L'ombra dei suoni

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Alla fine si svegliò. La stanza era stipata stretta che non ci si stava tutti e dovemmo metterci in fila, entrare uno a uno come fossimo in udienza privata, nel sacro riserbo di un confessionale.

Io ero la quarta dietro Michele, Simona e la mamma. Avrei preferito entrare con lei, ma la stanza era davvero stretta dicevano.

Le settimane precedenti erano state un miscuglio di umori sbilenchi e altalenanti e avevano contribuito a caricare l’attesa di uno spesso strato d’afa che in casa non si respirava più.

Io indossavo il vestito buono della comunione, bianco e trasparente che mamma non se n’era accorta quando aveva comprato la stoffa dalla signora difronte e sotto il sole di Giugno pare che il parroco si era fatto tutto rosso a vedere le mie tettine non ancora formate, e papà se n’era accorto prima di tutti, che lui ascoltava con gli occhi e non si era mai fatto stordire dalle litanie cantilenate dal pulpito.

Ci avevo pensato parecchio a cosa avrei detto per prima cosa a papà una volta entrata nella stanza. Avevo pensato anche a cosa avrebbero detto Michele, Simona e mamma che sarebbero entrati prima di me e non volevo che fosse qualcosa di simile a quello che gli avrebbero potuto dire loro.

Volevo che fosse qualcosa di speciale. All’inizio me l’ero presa parecchio per quel quarto posto: ero sicura che se papà avesse potuto scegliere mi avrebbe fatto entrare per prima, ma mamma diceva che già soffriva abbastanza ad entrare dopo Michele e Simona e che non sarebbe entrata per ultima, fa la brava per favore.

Il corridoio dell’ospedale era bianco sporco e le monache nere che correvano dappertutto sembravano macchie d’unto che si espandevano nell’aria come un brutto male.

Lo so, a sentirmi parlare così non sembro una bambina. Me lo dicevano anche i ragazzini a scuola e pure la maestra, tanto che se la pigliava a male se parlavo così davanti agli altri perché lei a dire il vero parlava uno schifo. Ma voi che cavolo ne sapete di quello che facevamo io e papà? Anche a me sarebbe piaciuto guardare la TV come tutti e rincretinirmi come quei ragazzini bavosi che sgranano gli occhi e fissano le soubrette con la bocca aperta. Cioè forse non mi sarebbe piaciuto quello, ma magari avrei voluto sapere cosa si sussurravano all’orecchio quei due attori prima del bacio appassionato, o anche solo che tempo avrebbe fatto domani secondo quel tizio in giacca e cravatta che muoveva le mani a casaccio e sembrava facesse una danza della pioggia. Va bene lo ammetto: qualche volta sgattaiolavo in camera di Michele quando lui era fuori e accendevo un po’ l’unica TV che c’era in casa. Qualcosina l’ho vista anch’io.

Ma più che altro, io e papà le cose da vedere ce le creavamo noi. Leggevamo tutte le sere, e la domenica tutto il giorno, tanto che la mamma doveva venire a sgridarmi per farmi fare qualcosa di utile in casa. Papà allora sorrideva e mi lasciava andare con una carezza. Ho imparato così tutte queste parole da grandi: leggendo a voce alta tutto quello che papà mi metteva sotto agli occhi. All’inizio ogni tanto leggeva anche lui, o almeno ci provava, ma veniva sempre fuori un suono strano che somigliava a quella volta che ho messo sotto il gatto della signora difronte con la bici. A me comunque non importava e gli chiedevo di leggere, ma lui non si fidava e voleva che leggessi sempre io.



Non capisco perché papà doveva venire proprio qui. Sarà almeno un anno che aspettiamo in fila per entrare e non si fa vivo nessuno ad aprirci la porta. La mamma ha detto che se non arriva il dottore non possiamo entrare perché magari papà è mezzo rincoglionito e gli piglia paura a vederci sfilare come ombre. Ogni tanto chino la testa di lato per sbirciare se si muove qualcosa, macché. S’è fatta sera e il sole ha smontato dal turno di lavoro e ora c’è la luna. Meglio così, a me la luna piace di più, ma le gambe cominciamo a formicolarmi dappertutto.

