Incertezza
Posted: Thu Mar 25, 2021 9:49 pm
viewtopic.php?p=10979#p10979
“La differenza fra rischio e incertezza è che il primo è misurabile, mentre la seconda è solo percepibile. Se possiamo, infatti, calcolare un rischio, non ci è dato lo stesso con l'incertezza, di cui possiamo soltanto attestare l'esistenza”.
“Io non so se domani pioverà”, è incertezza – pensò Gaia – ma se nonostante questo decidessi comunque di organizzare il nostro pic–nic starei correndo un rischio”.
Una ciocca le cadde sulla fronte. Gaia sfiorò il pensiero di ravviarla, ma lo lasciò dov’era. Avrebbe dovuto approntare altre soluzioni, tenersi pronta al maltempo con piani di riserva, come prenotare un ristorante o spostare la festa in casa cercando di tenere il progetto nascosto a Daniele. La verità era che ancora neanche aveva fatto la spesa.
Il cameriere le chiese se volesse altro. Gaia scrutò il fondo della tazza, macchiato ormai solo da un’ellisse di caffè.
«No grazie» disse, e il ragazzo si allontanò. Provò di nuovo a chiamare Daniele. Ancora telefono staccato. Guardò, attraverso la vetrina, l'altro lato della strada, dove, sulla facciata della loro casa, bruniva la luce del pomeriggio. Si era scordata le chiavi, e se Daniele non fosse tornato sarebbe rimasta chiusa fuori.
“Portarsi dietro i libri – rifletté – è una strategia di contenimento dell' incertezza. Non posso tornare a casa, ma posso comunque lavorare all’articolo”. Si alzò e andò al bancone.
«Scusami – disse al cameriere – c'ho ripensato». Il ragazzo sollevò la testa, la guardò, e poi afferrò il bricco del caffè.
«Prenderei un vino bianco, per favore» lo fermò Gaia.
Il cameriere annuì, stappò una bottiglia e le riempì un calice. Le disse anche cosa era, e quali caratteristiche aveva, ma Gaia non lo ascoltò.
«Ah, bene» disse tanto per rispondere qualcosa mentre prendeva il portafogli.
«Non importa – disse lui – paga pure dopo».
«Grazie».
Sul tavolo il telefono era ancora muto.
L’anno precedente si era adoperata per il loro anniversario prenotando un rifugio e pianificando un fine settimana a passeggio fra i boschi, ma adesso era stanca. Pensò che forse questa volta sarebbe stato Daniele a organizzare qualcosa. Scosse il capo e aprì un altro libro.
“L'incertezza è l'habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa – stanca, i segni evaporavano dal foglio – come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci”. Tentò di leggere oltre, ma le parole non stavano ferme, erano nomadi transumanti di pagina in pagina.
“Per quanti programmi io faccia, per quanto immagini possibilità diverse, vie d'uscita alternative, ogni imprevisto è una slavina e cancella ogni opzione”.
Diede un lungo sorso di vino, ammezzando il bicchiere. Buono, ma non avrebbe saputo dire altro, se non che il barista era stato generoso. Si incastrò le mani nei capelli, arruffandoli. Scrutò ancora il telefono.
“Cosa può essere l'incertezza? Può trattarsi di assenza di informazioni oggettivamente impossibili da ottenere, quali macchine, quali pedoni, passeranno di fronte alla vetrina del bar, dove vada quest’aereo che sorvola i tetti delle case cancellando ogni rumore, oppure – pensò ancora – una mancanza di conoscenze che, per un motivo o per un altro, ignoranza, paura, pigrizia, non vogliamo esplorare”.
In quale categoria ricadesse il non sapere dove fosse Daniele non riusciva a dirlo. Fuori, in strada, un vento improvviso alzò la sciarpa rossa d'un anziana signora e strappò una folata di petali dagli alberi del viale.
Avrebbe potuto chiamare la madre o la sorella, visto che lui non rispondeva, e certo loro avrebbero saputo dirle qualcosa, ma erano ormai passate ore dall'ultima volta che si erano visti e non lo aveva ancora fatto. La scena del loro saluto quella mattina le affiorò alla memoria dopo un altro sorso di vino.
