Il kintsugi e l'arte del ricamo
Posted: Sat Jan 02, 2021 1:50 pm
Le cicatrici hanno l’insolito dono di ricordarci il passato.
Anche a distanza di decenni, magari in una città diversa, con un altro clima, senza il trambusto della metropoli o privi del silenzio carico di umori della campagna dei nonni, uno sguardo subitaneo al piccolo cartoccio di pelle zigrinata e smorta straccia il muro dei veli che divide l’Oggi dallo Ieri, rimescola le carte con abilità, e tutti i tempi si ritrovano declinati al presente.
Ricordo quello che zia Sachi mi disse quando mi portarono di corsa all’ospedale, con la mano sinistra che penzolava dal moncherino del polso, l’osso pisiforme bianco e polposo in bella vista:
– Tranquilla Rei. Ti rimarrà solo una cicatrice, e un giorno ti servirà. Le cicatrici sono come un album di ricordi, sai?
Zia Sachi viveva da sola in un monolocale che dava sul porto, nella prefettura di Kōchi. Quell’anno mia madre mi aveva spedita sull’isola per respirare un po’ di aria pulita, e credo anche per farle compagnia, dato che era rimasta vedova da poco. Lo zio, che non avevo mai conosciuto, da quando lui e zia Sachi erano andati a vivere a Tosashimizu, era morto in primavera a causa di quei temporali imprevisti che generano voragini nel mare. In una di queste era caduto con tutta la barca e il resto dei pescatori.
All’inizio non avevo voglia di venire. Dovevo ancora prepararmi per l’ultimo esame prima dell’estate, e avevo in mente di iniziare il praticantato alla Tokyo Symphony Orchestra, o nella peggiore delle ipotesi alla Philharmonic.
Sapevo di poter contare sull’ascendente che il nonno ha su mia madre, e sul fatto che lui stesso non sarebbe stato d’accordo a farmi intraprendere un viaggio inutile, una perdita di tempo che avrebbe potuto significare un grave ritardo per la mia carriera nel violino di professione. Senza contare che, per mio nonno, mia madre era l’unica figlia che avesse ancora in vita.
La settimana dopo, però, lei si sedette all’angolo del mio futon, e mentre fantasticavo sulla possibilità di un futuro da primo violino, mi chiese nuovamente di partire.
Lo fece in un modo inusuale, lei che era così abituata a dare ordini con il piglio sicuro e il tono tagliente di chi è nato con la bacchetta in mano e si aspetta, sa già, che a un suo minimo cenno gli strumenti dell’orchestra attaccheranno a suonare, o resteranno muti, castrati. Me lo chiese sussurrando, dicendomi che era arrivata l’ora per me di conoscere zia Sachi e che, forse, la mia stessa vita, la vita che progettavo da tempo e per la quale avevo sacrificato tutto, dipendeva dal buon esito di quell’incontro.
Non ero sicura di cosa volesse dire, ma la vista di mia madre in quello stato supplichevole bastò, se non a convincermi, per lo meno a farmi mettere da parte la voglia di ribattere. Volevo comunque saperne di più, perché se anche conoscevo mia madre come una persona abituata a dire quello che pensava e che non adoperava bugie o sotterfugi, l’idea che una vacanza sull’isola con mia zia potesse avere un qualsiasi peso sul mio futuro mi sembrava assurda. Una persona che, in fondo, neanche conoscevo e con la quale non avevo rapporti da quando ero una bambina.
– Non capisco in che modo possa avere alcun valore. È solo una vacanza.
Mia madre si asciugò una lacrima che s’era suicidata gettandosi dalla guancia, e mi guardò senza rispondere.
Il giorno dopo partii per Tosashimizu.
– Zia Sachi, posso chiederti come mai non sei più tornata a Tokyo?
Eravamo andate a passeggiare sul molo delle tonnare, bastioni di cemento armato e ferro battuto che sembravano escludere la luce estiva dalle ragioni del mare: perché il mare è solo inverno e oscurità, dicevano, e la luce inganna. Era un paesaggio diverso da quello a cui ero abituata io, anche se si sarebbe potuto dire che gli alti grattacieli di Tokyo ragionassero allo stesso modo.