Avrei preferito andare in un bell’ospedale, sono sicura che anche a papà sarebbe piaciuto di più. Un bell’ospedale candido e silenzioso come quello dove è morta la nonna, coi fiori freschi alla finestra e una luce bianca talmente forte che persino le ombre si andavano a nascondere per non disturbare nessuno. La mamma però ha detto che un posto così non ce lo possiamo permettere, che la nonna prima di morire ha scritto una cosa dove purtroppo i soldi che aveva li ha usati per morire il più comoda possibile e a noi non ce n’è rimasto niente. E allora papà si è dovuto accontentare di un letto alla casa dei matti dove ogni tanto lavora anche il suo dottore.



Finalmente Michele e Simona hanno finito. Li guardo uscire a testa bassa dalla stanza, uno dopo l’altro, col dottore che li accompagna all’uscio e subito richiude la porta alle spalle. Quando entra mamma ormai dietro di me c’è solo una monaca che spazza il corridoio e allora mi arrischio a origliare. Sento che il dottore spiega a mamma dell’impianto che hanno messo in testa a papà, o nelle orecchie, non ho capito. Ha un nome come uno scarafaggio, cochlear, e io inizio a preoccuparmi. Non è che a papà hanno messo degli scarafaggi in testa?

Anche mamma esce e tocca a me. Siccome che occupo poco spazio il dottore rimane in camera con me. Forse ha paura che salti addosso a papà e gli tiri via gli scarafaggi dalle orecchie.

Papà è seduto su di una sedia accanto alla finestra. Pensavo di trovarmelo steso a letto, mezzo rincoglionito come diceva mamma, invece mi guarda appena entro e ha gli stessi occhi di quando leggiamo la sera: occhi che ti ascoltano tutta.

– Papà? – Mi ero preparata tutta una serie di cose belle da dire me a vederlo così mi sono spaventata e non ho spiccicato altro. La cosa che mi ha spaventata di più, comunque, è che papà mi ha risposto.

– Ciao tesoro. – Papà mi sente. Ci sente.

– Cosa fai alla finestra?

– Ascoltavo.

– Cosa? È tutto silenzioso.

Papà mi guarda come quando leggo qualcosa e non scandisco bene con le labbra e lui non ha capito e io allora so che devo ripetere più lentamente.

– Non è silenzioso.

Non capisco. Io non sento niente.

– Ho capito papà! Non ci sei abituato, ecco tutto. Senti. Questo è il “silenzio”.

– Uhm… no, non è il silenzio che conosco io.

Non so che dire. Rimango imbambolata come quando aspettavo in fila. All’improvviso, dal fondo del corridoio una matta attacca ad urlare e papà drizza la testa.

– Ecco. Questo è il silenzio che conosco.

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Re: L'ombra dei suoni

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Eccomi a commentare. Devo riconoscere che non è il tipo di narrativa che mi piace leggere, però devo anche dire che è scritto molto bene. È molto ben centrato e molto ben focalizzato sul discorso dell'ascolto del silenzio, e questo è molto importante, per quanto mi riguarda. Sarebbe bene, però, affiancarlo con altri temi: per poter capire a cosa mi riferisco, consiglio anche di ascoltare una delle tante fantasie composte dai grandi compositori di musica colta: ad es., consiglio la Fantasia op. 17 di Schumann. Detto questo, però, non credo che il silenzio si possa 'conoscere'! Più che altro, penso che sia più corretto dire che lo si sperimenta!! Il silenzio, potrebbe anche essere visto come il silenzio interiore, che magari, segue ad un'esperienza di Notte oscura (come direbbe san Giovanni della Croce, grande mistico spagnolo), ovvero un'esperienza tipica ad es. del tempo di Avvento, uno dei tempi forti dell'anno liturgico, e del tempo di Natale.