La colazione silenziosa ascoltando il radiogiornale, lo sgocciolio di un biscotto che rompeva la quiete del latte, la sua chiamata al padre. Quel giorno lo avrebbero dimesso dall'ospedale ma Daniele, si rese conto allora, non le aveva chiesto come stava. O forse era lei ad aver smarrito anche il ricordo di quella domanda? Sul pianerottolo lui le aveva dato un bacio lì dove i capelli diventavano una soffice peluria che le aveva sempre fatto credere che sarebbe diventata una di quelle vecchie con barba e baffi. Lei non aveva reciprocato, e Daniele era corso giù per le scale gridandole che sarebbe tornato per pranzo. Le chiavi, realizzò, le aveva lasciate in bagno, sulla lavatrice ancora piena di panni da stendere.
“Voglio davvero sapere dov'è? Gettare luce in un'incertezza, risolverla, non la fa scomparire, ma ne rivela un'altra, trasformando così l'insicurezza in un frattale infinito nel quale, quando credi di aver scandagliato ogni abisso, ne scopri innumerevoli altri. È una condizione che non si abbandona mai, naufragando in un oceano d'inquietudine”.
Buttò giù l'ultimo sorso di vino. Squillò il telefono.
«Sono a casa» disse la voce dall'altra parte. Gaia si voltò a guardare la porta di casa. Era ancora serrata, le luci alle finestre spente. La voce, d'altronde, era quella di suo padre.
«Stai bene?» gli chiese.
“Domande che suggeriscono già la risposta – pensò – un altro tentativo di circoscrivere l'incertezza, tracciandole attorno, col linguaggio, un recinto elettrificato”.
«Insomma, mica tanto». Suo padre, bestia refrattaria agli steccati.
«Più tardi vengo da te» gli disse.
«Non subito?»
«Non ho macchina – rispose Gaia – devo aspettare che torni Daniele». Suo padre mugugnò qualcosa e poi «Ho sonno», disse.
«Saranno le medicine» rispose Gaia. Fece scorrere le dita sullo stelo del calice, e si sorprese di quanto forte fosse ancora l'odore aspro dell'alcool. Alzò lo sguardo e scoprì che il bicchiere era di nuovo colmo. Il barista la guardava da dietro il bancone. I muscoli della faccia gli si mossero con uno scatto, e Gaia suppose che le stesse facendo l’occhiolino. Era più giovane di lei, le sembrava e, se avesse dovuto emettere un giudizio, non brutto.
«Cerco di essere da te il prima possibile» disse al padre.
«Ti voglio bene» rispose lui, e le mandò un bacio.
«Anche io»
Provò a leggere ancora un po’, ma l’attenzione le scivolò sul tavolo accanto, dove chiacchieravano due donne.
«E come s’intitola?»
«Mica me lo ricordo sai, ma insomma c’erano queste due donne, sedute al tavolo di un bar e una diceva una cosa tipo “quando ero giovane immaginavo che arrivata a trentacinque anni la vita si sarebbe solidificata, fermata, diventando”, oddio aspetta come diceva?»
«Dai, ma che film t’ha fatto vedere»
«Un altopiano, ecco, sì, diventando un altopiano»
«Ma dopo almeno t’ha baciata?»
Gaia prese un altro libro, che si aprì di netto a metà. Una vecchia foto fra le pagine le mostrò se stessa, adolescente, insieme a Daniele. Sedendo sull'orlo d’una roccia, le gambe nel vuoto, lei teneva la testa poggiata sulla sua spalla mentre il tramonto s’adagiava a valle.
Voltò la foto. Sul retro una scritta a penna blu: la data di un'estate di quattro anni prima e una citazione sbilenca che paragonava la felicità a una casa che non può essere costruita, ma solo abitata.
“Che frase stupida”, pensò. Quando abbassò la foto s’accorse che la mano le stava portando il vino alla bocca, e sentì addosso lo sguardo viscoso del barista. Poggiò il bicchiere, riprese il telefono e chiamò di nuovo Daniele. Ancora spento. Sulla facciata della loro casa era avanzata l'ombra, e preannunciava sera. Controllò il meteo. Per l’indomani le probabilità di pioggia erano del cinquanta per cento. Rimise i libri nella borsa, lasciò sul tavolo i soldi per il caffè e il primo bicchiere di vino e uscì. Salì sul primo autobus che passava, senza controllare dove fosse diretto.