Nell’ultima settimana avevo trascorso le mie giornate in maniera abbastanza monotona. Mi ero portata dietro il violino d’esercizio per poter completare i passaggi di allenamento propedeutici all’esame, l’overture del Guglielmo Tell di Rossini in solo per violino maestro. Avevo aiutato zia Sachi a curare il piccolo giardino zen su cui ci si affacciava dalla parete ovest attraverso un pannello scorrevole in carta di riso e che, più che un giardino, somigliava ad una zolla di terra incolta con qualche masso posato qua e là, sporco di muffa salmastra, che zia Sachi aveva probabilmente requisito al mare dai margini del porto.
La mattina presto andavo a fare una passeggiata verso l’interno per raggiungere la biblioteca privata del signor Okena, un vecchio appassionato di musica tanto quanto di distillati a buon mercato. Ascoltavo registrazioni su nastro di Yoko Watanabe nella sua interpretazione, vita natural durante, della Madame Butterfly, finché non s’era decisa, anche lei come la protagonista che ogni sera incarnava sul palco, a liberarsi di quel ruolo il cui talento nella recitazione le impediva di poter esplorare altre forme interpretative o altre opere, e si era uccisa con il coltello da seppuku del padre.
La sera aiutavo zia Sachi a fare il giro di raccolta dei rammendi nelle case del vicinato. Ai tempi in cui abitava ancora a Tokyo, zia Sachi era stata una sarta provetta, lanciata verso il successo con un marchio d’alta moda che il nonno aveva provveduto a finanziare in suo nome. Poi aveva incontrato lo zio, e la moda aveva perso tutto il suo fascino. Il nonno, nel frattempo, aveva perso tutti i soldi investiti. E doveva aver deciso che, persi i soldi, persa la figlia. Zia Sachi si occupava di rammendare i panni dei pescatori, dei loro figli o degli anziani, che non erano in grado di rattopparseli da soli e non potevano permettersi di gettare via un paio di pantaloni buoni solo perché il mare s’era mangiato il cavallo.
In una di quelle sere, feci a zia Sachi la domanda che mi portavo dietro da un po’, assieme alla cesta di bambù con gli stracci dei pescatori dentro.
– Perché a Tokyo non c’era più niente da ricucire, Rei.
La notte scorsa non riuscivo a prendere sonno. L’aria del porto, così mescolata agli scarichi delle tonnare e ai miasmi dei vecchi pescatori, era densa e liquida quanto il whisky ohishi che bevevano durante le lunghe traversate in mare aperto. Sentivo quasi l’odore dell’alcol prendere forma come quei demoni del folklore che esistono solo fintanto che non li si scovi con la coda dell’occhio, e poi si smaterializzano nell’aria.
Uji no hashihime. La donna del ponte, uno dei miei preferiti da bambina.
Mi alzai dal futon pensando di andare ad affacciarmi sul piccolo giardino zen che, protetto almeno dalle pareti in carta di riso, poteva vivere e respirare come un polmone naturale che filtrava il mare, ne disperdeva la salubrità, e al massimo se ne scorgeva qualche scoria sul muschio dei sassi.
Vidi avvicinandomi che la porta era già aperta, e non me n’ero accorta prima perché mancava contraria. Sembrava quasi che quel piccolo giardino fosse un tempio ritagliato via dal mondo, che esistesse nel Qui, Ora e Adesso, ma allo stesso tempo non fosse presente. Come un muro di ombre che pur trattenendo quel po’ di luce che gli permette di materializzarsi, non ne ricava abbastanza forza vitale da potersi staccare dalla parete, varcare la terza dimensione, e prendere corpo.
Mi avvicinai lentamente tentando di fare il meno rumore possibile, ma capii poi che sarebbe stato inutile quanto tentare di camminare strisciando i piedi sull’acqua e aspettarsi di non affondare.
