[MI147] Tra mari e monti.
Posted: Sun Mar 28, 2021 5:13 pm
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Traccia: il trasloco.
Si dice che l'albero è alto quanto sono profonde le sue radici. L'ultimo trasloco fatto è stato come se mi avessero sradicato dal terreno in cui ero nato. Una esperienza dolorosa che ben ricordo, tanto erano profonde quelle radici che mi vennero strappate.
Io e Maddalena avevamo preso una decisione molto sofferta: abbandonare la nostra isola stupenda, - che però non dava nessuna certezza sul futuro - per trasferirci in Piemonte. L'industria che tanto avevano voluto i politici era fallita da subito; mentre la risorsa dell'agricoltura era stata abbandonata da chi aveva creduto nel benessere tanto prospettato. La crisi senza uscita attanagliava la nostra terra, compresa la nostra attività artigiana di arredamento. Io e Maddalena non ce la facevamo a sostenere le spese e guardavamo con preoccupazione il nostro futuro e quello dei nostri due figli: Denis di nove anni e Gloria di sei.
Il giorno dell'addio non esiste; esistono i giorni dell'addio. Tanti ne vollero per chiudere bottega e involgere le poche cose che potevamo portarci appresso nella nuova dimora. Maddalena uscì per l'ultima volta di casa con in mano il suo porta rotolo di carta da cucina, intarsiato da nostro cognato, che glielo aveva regalato per il suo compleanno. Gli dissi che in macchina non ci stava più niente; neanche una banconota da cinquemila lire, avevamo riempito oltre ogni limite lo spazio a disposizione.
Lei sbottò dicendo che lo avrebbe tenuto in mano per tutto il viaggio. Io capii cosa rappresentasse quell'oggetto per lei: il ricordo della casa che stava abbandonando e che mai avrebbe dimenticato.
Fu la vibrazione sotto i nostri piedi posati sulla moquette rossa a pois del traghetto della Tirrenia, che ci fece catapultare sul ponte; la nave si stava staccando dalla banchina: e noi dalla nostra terra. Ricordo che Maddalena prese in braccio la piccola Gloria e mascherando la sua tristezza, prese a muovere la sua mano attaccata a quella della figlia in cenno di saluto ai pochi parenti che erano venuti a salutarci.
Poi la nave si allontanò dal porto e io ebbi la sensazione di avere l'animo umido e scuro come quelle profonde e agitate acque. Pensai a cosa ci aspettasse e se mai saremmo riusciti a sopportare il cambiamento radicale senza soffrirne.
Durante l'attraversata festeggiammo il compleanno di Denis; compiva il giorno dieci anni.
Niente torta, né candeline; niente regali da scartare. Lo consolammo dicendogli che appena ci saremmo stabiliti per bene, gli avremmo fatto una bella festa.
Ci ritrovammo alle prime luci del mattino nel golfo di Genova: le acque nere e limacciose del porto incutevano paura; come pure la sovrabbondanza di cemento dei cavalcavia a ridosso della grigia città. Da sempre a Maddalena non piaceva Genova, diceva che le dava troppa tristezza ogni volta che ci andava.
Dopo lo sbarco prendemmo l'autostrada e ci fermammo alla stazione del Tronchino; lì, sospesa tra cielo e mare, appena dieci chilometri da Genova, tutta in salita per la panoramica. Colazione alla grande con i panzerotti alla crema dell'Autogrill; fu un momento spensierato.
Finito la colazione andammo verso la nuova destinazione. Ci vollero due ore per arrivare alla città di Biella: pochi semafori, poche auto, una piccola cittadina ordinata e semplice. Nata ai piedi delle Prealpi, come un fungo ai piedi del suo alto albero: in perfetta simbiosi. Le stesse alte montagne si erigevano imponenti, nascendo come dal nulla dalla terra, nuda e piatta, della Pianura Padana. I monti mi sembrarono come un’invalicabile barriera oltre cui non si poteva andare e dove il mondo conosciuto finiva. La stessa sensazione di barriera al mondo che si poteva provare su di una spiaggia, con lo sguardo di fronte ad un oceano aperto e sconosciuto. Come il mare, i monti delimitavano il perimetro in cui muoversi, organizzarsi e vivere, mettere radici.
Ma non fu per niente facile ricominciare una nuova vita.
