L'ombra dei suoni
Posted: Sat Jan 02, 2021 1:52 pm
Alla fine si svegliò. La stanza era stipata stretta che non ci si stava tutti e dovemmo metterci in fila, entrare uno a uno come fossimo in udienza privata, nel sacro riserbo di un confessionale.
Io ero la quarta dietro Michele, Simona e la mamma. Avrei preferito entrare con lei, ma la stanza era davvero stretta dicevano.
Le settimane precedenti erano state un miscuglio di umori sbilenchi e altalenanti e avevano contribuito a caricare l’attesa di uno spesso strato d’afa che in casa non si respirava più.
Io indossavo il vestito buono della comunione, bianco e trasparente che mamma non se n’era accorta quando aveva comprato la stoffa dalla signora difronte e sotto il sole di Giugno pare che il parroco si era fatto tutto rosso a vedere le mie tettine non ancora formate, e papà se n’era accorto prima di tutti, che lui ascoltava con gli occhi e non si era mai fatto stordire dalle litanie cantilenate dal pulpito.
Ci avevo pensato parecchio a cosa avrei detto per prima cosa a papà una volta entrata nella stanza. Avevo pensato anche a cosa avrebbero detto Michele, Simona e mamma che sarebbero entrati prima di me e non volevo che fosse qualcosa di simile a quello che gli avrebbero potuto dire loro.
Volevo che fosse qualcosa di speciale. All’inizio me l’ero presa parecchio per quel quarto posto: ero sicura che se papà avesse potuto scegliere mi avrebbe fatto entrare per prima, ma mamma diceva che già soffriva abbastanza ad entrare dopo Michele e Simona e che non sarebbe entrata per ultima, fa la brava per favore.
Il corridoio dell’ospedale era bianco sporco e le monache nere che correvano dappertutto sembravano macchie d’unto che si espandevano nell’aria come un brutto male.
Lo so, a sentirmi parlare così non sembro una bambina. Me lo dicevano anche i ragazzini a scuola e pure la maestra, tanto che se la pigliava a male se parlavo così davanti agli altri perché lei a dire il vero parlava uno schifo. Ma voi che cavolo ne sapete di quello che facevamo io e papà? Anche a me sarebbe piaciuto guardare la TV come tutti e rincretinirmi come quei ragazzini bavosi che sgranano gli occhi e fissano le soubrette con la bocca aperta. Cioè forse non mi sarebbe piaciuto quello, ma magari avrei voluto sapere cosa si sussurravano all’orecchio quei due attori prima del bacio appassionato, o anche solo che tempo avrebbe fatto domani secondo quel tizio in giacca e cravatta che muoveva le mani a casaccio e sembrava facesse una danza della pioggia. Va bene lo ammetto: qualche volta sgattaiolavo in camera di Michele quando lui era fuori e accendevo un po’ l’unica TV che c’era in casa. Qualcosina l’ho vista anch’io.
Ma più che altro, io e papà le cose da vedere ce le creavamo noi. Leggevamo tutte le sere, e la domenica tutto il giorno, tanto che la mamma doveva venire a sgridarmi per farmi fare qualcosa di utile in casa. Papà allora sorrideva e mi lasciava andare con una carezza. Ho imparato così tutte queste parole da grandi: leggendo a voce alta tutto quello che papà mi metteva sotto agli occhi. All’inizio ogni tanto leggeva anche lui, o almeno ci provava, ma veniva sempre fuori un suono strano che somigliava a quella volta che ho messo sotto il gatto della signora difronte con la bici. A me comunque non importava e gli chiedevo di leggere, ma lui non si fidava e voleva che leggessi sempre io.
Non capisco perché papà doveva venire proprio qui. Sarà almeno un anno che aspettiamo in fila per entrare e non si fa vivo nessuno ad aprirci la porta. La mamma ha detto che se non arriva il dottore non possiamo entrare perché magari papà è mezzo rincoglionito e gli piglia paura a vederci sfilare come ombre. Ogni tanto chino la testa di lato per sbirciare se si muove qualcosa, macché. S’è fatta sera e il sole ha smontato dal turno di lavoro e ora c’è la luna. Meglio così, a me la luna piace di più, ma le gambe cominciamo a formicolarmi dappertutto.