Zia Sachi se ne stava inginocchiata al centro del giardino, davanti a un piccolo masso scuro che non avevo mai notato prima. Ero indecisa se avvicinarmi ulteriormente, perché dal modo in cui osservato il suo corpo immoto, la nuca abbassata e il collo teso in uno sforzo inumano, capivo che doveva essere preda di una concentrazione intensa, di quelle che capitano anche a me quando mi dedico ad un passaggio particolarmente difficoltoso, e allo stesso tempo mi trascinano in un luogo di assenza, in uno stato di calma apparente in cui ogni muscolo è teso al suo estremo ma è al contempo misurato come non mai, i miei occhi non vedono che la musica formarsi davanti a me e librarsi nel vuoto di una stanza che già non esiste più, e le mie orecchie non sentono che le note non ancora pronunciate dal mio violino. Così mi sembrava zia Sachi davanti quel masso nero, come sospesa nel tempo del suo stato meditativo, e in realtà non fosse presente in quel giardino più di quanto non vi fosse presente una tonnara.
Varcai la porta di riso aspettandomi quasi di sentire l’aria addensarmisi attorno, pensando che sarebbe avvenuto qualcosa di speciale, uno scintillio, uno scompenso nella carica elettrostatica della notte che avrebbe prodotto una mistica luminescenza o uno scoppio inatteso. Posai i piedi scalzi sull’erba fredda e tagliente, e non accadde nulla.
Ripresi i sensi, per così dire, e con loro un po’ di coraggio, e mi avvicinai a zia Sachi.
Da sopra le sue spalle, potevo osservare meglio quello che mi era sembrato un masso informe, e che in realtà era una piccola statuina di porfido nero, una pietra lavica che emanava odore di zolfo e non c’entrava niente con le pietre marine che mi ero abituata a vedere passeggiando sul porto. Aveva la forma di un piccolo buddha, o forse solo di una qualche specie di monaco, immobile nella posizione del loto, con cinque piccoli corni che gli sbucavano dalla nuca calva e porosa, e sulla pancia, tra le pieghe del kesa, un minuscolo rubinetto d’oro.
Il volto di zia Sachi era quello del terrore. Non per se stessa, ma per chiunque avesse osato penetrare lo spazio sacro compreso idealmente tra lei e la statuetta. Quando si è terrorizzati a tal punto da volersi nascondere da se stessi, e in un certo senso si abbandona il proprio corpo e ci si rintana in qualche zona profonda della ghiandola pineale, o sotto una costola, dietro un polmone, si mostra in superficie uno sguardo assente, come di chi stia tentando di contare gli atomi nell’aria circostante. E quello sguardo terrorizza più di un volto arcigno o di un rabbioso digrignare, perché si percepisce che è scaturito da un ordine superiore e involontario su cui chi lo produce non ha alcun controllo.
La mano sinistra di zia Sachi era tesa, spossata dallo sforzo di protendersi verso il piccolo rubinetto che però non raggiungeva mai, come se ogni qualvolta il corpo di zia Sachi tentasse un ultimo assalto per afferrarlo, la zia Sachi che s’era rintanata da qualche parte di dentro sbucasse fuori gridando a squarciagola in un ultimo disperato tentativo di impedirne l’apertura.
Nella mano destra, zia Sachi teneva un pugnale da seppuku rivolto verso il proprio stomaco.
Alla vista del pugnale, l’incantesimo che mi aveva tenuta incollata ai margini di quello spazio sacro scoppiò in mille rivoli di fumo, e mi gettai su zia Sachi nel tentativo di strapparglielo di mano. In un moto continuo, come quelle figure dei balletti classici che si uniscono, mescolano le proprie membra e poi si disfano nell’arco di un crescendo, zia Sachi si riebbe e iniziò tra di noi una danza dell’antimorte.
Nella colluttazione, i nervi ormai sfiniti di zia Sachi proiettarono il pugnale verso la mia mano sinistra, e i tendini che legavano a doppio filo le mie dita a quel polso che così tanto avevo allenato, si aprirono come un mazzo di carte.