Io e Maddalena, appena sistemata la nuova casa, ci mettemmo subito a lavorare. Lei aveva trovato un posto presso una fabbrica di tessuti, uno dei tanti del territorio, e io come arredatore in una grande catena di mobili. Lei tornava sempre a casa tranquilla, diceva che faceva il suo lavoro e non parlava con nessuno. Io invece, nei primi tempi, ebbi a scontrarmi con la diffidenza dei colleghi. Tutti mi chiedevano cosa ci facessi in Piemonte, dato il clima e il mare che avevamo. Uno di questi, il “Porrin”, raccontava che andava in Sardegna ogni anno; la figlia, sposata con un ricco industriale, aveva la casa al mare dalle parti di Porto Rotondo, in Costa Smeralda. Lui faceva da accompagnatore a figlia e nipotini nelle lunghe vacanze, mentre il marito di lei, passava il tempo a curare gli affari. Ma il Porrin, quando parlava di noi sardi, spesso ci dipingeva con una leggera punta di razzismo. Ci chiamava i “sardagnoli”, diminutivo dispregiativo che evocava gli asinelli della Giara. Come se noi fossimo tutti pastori e pecorai, o tutti assimilabili agli asini che abbondano dalle nostre parti.
Un giorno mi scocciai e gli ricordai di come i nostri padri avevano costruito L'Italia. Gli ricordai il Regno Sardo Piemontese, gli ricordai le battaglie della Brigata Sassari. Senza i Sardi l'Italia non si sarebbe mai unita, e il Piemonte sarebbe rimasto una distesa di mucche al pascolo. E poi gli dissi anche: «È pur vero che noi siamo famosi per i nostri asinelli, ma ricordati che i grossi somari stanno da altre parti». Smontare le idee del Porrin su di noi non fu facile, ma alla fine gli feci capire che con me era inutile fare apprezzamenti, perché io li giravo al mittente. Un giorno venimmo nuovamente a parole: «I Sardi non sanno trattare i turisti, li ripuliscono alla grande. Un giorno, lungo la strada per Porto Rotondo mi sono fermato per comprare una lattina di Coca Cola da uno seduto sul ciglio della strada. Questi era sotto ad un ombrellone ed aveva tra i piedi un frigo portatile. Mi ha chiesto diecimila lire per la lattina. Ci vuole coraggio. Alla fine glieli ho dati». «Non vedo cosa c'è di strano, ma ringrazia! Feci io, < Quello sotto il sole tutto il giorno, lì ad aspettare che tu passi e ti fermi perché hai sete. Che pretese hai. Io te l’avrei fatta pagare ventimila lire la lattina. Perché non capisci la buona volontà della gente nel guadagnarsi onestamente il pane? Poi magari tu, alla sera, vai nei locali della piazzetta e paghi cinquantamila lire un aperitivo con due olive». Alla fine il “Porrin” smise con il suo atteggiamento razzista, imparò ad apprezzarmi.
E poi gli anni sono passati: oggi, io e Maddalena conduciamo una vita quasi serena. I nostri bambini si sono fatti grandi, e questi venti anni passati, li hanno formati nel carattere. Non rimpiangono la loro terra e la pensano solo al momento di andare in vacanza al mare. Hanno ben metabolizzato il cambiamento, grazie al fatto che da piccoli tutto è più facile. Io e la loro madre abbiamo fatto tutto questo per loro; e vederli sereni, con un buon lavoro, ormai quasi accasati, ci consola.
Io sento il peso degli anni. Ancora sento il dolore dello sradicamento. Condivido questo dolore con Maddalena; anche lei non ha ancora superato il trauma. Ci siamo ripromessi di ritornare alla nostra terra quando ci daranno la pensione. Non siamo riusciti a mettere radici su questo suolo. Non so se è per via della durezza di questa terra, fatta di pietra e di nebbia. Terra che non ti avvisa del freddo che arriva, dove l'autunno è sempre a braccetto dell'inverno. Non ci siamo abituati al clima che tutto rende di ghiaccio, persino la ghiaia sotto al tuo passo. Non mi sono abituato al verde d'estate delle valli, quando la mia terra d'estate è bruciata dal sole, e viceversa, alla terra mia verde d'inverno, quando questa terra che mi ospita è gialla bruciata dal gelo.
Sono un ospite in questa terra, e sempre mi sentirò così. Quando sarò nuovamente nella mia terra, mi guarderò bene dal mettere profonde radici; un altro simile dolore non lo potrò reggere.
