ed era la stessa priorità con cui gestiva l’inscatolamento delle cose: che non ci ritrovassimo troppo sperduti e privi di riferimenti. Per questo le nostre cose, giocattoli e “coperte di Linus” in particolare, dovevano essere sempre a portata di mano, prima, durante e dopo il viaggio; negli scatoloni di “sopravvivenza quotidiana”, per così dire.
Sì, perché c’è un ordine per inscatolare la propria vita, quando la si deve trasferire altrove. Inizi buttando via: inscatolare, spostare, ricollocare è un lavoraccio, inutile sobbarcarsi il peso di cose che nessuno sa perché le conservi ancora. Poi cominci a riporre, ben ordinati dentro capienti scatoloni, gli oggetti di cui non avrai bisogno immediato: i fornellini per la bagna cauda, la tovaglia di Fiandra della nonna che usi solo a Natale, i pantaloni da sci… tutte le cose, insomma, che impacchetti per prime e che tirerai fuori per ultime, a volte anche settimane o mesi dopo, quando non avrai più voglia di sgobbare e nemmeno un buco nei nuovi mobili dove sistemarli. E ti renderai conto che, forse, non hai osato abbastanza al momento di scegliere cosa buttare.
Perché trasferirsi è l’occasione di fare una bella cernita degli oggetti accumulati: portatovaglioli a forma di gondola “oh, che carini, li voglio!” e poi rimasti seppelliti nello sgabuzzino perché non sapevi dove metterli, abiti per la grande occasione che poi non è mai capitata… un bel modo di fare i conti con sé stessi: le proprie debolezze, indecisioni, cattive decisioni. Una scusa, anche, per sentirsi buoni e generosi, con tutte le cose in ottimo stato, addirittura nuove, di cui non sai cosa fare e che regali a destra e sinistra perché “tutto lavoro in meno, mi togli peso”.
Posso dire di essere un’esperta del settore: dopo un po’, la mia organizzazione divenne quasi professionistica, rapida, efficace, razionale, ogni spazio e gesto ottimizzato. Perché anche una volta cresciuta, non ho smesso di muovermi. Non parlo dell’università: non sono veri traslochi, quelli, più un campeggio, porti con te lo stretto necessario, la stanza di quegli anni è un guscio, una crisalide in cui ti rinchiudi, mentre ti trasformi in adulto, in attesa di partire per il viaggio vero. O il primo dei tanti.
Il primo io lo feci a ventun anni, per seguire il grande amore e il suo contratto in Venezuela. Un trasloco transoceanico, quello sì fu un cambiamento: ottomila chilometri da percorrere in aereo, il magone in gola e l'eccitazione nel petto; lo stretto indispensabile nei bagagli, mentre il grosso della tua vita ti segue, o meglio ti precede, se sei fortunato, inscatolato su una nave. Arrivare in un nuovo continente, nuova lingua, abitudini. Non avevo nemmeno finito l’università, lo avrei fatto, poi, era il progetto. Mai mantenuto.
Nemmeno il grande amore mantenne le promesse. Non parlo tanto dell’uomo, quanto dei nostri sentimenti. Ci vollero alcuni anni perché mi rassegnassi: avevo le mie abitudini, amici, un lavoro, un appartamento simpatico. Ma non basta, se la persona con cui vivi non la senti “casa”. Ricominciai a fare scatoloni, ancora una volta: non molti, in verità, era un nuovo inizio, il primo solo mio, viaggiai leggera. Una nuova città, una vita da ricostruire, nuovi, volti, nuove aspettative. Ce ne furono tanti altri ancora, poi.
Perché il più difficile, in fondo, non è tanto svuotare mobili e imballare oggetti fragili, ma ritrovarsi in un luogo sconosciuto, un alloggio che non senti tuo, luoghi e persone mai visti, imparare a orientarsi senza perdere un’ora ogni volta. Le settimane, a volte mesi, per tenere a mente dove stanno i bicchieri da vino, il nome della strada in cui si trova l’ufficio postale, o un fornaio che faccia le michette soffici ma croccanti come piacciono a te. Poi il tempo passa, il vicino la cui faccia all’inizio non t’ispirava nulla – se non un: “questo sicuro romperà le scatole per la musica troppo alta” – è diventato un amico il giorno in cui hai scordato le chiavi e ti ha prestato la scala per arrampicarti dal balcone. E ora ti annaffia i fiori quando parti in vacanza e gli porti a passeggio il cane quando fa tardi in ufficio.
Alla sera rientri dal lavoro, chiudi la porta con il sedere e lanci le scarpe sempre nello stesso angolo, poi sospiri rilassato e appoggi le chiavi senza nemmeno guardare; se ti alzi di notte, ti orienti tra i mobili e trovi le cose senza bisogno di accendere la luce. Sei a casa. Come sia successo, quando, non lo sai, ma è così. E dici “ora basta scatoloni, da qui non mi muovo più”.
Sì, c’è stato un momento della mia vita in cui ho detto “non mi muovo più”, stavo bene dov’ero, ero “a casa”, per davvero. Un’epoca in cui avevo piantato le radici e volevo solo lasciarle sviluppare, sentirne la forza, vederne crescere i frutti. Un'epoca in cui i traslochi sono quelli degli altri, i tuoi figli in primis, li guardi partire, li aiuti se ne hanno il bisogno, dicendo loro “sai dove trovarmi, dovesse servire, sto qui, non mi muovo”. E ci resti, davvero. E ci sono rimasta, ci resterei ancora un po’, se potessi.
Ma nulla è per sempre, ancor meno la vita, e ora è arrivato di nuovo il momento di partire, di salutare gli amici, i muri, i luoghi.
Non ho scelto io la data, né la partenza; capita e mi ci adatto. Un viaggio nuovo, di cui non so nulla. Un viaggio diverso. Non devo fare scatoloni, questa volta, non porto nulla con me, non solo perché non posso, ma non ne sento la voglia, preferisco partire leggera, abbandonare tutti i bagagli e le zavorre: in primis i rancori, ma anche i rimpianti e i desideri mai realizzati. Li lascio qui, non si sa mai servano a qualcun altro. Si potranno riciclare i sogni già usati ancora in buono stato?
Nessuna scatola per me, stavolta, e ho già preparato tutto il necessario per chi resta: tutto in ordine, perché mi ricordino con un sorriso e non con gli improperi del dover sistemare il disordine mio. Non porto via nulla, nemmeno il vecchio Bubu-orsetto che ha attraversato gli anni e i continenti insieme a me, né la sciarpa di mamma, lascio tutto qui.
Nessuna scatola, anzi, ho chiesto che non ce ne siano nemmeno per me, non voglio essere rinchiusa in quattro assi sigillate, infagottata e sotterrata.
Da quest’ultima partenza voglio arrivare in cenere, e la cenere la si regali al vento, che grazie a lui possa ancora viaggiare.