“La differenza fra rischio e incertezza è che il primo è misurabile, mentre la seconda è solo percepibile. Se possiamo, infatti, calcolare un rischio, non ci è dato lo stesso con l'incertezza, di cui possiamo soltanto attestare l'esistenza”.
“Io non so se domani pioverà”, è incertezza – pensò Gaia – ma se nonostante questo decidessi comunque di organizzare il nostro pic–nic starei correndo un rischio”.
Una ciocca le cadde sulla fronte. Gaia sfiorò il pensiero di ravviarla, ma lo lasciò dov’era. Avrebbe dovuto approntare altre soluzioni, tenersi pronta al maltempo con piani di riserva, come prenotare un ristorante o spostare la festa in casa cercando di tenere il progetto nascosto a Daniele. La verità era che ancora neanche aveva fatto la spesa.
Il cameriere le chiese se volesse altro. Gaia scrutò il fondo della tazza, macchiato ormai solo da un’ellisse di caffè.
«No grazie» disse, e il ragazzo si allontanò. Provò di nuovo a chiamare Daniele. Ancora telefono staccato. Guardò, attraverso la vetrina, l'altro lato della strada, dove, sulla facciata della loro casa, bruniva la luce del pomeriggio. Si era scordata le chiavi, e se Daniele non fosse tornato sarebbe rimasta chiusa fuori.
“Portarsi dietro i libri – rifletté – è una strategia di contenimento dell' incertezza. Non posso tornare a casa, ma posso comunque lavorare all’articolo”. Si alzò e andò al bancone.
«Scusami – disse al cameriere – c'ho ripensato». Il ragazzo sollevò la testa, la guardò, e poi afferrò il bricco del caffè.
«Prenderei un vino bianco, per favore» lo fermò Gaia.
Il cameriere annuì, stappò una bottiglia e le riempì un calice. Le disse anche cosa era, e quali caratteristiche aveva, ma Gaia non lo ascoltò.
«Ah, bene» disse tanto per rispondere qualcosa mentre prendeva il portafogli.
«Non importa – disse lui – paga pure dopo».
«Grazie».
Sul tavolo il telefono era ancora muto.
L’anno precedente si era adoperata per il loro anniversario prenotando un rifugio e pianificando un fine settimana a passeggio fra i boschi, ma adesso era stanca. Pensò che forse questa volta sarebbe stato Daniele a organizzare qualcosa. Scosse il capo e aprì un altro libro.
“L'incertezza è l'habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa – stanca, i segni evaporavano dal foglio – come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci”. Tentò di leggere oltre, ma le parole non stavano ferme, erano nomadi transumanti di pagina in pagina.
“Per quanti programmi io faccia, per quanto immagini possibilità diverse, vie d'uscita alternative, ogni imprevisto è una slavina e cancella ogni opzione”.
Diede un lungo sorso di vino, ammezzando il bicchiere. Buono, ma non avrebbe saputo dire altro, se non che il barista era stato generoso. Si incastrò le mani nei capelli, arruffandoli. Scrutò ancora il telefono.
“Cosa può essere l'incertezza? Può trattarsi di assenza di informazioni oggettivamente impossibili da ottenere, quali macchine, quali pedoni, passeranno di fronte alla vetrina del bar, dove vada quest’aereo che sorvola i tetti delle case cancellando ogni rumore, oppure – pensò ancora – una mancanza di conoscenze che, per un motivo o per un altro, ignoranza, paura, pigrizia, non vogliamo esplorare”.
In quale categoria ricadesse il non sapere dove fosse Daniele non riusciva a dirlo. Fuori, in strada, un vento improvviso alzò la sciarpa rossa d'un anziana signora e strappò una folata di petali dagli alberi del viale.
Avrebbe potuto chiamare la madre o la sorella, visto che lui non rispondeva, e certo loro avrebbero saputo dirle qualcosa, ma erano ormai passate ore dall'ultima volta che si erano visti e non lo aveva ancora fatto. La scena del loro saluto quella mattina le affiorò alla memoria dopo un altro sorso di vino.