Traccia: il trasloco.
Si dice che l'albero è alto quanto sono profonde le sue radici. L'ultimo trasloco fatto è stato come se mi avessero sradicato dal terreno in cui ero nato. Una esperienza dolorosa che ben ricordo, tanto erano profonde quelle radici che mi vennero strappate.
Io e Maddalena avevamo preso una decisione molto sofferta: abbandonare la nostra isola stupenda, - che però non dava nessuna certezza sul futuro - per trasferirci in Piemonte. L'industria che tanto avevano voluto i politici era fallita da subito; mentre la risorsa dell'agricoltura era stata abbandonata da chi aveva creduto nel benessere tanto prospettato. La crisi senza uscita attanagliava la nostra terra, compresa la nostra attività artigiana di arredamento. Io e Maddalena non ce la facevamo a sostenere le spese e guardavamo con preoccupazione il nostro futuro e quello dei nostri due figli: Denis di nove anni e Gloria di sei.
Il giorno dell'addio non esiste; esistono i giorni dell'addio. Tanti ne vollero per chiudere bottega e involgere le poche cose che potevamo portarci appresso nella nuova dimora. Maddalena uscì per l'ultima volta di casa con in mano il suo porta rotolo di carta da cucina, intarsiato da nostro cognato, che glielo aveva regalato per il suo compleanno. Gli dissi che in macchina non ci stava più niente; neanche una banconota da cinquemila lire, avevamo riempito oltre ogni limite lo spazio a disposizione.
Lei sbottò dicendo che lo avrebbe tenuto in mano per tutto il viaggio. Io capii cosa rappresentasse quell'oggetto per lei: il ricordo della casa che stava abbandonando e che mai avrebbe dimenticato.
Fu la vibrazione sotto i nostri piedi posati sulla moquette rossa a pois del traghetto della Tirrenia, che ci fece catapultare sul ponte; la nave si stava staccando dalla banchina: e noi dalla nostra terra. Ricordo che Maddalena prese in braccio la piccola Gloria e mascherando la sua tristezza, prese a muovere la sua mano attaccata a quella della figlia in cenno di saluto ai pochi parenti che erano venuti a salutarci.
Poi la nave si allontanò dal porto e io ebbi la sensazione di avere l'animo umido e scuro come quelle profonde e agitate acque. Pensai a cosa ci aspettasse e se mai saremmo riusciti a sopportare il cambiamento radicale senza soffrirne.
Durante l'attraversata festeggiammo il compleanno di Denis; compiva il giorno dieci anni.
Niente torta, né candeline; niente regali da scartare. Lo consolammo dicendogli che appena ci saremmo stabiliti per bene, gli avremmo fatto una bella festa.
Ci ritrovammo alle prime luci del mattino nel golfo di Genova: le acque nere e limacciose del porto incutevano paura; come pure la sovrabbondanza di cemento dei cavalcavia a ridosso della grigia città. Da sempre a Maddalena non piaceva Genova, diceva che le dava troppa tristezza ogni volta che ci andava.
Dopo lo sbarco prendemmo l'autostrada e ci fermammo alla stazione del Tronchino; lì, sospesa tra cielo e mare, appena dieci chilometri da Genova, tutta in salita per la panoramica. Colazione alla grande con i panzerotti alla crema dell'Autogrill; fu un momento spensierato.
Finito la colazione andammo verso la nuova destinazione. Ci vollero due ore per arrivare alla città di Biella: pochi semafori, poche auto, una piccola cittadina ordinata e semplice. Nata ai piedi delle Prealpi, come un fungo ai piedi del suo alto albero: in perfetta simbiosi. Le stesse alte montagne si erigevano imponenti, nascendo come dal nulla dalla terra, nuda e piatta, della Pianura Padana. I monti mi sembrarono come un’invalicabile barriera oltre cui non si poteva andare e dove il mondo conosciuto finiva. La stessa sensazione di barriera al mondo che si poteva provare su di una spiaggia, con lo sguardo di fronte ad un oceano aperto e sconosciuto. Come il mare, i monti delimitavano il perimetro in cui muoversi, organizzarsi e vivere, mettere radici.
Ma non fu per niente facile ricominciare una nuova vita.