Re: L'ombra dei suoni

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Pazzesco, non ti commenterò @Ton perché mi hai fatto piangere, ho le lacrime che non vogliono smettere e qui va tutto benissimo.
C'è solo uno stupido ma che hai scritto male.
Ton ha scritto: cose belle da dire me a vederlo così mi sono spaventata
Che dolce racconto, che bella figlia, che bello il papà, che bello tutto... Bravissimo Ton, mi sei piaciuto moltissimo. Grazie.
Nessun timore, nessun favore, nessun rancore.

Re: L'ombra dei suoni

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@Ton sei stato bravo a gestire la voce di una ragazzina (anche se dici che non lo è, "parlavo così anche a scuola" ecc...ecc...), del tuo racconto colpisce questo personaggio, l'unica persona della famiglia ad avere un contatto vero con il malato (le letture). Un rapporto speciale padre figlia. Mi pare sia improprio l'uso del verbo "fidarsi", intendevi dire che il padre non era capace a leggere, giusto?
Una storia delicata che si conclude con la scoperta di un diverso tipo di silenzio, qui rappresentato dall'urlo della matta: l'incompreslone. L'uomo è abitutato a questo tipo di silenzio, dice infatti che è l'unico che conosce. Urlare per farsi sentire mentre nesssuno ti ascolta. Molto bello come messaggio. 
Ho avuto solo qualche difficoltà a seguire l'immagine dell'incipit, 
Ton ha scritto: Alla fine si svegliò. La stanza era stipata stretta che non ci si stava tutti e dovemmo metterci in fila, entrare uno a uno come fossimo in udienza privata, nel sacro riserbo di un confessionale.
Ti suggerisco di eliminare la parola stipata, che rimanda all'idea di già affollata, e riformulare la frase per migliorare l'immagine.  

Ciao e alla prossima.

Re: L'ombra dei suoni

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Ciao, @Ton, ho letto il tuo racconto. Provo a darti la mia opinione attingendo alle mie personali esperienze da autrice e editor.

Il racconto presenta diversi punti di forza: la voce narrante della ragazzina è ben resa, l'afflato narrativo è chiaro e forte. Hai ben costruito la tensione fino alla fine per due motivi: in primis, non hai rivelato subito che il luogo in cui si trovano i personaggi è un ospedale, perciò il lettore ha avuto modo di partecipare alla narrazione colmando i vuoti con la curiosità. Inoltre, nel momento in cui hai rivelato che si trattava di un ospedale (peggio, un manicomio) hai parlato della morte della nonna, perciò il lettore ha iniziato a temere che la processione del parentado fosse per dare l'ultimo saluto al padre della protagonista ignara. Questa tecnica narrativa, unita al fatto che avevi già costruito e mostrato immagini emotive che legavano padre e figlia, ti ha permesso di generare una naturale empatia nel lettore nei confronti della ragazzina che, forse, sta per ricevere una bruttissima sorpresa.

Più che veri e propri aspetti di debolezza, rilevo nel testo alcuni dettagli che potresti potenziare o, a seconda dell'esigenza, correggere.

Potenziamenti:

- MESSAGGIO

Poiché, come ha giustamente intuito e chiarito @Adel J. Pellitteri, che ringrazio, il messaggio del racconto, superbamente espresso nel finale, è:
Adel J. Pellitteri ha scritto: Urlare per farsi sentire mentre nessuno ti ascolta.
ti suggerirei di inserire a ritroso non solo i gorgogli del padre mentre tenta di leggere, ma anche il fatto che si accompagnassero a uno sguardo intenso e supplichevole (o vedrai tu come descriverlo) da parte del padre, uno sguardo che la figlia non poteva decifrare appieno. Inserirei, in altre parole, qualcosa  - di accennato, nulla di didascalico - che rafforzi il tema dell'incomunicabilità e dello stato d'impotenza del padre, che altrimenti lungo il racconto non sembra vivere in modo così drammatico la condizione di sordità.
In tale ottica, anche nel dialogo finale ribadirei che la voce del padre ha elementi di stranezza e che solo lei riesce, ormai per abitudine, a decifrare ciò che dice, altrimenti sembra che, di colpo, parli senza problemi. E' vero, si dice che la ragazza resta stupita del fatto di aver ricevuto una risposta da parte del padre, ma sembra che la meraviglia provenga dal fatto di aver ricevuto una risposta, non dal modo in cui il padre si esprime; inoltre, lui la stava fissando: da cosa la protagonista deduce che ci sente? L'uomo non era voltato di spalle verso la finestra, ha notato il movimento della porta che si apriva e si è girato a guardarla. Il padre prima come parlava? E perché di colpo sembra parlare benissimo? Deriva dall'impianto?
Il messaggio finale, potente e necessario, rischia così di venire un po' meno, dato che un uomo che si faceva comprendere dalla famiglia (senza voler minimizzare la condizione di sordità, lungi da me: parlo solo di ciò che, narrativamente, si trova nel testo a disposizione del lettore) non viveva o non sembrava vivere uno stato d'impotenza e isolamento così paralizzante e disperato da venire rappresentato dall'urlo finale della pazza che nessuno ascolta o ode.