La statua nera si ricoprì del mio sangue e feci appena in tempo a cogliere un leggero luccichio che l’asfissia dell’aria aveva messo in risalto nel rivolo di globuli rossi a contatto con l’oro della fontanella. Poi svenni.
Dopo l’intervento, restai qualche giorno in ospedale. Poi i medici decisero che sarei potuta rientrare a casa e iniziare così il mio periodo di adeguamento a quella nuova vita offesa. Non ne feci una colpa a zia Sachi, che s’era dimostrata profondamente dispiaciuta per l’incidente ed era lei stessa sotto shock, tanto da non ricordarsi che pochi frammenti di quanto era accaduto.
La mia vita di violinista era finita, e pensai quasi sorridendo alla profezia che mia madre aveva sussurrato quella sera per convincermi a partire. In un modo o nell’altro, la mia vita sarebbe stata decisa dalla vacanza con zia Sachi, e direi che ormai il verdetto era stato pronunciato: la mia mano sinistra era volata via assieme alle note che non avrei mai più suonato.
Avrei dovuto avvisarla, e avvisare il nonno, che sarebbe stato deluso almeno quanto me dal mio futuro svanito come lo strappo di un tessuto dopo un rammendo.
Il dolore al moncherino si acutizzava durante le ore di riposo, in cui la mia mente prima abituata a restare sotto tensione, non aveva ora di che sfamarsi ed era libera di concentrare tutte le sue percezioni sulla periferica ora mancante al mio sistema nervoso.
Iniziai a dormire sempre più spesso durante il giorno, sperando di distrarmi dal dolore. Mi vedevo in prima fila nella sezione degli archi all’interno del golfo mistico, quella fossa invisibile agli occhi della platea ma presente e vivida ai loro timpani, che parlavo a loro attraverso il vibrato delle corde e il tocco deciso ma etereo del mio archetto.
Mi risvegliai da uno di questi sogni in preda a un’agitazione nevrotica. Nel sogno, al posto dell’archetto, tentavo di adoperare il moncherino. Lo facevo scivolare sulle corde ma era tozzo, e le corde vibravano sorde al tocco della mia pelle.
Piansi.
Zia Sachi rientrò dal giro di raccolta e mi vide raggomitolata sul divano, col braccio nascosto tra i cuscini viola, come una marionetta in attesa dietro il proscenio, nascosta alla vista dal morbido sipario.
Ripensai a quella sera, e avevo così tante domande che, sebbene non vedessi l’ora di liberarmene, la lingua s’impantanò e rimasi in silenzio.
– Tesoro. Rei. Non sai quanto mi dispiace per quello che è successo. Non avrei mai voluto, credimi.
– Ti credo, zia Sachi. Ti credo. È solo che… non so.
– Parlami, bambina.
– Non capisco. Cosa stavi facendo? Perché avevi il pugnale? Perché te ne stavi inginocchiata in giardino? Cos’era quella statua?
Zia Sachi prese un fazzoletto e mi asciugò le lacrime.
– Aspetta qui – mi disse.
La vidi rispuntare dall’angolo della parete con in mano quella pietra porosa e allo stesso tempo levigata, come uno straordinario oggetto dalle proprietà quantiche che È e anche Non È, e si riesce a percepirne entrambi gli stati, immoti eppure furibondi nel loro infinito sovrapporsi, turbinare l’uno sull’altro, e mostrarsi ai miei sensi come un’esplosione indecifrabile di presenza.
– Sono anni che non apro la fontana, sai?
– Cosa significa? Non capisco.
– La trovai un giorno, da ragazzina. L’ho usato tante volte, all’epoca. Mio padre non ne ha mai sospettato l’esistenza, e come avrebbe potuto in fondo. Vuoi provare?
Non volevo. Non ne ero sicura. Non capivo.
– Ma cosa… fa? – Mi sembrava impossibile che facesse qualsiasi cosa.
– Porta indietro il tempo. Oh, non guardarmi così. Come fossi una pazza. Lo fa sul serio… a modo suo.