Avrei preferito andare in un bell’ospedale, sono sicura che anche a papà sarebbe piaciuto di più. Un bell’ospedale candido e silenzioso come quello dove è morta la nonna, coi fiori freschi alla finestra e una luce bianca talmente forte che persino le ombre si andavano a nascondere per non disturbare nessuno. La mamma però ha detto che un posto così non ce lo possiamo permettere, che la nonna prima di morire ha scritto una cosa dove purtroppo i soldi che aveva li ha usati per morire il più comoda possibile e a noi non ce n’è rimasto niente. E allora papà si è dovuto accontentare di un letto alla casa dei matti dove ogni tanto lavora anche il suo dottore.
Finalmente Michele e Simona hanno finito. Li guardo uscire a testa bassa dalla stanza, uno dopo l’altro, col dottore che li accompagna all’uscio e subito richiude la porta alle spalle. Quando entra mamma ormai dietro di me c’è solo una monaca che spazza il corridoio e allora mi arrischio a origliare. Sento che il dottore spiega a mamma dell’impianto che hanno messo in testa a papà, o nelle orecchie, non ho capito. Ha un nome come uno scarafaggio, cochlear, e io inizio a preoccuparmi. Non è che a papà hanno messo degli scarafaggi in testa?
Anche mamma esce e tocca a me. Siccome che occupo poco spazio il dottore rimane in camera con me. Forse ha paura che salti addosso a papà e gli tiri via gli scarafaggi dalle orecchie.
Papà è seduto su di una sedia accanto alla finestra. Pensavo di trovarmelo steso a letto, mezzo rincoglionito come diceva mamma, invece mi guarda appena entro e ha gli stessi occhi di quando leggiamo la sera: occhi che ti ascoltano tutta.
– Papà? – Mi ero preparata tutta una serie di cose belle da dire me a vederlo così mi sono spaventata e non ho spiccicato altro. La cosa che mi ha spaventata di più, comunque, è che papà mi ha risposto.
– Ciao tesoro. – Papà mi sente. Ci sente.
– Cosa fai alla finestra?
– Ascoltavo.
– Cosa? È tutto silenzioso.
Papà mi guarda come quando leggo qualcosa e non scandisco bene con le labbra e lui non ha capito e io allora so che devo ripetere più lentamente.
– Non è silenzioso.
Non capisco. Io non sento niente.
– Ho capito papà! Non ci sei abituato, ecco tutto. Senti. Questo è il “silenzio”.
– Uhm… no, non è il silenzio che conosco io.
Non so che dire. Rimango imbambolata come quando aspettavo in fila. All’improvviso, dal fondo del corridoio una matta attacca ad urlare e papà drizza la testa.
– Ecco. Questo è il silenzio che conosco.
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Io ero la quarta dietro Michele, Simona e la mamma. Avrei preferito entrare con lei, ma la stanza era davvero stretta dicevano.
Le settimane precedenti erano state un miscuglio di umori sbilenchi e altalenanti e avevano contribuito a caricare l’attesa di uno spesso strato d’afa che in casa non si respirava più.
Io indossavo il vestito buono della comunione, bianco e trasparente che mamma non se n’era accorta quando aveva comprato la stoffa dalla signora difronte e sotto il sole di Giugno pare che il parroco si era fatto tutto rosso a vedere le mie tettine non ancora formate, e papà se n’era accorto prima di tutti, che lui ascoltava con gli occhi e non si era mai fatto stordire dalle litanie cantilenate dal pulpito.
Ci avevo pensato parecchio a cosa avrei detto per prima cosa a papà una volta entrata nella stanza. Avevo pensato anche a cosa avrebbero detto Michele, Simona e mamma che sarebbero entrati prima di me e non volevo che fosse qualcosa di simile a quello che gli avrebbero potuto dire loro.
Volevo che fosse qualcosa di speciale. All’inizio me l’ero presa parecchio per quel quarto posto: ero sicura che se papà avesse potuto scegliere mi avrebbe fatto entrare per prima, ma mamma diceva che già soffriva abbastanza ad entrare dopo Michele e Simona e che non sarebbe entrata per ultima, fa la brava per favore.
Il corridoio dell’ospedale era bianco sporco e le monache nere che correvano dappertutto sembravano macchie d’unto che si espandevano nell’aria come un brutto male.
Lo so, a sentirmi parlare così non sembro una bambina. Me lo dicevano anche i ragazzini a scuola e pure la maestra, tanto che se la pigliava a male se parlavo così davanti agli altri perché lei a dire il vero parlava uno schifo. Ma voi che cavolo ne sapete di quello che facevamo io e papà? Anche a me sarebbe piaciuto guardare la TV come tutti e rincretinirmi come quei ragazzini bavosi che sgranano gli occhi e fissano le soubrette con la bocca aperta. Cioè forse non mi sarebbe piaciuto quello, ma magari avrei voluto sapere cosa si sussurravano all’orecchio quei due attori prima del bacio appassionato, o anche solo che tempo avrebbe fatto domani secondo quel tizio in giacca e cravatta che muoveva le mani a casaccio e sembrava facesse una danza della pioggia. Va bene lo ammetto: qualche volta sgattaiolavo in camera di Michele quando lui era fuori e accendevo un po’ l’unica TV che c’era in casa. Qualcosina l’ho vista anch’io.