- PERSONAGGI

La protagonista è ben delineata, della madre qualcosina si sa. Il fratello e la sorella sono presenti solo come "ingombro" prima che giunga il turno della protagonista. Il mio consiglio è di assegnare loro un piccolo dettaglio, in accordo con l'afflato narrativo di cui hai permeato il racconto, che possa renderli riconoscibili. Michele potrebbe avere le unghie sporche perché ha lavorato in fabbrica o nei campi (ad esempio); magari ha potuto correre all'ospedale solo una volta finito il turno, perché alla paga non si poteva rinunciare. Per Simona potresti inserire un altro piccolo dettaglio, così da rendere identificabile questa famiglia (potresti prendere a esempio i personaggi del romanzo "Furore" di J. Steinbeck).

- QUESTIONI LOGISTICHE

All'inizio si parla di una stanza stretta, poi di corridoi dell'ospedale e solo dopo della camera del padre. Cos'è la stanza stretta inziale? Non è chiarissimo neanche a posteriori, una volta compreso che si trovano in un ospedale. Sottolineerei qualcosa di relativo alla sala d'attesa, magari un cartello con scritto proprio "SALA D'ATTESA" che la ragazzina potrebbe commentare con un suo pensiero.

- MULTISENSORIALITA'

Nel manicomio sarebbe bene se inserissi almeno un odore, qualcosa che identifichi sensorialmente il luogo. Noi percepiamo la realtà grazie al bombardamento simultaneo da parte dei nostri cinque sensi: non è indispensabile menzionarli tutti, ma un piccolo accenno può aiutare a rendere una scena ancora più tridimensionale.

Correzioni:

- VOCE NARRANTE, ORTOGRAFIA E PUNTEGGIATURA

Come detto, hai reso in modo efficace la voce della protagonista e la sua età. Buona la motivazione narrativa che hai dato per il fatto che conosca più termini dei suoi coetanei: sei riuscito a renderlo un elemento che funziona perché è intimamente connesso all'argomento e al tema centrale del libro, ossia la sordità del padre.
Bisogna però dire che, poiché la protagonista è più acculturata dei coetanei, e poiché quello che hai scritto non è il suo diario, dove lei avrebbe potuto riportare degli errori ortografici o di punteggiatura per amplificare l'estrazione sociale povera della famiglia, nonostante le letture fatte, alcune imperfezioni nel testo sarebbe opportuno correggerle. Ad esempio, "difronte", un errore ortografico comune in luogo della forma corretta, "di fronte"; "fa" al posto della forma corretta in caso di imperativo, "fa'"; e in generale, qui e là, l'uso della punteggiatura, soprattutto con i vocativi (ad es., "Ciao tesoro" invece di "Ciao, tesoro").


Spero di averti dato qualche spunto di riflessione costruttivo e di aver espresso il mio pensiero in modo chiaro. Ancora complimenti per il racconto. Buona giornata.
Alan Thomas Bassi
Editor e autore
https://www.rifiutiletterari.it

Ovunque tu sia, se ti senti perso, invisibile in un universo editoriale troppo vasto, sappi che non sei solo. La soluzione per scrivere la versione migliore del tuo romanzo c’è, e io posso aiutarti a trovarla.
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