Andai a dormire, o almeno ci provai, ma non riuscii a chiudere occhio. Il giorno dopo, mentre zia Sachi ancora riposava, andai nel salotto dove aveva lasciato la statua. Mi resi conto che, in qualche modo inspiegabile, lei mi conosceva. Che aveva imparato a conoscermi da quando mi ero trasferita lì per le vacanze, e che in qualche modo fossimo ormai legate l’una all’altra, come una cucitura a maglie strette.
Non so cosa mi aspettassi. Quella mattina aprii il rubinetto, ma invece dell’acqua uscì… niente. Il rubinetto si apriva e si richiudeva, e ovviamente dalla pietra scura e porosa in cui era incastonato non sgorgava nulla.
Delusa, mi alzai meccanicamente per riporre quella inutile statuetta in giardino. La mia mano destra era salda sul vestito del monaco.
La mia mano sinistra, sulla nuca calva. Sentivo ogni fibra della pietra a contatto coi polpastrelli e la mia carne fresca, rinnovata.
All’altezza del polso, una sottile cicatrice dorata ricuciva assieme le due estremità.
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Anche a distanza di decenni, magari in una città diversa, con un altro clima, senza il trambusto della metropoli o privi del silenzio carico di umori della campagna dei nonni, uno sguardo subitaneo al piccolo cartoccio di pelle zigrinata e smorta straccia il muro dei veli che divide l’Oggi dallo Ieri, rimescola le carte con abilità, e tutti i tempi si ritrovano declinati al presente.
Ricordo quello che zia Sachi mi disse quando mi portarono di corsa all’ospedale, con la mano sinistra che penzolava dal moncherino del polso, l’osso pisiforme bianco e polposo in bella vista:
– Tranquilla Rei. Ti rimarrà solo una cicatrice, e un giorno ti servirà. Le cicatrici sono come un album di ricordi, sai?
Zia Sachi viveva da sola in un monolocale che dava sul porto, nella prefettura di Kōchi. Quell’anno mia madre mi aveva spedita sull’isola per respirare un po’ di aria pulita, e credo anche per farle compagnia, dato che era rimasta vedova da poco. Lo zio, che non avevo mai conosciuto, da quando lui e zia Sachi erano andati a vivere a Tosashimizu, era morto in primavera a causa di quei temporali imprevisti che generano voragini nel mare. In una di queste era caduto con tutta la barca e il resto dei pescatori.
All’inizio non avevo voglia di venire. Dovevo ancora prepararmi per l’ultimo esame prima dell’estate, e avevo in mente di iniziare il praticantato alla Tokyo Symphony Orchestra, o nella peggiore delle ipotesi alla Philharmonic.
Sapevo di poter contare sull’ascendente che il nonno ha su mia madre, e sul fatto che lui stesso non sarebbe stato d’accordo a farmi intraprendere un viaggio inutile, una perdita di tempo che avrebbe potuto significare un grave ritardo per la mia carriera nel violino di professione. Senza contare che, per mio nonno, mia madre era l’unica figlia che avesse ancora in vita.
La settimana dopo, però, lei si sedette all’angolo del mio futon, e mentre fantasticavo sulla possibilità di un futuro da primo violino, mi chiese nuovamente di partire.
Lo fece in un modo inusuale, lei che era così abituata a dare ordini con il piglio sicuro e il tono tagliente di chi è nato con la bacchetta in mano e si aspetta, sa già, che a un suo minimo cenno gli strumenti dell’orchestra attaccheranno a suonare, o resteranno muti, castrati. Me lo chiese sussurrando, dicendomi che era arrivata l’ora per me di conoscere zia Sachi e che, forse, la mia stessa vita, la vita che progettavo da tempo e per la quale avevo sacrificato tutto, dipendeva dal buon esito di quell’incontro.