Ma più che altro, io e papà le cose da vedere ce le creavamo noi. Leggevamo tutte le sere, e la domenica tutto il giorno, tanto che la mamma doveva venire a sgridarmi per farmi fare qualcosa di utile in casa. Papà allora sorrideva e mi lasciava andare con una carezza. Ho imparato così tutte queste parole da grandi: leggendo a voce alta tutto quello che papà mi metteva sotto agli occhi. All’inizio ogni tanto leggeva anche lui, o almeno ci provava, ma veniva sempre fuori un suono strano che somigliava a quella volta che ho messo sotto il gatto della signora difronte con la bici. A me comunque non importava e gli chiedevo di leggere, ma lui non si fidava e voleva che leggessi sempre io.
Non capisco perché papà doveva venire proprio qui. Sarà almeno un anno che aspettiamo in fila per entrare e non si fa vivo nessuno ad aprirci la porta. La mamma ha detto che se non arriva il dottore non possiamo entrare perché magari papà è mezzo rincoglionito e gli piglia paura a vederci sfilare come ombre. Ogni tanto chino la testa di lato per sbirciare se si muove qualcosa, macché. S’è fatta sera e il sole ha smontato dal turno di lavoro e ora c’è la luna. Meglio così, a me la luna piace di più, ma le gambe cominciamo a formicolarmi dappertutto.
Avrei preferito andare in un bell’ospedale, sono sicura che anche a papà sarebbe piaciuto di più. Un bell’ospedale candido e silenzioso come quello dove è morta la nonna, coi fiori freschi alla finestra e una luce bianca talmente forte che persino le ombre si andavano a nascondere per non disturbare nessuno. La mamma però ha detto che un posto così non ce lo possiamo permettere, che la nonna prima di morire ha scritto una cosa dove purtroppo i soldi che aveva li ha usati per morire il più comoda possibile e a noi non ce n’è rimasto niente. E allora papà si è dovuto accontentare di un letto alla casa dei matti dove ogni tanto lavora anche il suo dottore.
Finalmente Michele e Simona hanno finito. Li guardo uscire a testa bassa dalla stanza, uno dopo l’altro, col dottore che li accompagna all’uscio e subito richiude la porta alle spalle. Quando entra mamma ormai dietro di me c’è solo una monaca che spazza il corridoio e allora mi arrischio a origliare. Sento che il dottore spiega a mamma dell’impianto che hanno messo in testa a papà, o nelle orecchie, non ho capito. Ha un nome come uno scarafaggio, cochlear, e io inizio a preoccuparmi. Non è che a papà hanno messo degli scarafaggi in testa?
Anche mamma esce e tocca a me. Siccome che occupo poco spazio il dottore rimane in camera con me. Forse ha paura che salti addosso a papà e gli tiri via gli scarafaggi dalle orecchie.
Papà è seduto su di una sedia accanto alla finestra. Pensavo di trovarmelo steso a letto, mezzo rincoglionito come diceva mamma, invece mi guarda appena entro e ha gli stessi occhi di quando leggiamo la sera: occhi che ti ascoltano tutta.
– Papà? – Mi ero preparata tutta una serie di cose belle da dire me a vederlo così mi sono spaventata e non ho spiccicato altro. La cosa che mi ha spaventata di più, comunque, è che papà mi ha risposto.
– Ciao tesoro. – Papà mi sente. Ci sente.
– Cosa fai alla finestra?
– Ascoltavo.
– Cosa? È tutto silenzioso.
Papà mi guarda come quando leggo qualcosa e non scandisco bene con le labbra e lui non ha capito e io allora so che devo ripetere più lentamente.
– Non è silenzioso.
Non capisco. Io non sento niente.
– Ho capito papà! Non ci sei abituato, ecco tutto. Senti. Questo è il “silenzio”.
– Uhm… no, non è il silenzio che conosco io.
Non so che dire. Rimango imbambolata come quando aspettavo in fila. All’improvviso, dal fondo del corridoio una matta attacca ad urlare e papà drizza la testa.
– Ecco. Questo è il silenzio che conosco.
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