Io e Maddalena, appena sistemata la nuova casa, ci mettemmo subito a lavorare. Lei aveva trovato un posto presso una fabbrica di tessuti, uno dei tanti del territorio, e io come arredatore in una grande catena di mobili. Lei tornava sempre a casa tranquilla, diceva che faceva il suo lavoro e non parlava con nessuno. Io invece, nei primi tempi, ebbi a scontrarmi con la diffidenza dei colleghi. Tutti mi chiedevano cosa ci facessi in Piemonte, dato il clima e il mare che avevamo. Uno di questi, il “Porrin”, raccontava che andava in Sardegna ogni anno; la figlia, sposata con un ricco industriale, aveva la casa al mare dalle parti di Porto Rotondo, in Costa Smeralda. Lui faceva da accompagnatore a figlia e nipotini nelle lunghe vacanze, mentre il marito di lei, passava il tempo a curare gli affari. Ma il Porrin, quando parlava di noi sardi, spesso ci dipingeva con una leggera punta di razzismo. Ci chiamava i “sardagnoli”, diminutivo dispregiativo che evocava gli asinelli della Giara. Come se noi fossimo tutti pastori e pecorai, o tutti assimilabili agli asini che abbondano dalle nostre parti.
Un giorno mi scocciai e gli ricordai di come i nostri padri avevano costruito L'Italia. Gli ricordai il Regno Sardo Piemontese, gli ricordai le battaglie della Brigata Sassari. Senza i Sardi l'Italia non si sarebbe mai unita, e il Piemonte sarebbe rimasto una distesa di mucche al pascolo. E poi gli dissi anche: «È pur vero che noi siamo famosi per i nostri asinelli, ma ricordati che i grossi somari stanno da altre parti». Smontare le idee del Porrin su di noi non fu facile, ma alla fine gli feci capire che con me era inutile fare apprezzamenti, perché io li giravo al mittente. Un giorno venimmo nuovamente a parole: «I Sardi non sanno trattare i turisti, li ripuliscono alla grande. Un giorno, lungo la strada per Porto Rotondo mi sono fermato per comprare una lattina di Coca Cola da uno seduto sul ciglio della strada. Questi era sotto ad un ombrellone ed aveva tra i piedi un frigo portatile. Mi ha chiesto diecimila lire per la lattina. Ci vuole coraggio. Alla fine glieli ho dati». «Non vedo cosa c'è di strano, ma ringrazia! Feci io, < Quello sotto il sole tutto il giorno, lì ad aspettare che tu passi e ti fermi perché hai sete. Che pretese hai. Io te l’avrei fatta pagare ventimila lire la lattina. Perché non capisci la buona volontà della gente nel guadagnarsi onestamente il pane? Poi magari tu, alla sera, vai nei locali della piazzetta e paghi cinquantamila lire un aperitivo con due olive». Alla fine il “Porrin” smise con il suo atteggiamento razzista, imparò ad apprezzarmi.
E poi gli anni sono passati: oggi, io e Maddalena conduciamo una vita quasi serena. I nostri bambini si sono fatti grandi, e questi venti anni passati, li hanno formati nel carattere. Non rimpiangono la loro terra e la pensano solo al momento di andare in vacanza al mare. Hanno ben metabolizzato il cambiamento, grazie al fatto che da piccoli tutto è più facile. Io e la loro madre abbiamo fatto tutto questo per loro; e vederli sereni, con un buon lavoro, ormai quasi accasati, ci consola.
Io sento il peso degli anni. Ancora sento il dolore dello sradicamento. Condivido questo dolore con Maddalena; anche lei non ha ancora superato il trauma. Ci siamo ripromessi di ritornare alla nostra terra quando ci daranno la pensione. Non siamo riusciti a mettere radici su questo suolo. Non so se è per via della durezza di questa terra, fatta di pietra e di nebbia. Terra che non ti avvisa del freddo che arriva, dove l'autunno è sempre a braccetto dell'inverno. Non ci siamo abituati al clima che tutto rende di ghiaccio, persino la ghiaia sotto al tuo passo. Non mi sono abituato al verde d'estate delle valli, quando la mia terra d'estate è bruciata dal sole, e viceversa, alla terra mia verde d'inverno, quando questa terra che mi ospita è gialla bruciata dal gelo.
Sono un ospite in questa terra, e sempre mi sentirò così. Quando sarò nuovamente nella mia terra, mi guarderò bene dal mettere profonde radici; un altro simile dolore non lo potrò reggere.