La colazione silenziosa ascoltando il radiogiornale, lo sgocciolio di un biscotto che rompeva la quiete del latte, la sua chiamata al padre. Quel giorno lo avrebbero dimesso dall'ospedale ma Daniele, si rese conto allora, non le aveva chiesto come stava. O forse era lei ad aver smarrito anche il ricordo di quella domanda? Sul pianerottolo lui le aveva dato un bacio lì dove i capelli diventavano una soffice peluria che le aveva sempre fatto credere che sarebbe diventata una di quelle vecchie con barba e baffi. Lei non aveva reciprocato, e Daniele era corso giù per le scale gridandole che sarebbe tornato per pranzo. Le chiavi, realizzò, le aveva lasciate in bagno, sulla lavatrice ancora piena di panni da stendere.
“Voglio davvero sapere dov'è? Gettare luce in un'incertezza, risolverla, non la fa scomparire, ma ne rivela un'altra, trasformando così l'insicurezza in un frattale infinito nel quale, quando credi di aver scandagliato ogni abisso, ne scopri innumerevoli altri. È una condizione che non si abbandona mai, naufragando in un oceano d'inquietudine”.
Buttò giù l'ultimo sorso di vino. Squillò il telefono.
«Sono a casa» disse la voce dall'altra parte. Gaia si voltò a guardare la porta di casa. Era ancora serrata, le luci alle finestre spente. La voce, d'altronde, era quella di suo padre.
«Stai bene?» gli chiese.
“Domande che suggeriscono già la risposta – pensò – un altro tentativo di circoscrivere l'incertezza, tracciandole attorno, col linguaggio, un recinto elettrificato”.
«Insomma, mica tanto». Suo padre, bestia refrattaria agli steccati.
«Più tardi vengo da te» gli disse.
«Non subito?»
«Non ho macchina – rispose Gaia – devo aspettare che torni Daniele». Suo padre mugugnò qualcosa e poi «Ho sonno», disse.
«Saranno le medicine» rispose Gaia. Fece scorrere le dita sullo stelo del calice, e si sorprese di quanto forte fosse ancora l'odore aspro dell'alcool. Alzò lo sguardo e scoprì che il bicchiere era di nuovo colmo. Il barista la guardava da dietro il bancone. I muscoli della faccia gli si mossero con uno scatto, e Gaia suppose che le stesse facendo l’occhiolino. Era più giovane di lei, le sembrava e, se avesse dovuto emettere un giudizio, non brutto.
«Cerco di essere da te il prima possibile» disse al padre.
«Ti voglio bene» rispose lui, e le mandò un bacio.
«Anche io»
Provò a leggere ancora un po’, ma l’attenzione le scivolò sul tavolo accanto, dove chiacchieravano due donne.
«E come s’intitola?»
«Mica me lo ricordo sai, ma insomma c’erano queste due donne, sedute al tavolo di un bar e una diceva una cosa tipo “quando ero giovane immaginavo che arrivata a trentacinque anni la vita si sarebbe solidificata, fermata, diventando”, oddio aspetta come diceva?»
«Dai, ma che film t’ha fatto vedere»
«Un altopiano, ecco, sì, diventando un altopiano»
«Ma dopo almeno t’ha baciata?»
Gaia prese un altro libro, che si aprì di netto a metà. Una vecchia foto fra le pagine le mostrò se stessa, adolescente, insieme a Daniele. Sedendo sull'orlo d’una roccia, le gambe nel vuoto, lei teneva la testa poggiata sulla sua spalla mentre il tramonto s’adagiava a valle.
Voltò la foto. Sul retro una scritta a penna blu: la data di un'estate di quattro anni prima e una citazione sbilenca che paragonava la felicità a una casa che non può essere costruita, ma solo abitata.
“Che frase stupida”, pensò. Quando abbassò la foto s’accorse che la mano le stava portando il vino alla bocca, e sentì addosso lo sguardo viscoso del barista. Poggiò il bicchiere, riprese il telefono e chiamò di nuovo Daniele. Ancora spento. Sulla facciata della loro casa era avanzata l'ombra, e preannunciava sera. Controllò il meteo. Per l’indomani le probabilità di pioggia erano del cinquanta per cento. Rimise i libri nella borsa, lasciò sul tavolo i soldi per il caffè e il primo bicchiere di vino e uscì. Salì sul primo autobus che passava, senza controllare dove fosse diretto.