Non ero sicura di cosa volesse dire, ma la vista di mia madre in quello stato supplichevole bastò, se non a convincermi, per lo meno a farmi mettere da parte la voglia di ribattere. Volevo comunque saperne di più, perché se anche conoscevo mia madre come una persona abituata a dire quello che pensava e che non adoperava bugie o sotterfugi, l’idea che una vacanza sull’isola con mia zia potesse avere un qualsiasi peso sul mio futuro mi sembrava assurda. Una persona che, in fondo, neanche conoscevo e con la quale non avevo rapporti da quando ero una bambina.
– Non capisco in che modo possa avere alcun valore. È solo una vacanza.
Mia madre si asciugò una lacrima che s’era suicidata gettandosi dalla guancia, e mi guardò senza rispondere.
Il giorno dopo partii per Tosashimizu.
– Zia Sachi, posso chiederti come mai non sei più tornata a Tokyo?
Eravamo andate a passeggiare sul molo delle tonnare, bastioni di cemento armato e ferro battuto che sembravano escludere la luce estiva dalle ragioni del mare: perché il mare è solo inverno e oscurità, dicevano, e la luce inganna. Era un paesaggio diverso da quello a cui ero abituata io, anche se si sarebbe potuto dire che gli alti grattacieli di Tokyo ragionassero allo stesso modo.
Nell’ultima settimana avevo trascorso le mie giornate in maniera abbastanza monotona. Mi ero portata dietro il violino d’esercizio per poter completare i passaggi di allenamento propedeutici all’esame, l’overture del Guglielmo Tell di Rossini in solo per violino maestro. Avevo aiutato zia Sachi a curare il piccolo giardino zen su cui ci si affacciava dalla parete ovest attraverso un pannello scorrevole in carta di riso e che, più che un giardino, somigliava ad una zolla di terra incolta con qualche masso posato qua e là, sporco di muffa salmastra, che zia Sachi aveva probabilmente requisito al mare dai margini del porto.
La mattina presto andavo a fare una passeggiata verso l’interno per raggiungere la biblioteca privata del signor Okena, un vecchio appassionato di musica tanto quanto di distillati a buon mercato. Ascoltavo registrazioni su nastro di Yoko Watanabe nella sua interpretazione, vita natural durante, della Madame Butterfly, finché non s’era decisa, anche lei come la protagonista che ogni sera incarnava sul palco, a liberarsi di quel ruolo il cui talento nella recitazione le impediva di poter esplorare altre forme interpretative o altre opere, e si era uccisa con il coltello da seppuku del padre.
La sera aiutavo zia Sachi a fare il giro di raccolta dei rammendi nelle case del vicinato. Ai tempi in cui abitava ancora a Tokyo, zia Sachi era stata una sarta provetta, lanciata verso il successo con un marchio d’alta moda che il nonno aveva provveduto a finanziare in suo nome. Poi aveva incontrato lo zio, e la moda aveva perso tutto il suo fascino. Il nonno, nel frattempo, aveva perso tutti i soldi investiti. E doveva aver deciso che, persi i soldi, persa la figlia. Zia Sachi si occupava di rammendare i panni dei pescatori, dei loro figli o degli anziani, che non erano in grado di rattopparseli da soli e non potevano permettersi di gettare via un paio di pantaloni buoni solo perché il mare s’era mangiato il cavallo.
In una di quelle sere, feci a zia Sachi la domanda che mi portavo dietro da un po’, assieme alla cesta di bambù con gli stracci dei pescatori dentro.
– Perché a Tokyo non c’era più niente da ricucire, Rei.
La notte scorsa non riuscivo a prendere sonno. L’aria del porto, così mescolata agli scarichi delle tonnare e ai miasmi dei vecchi pescatori, era densa e liquida quanto il whisky ohishi che bevevano durante le lunghe traversate in mare aperto. Sentivo quasi l’odore dell’alcol prendere forma come quei demoni del folklore che esistono solo fintanto che non li si scovi con la coda dell’occhio, e poi si smaterializzano nell’aria.
Uji no hashihime. La donna del ponte, uno dei miei preferiti da bambina.
Mi alzai dal futon pensando di andare ad affacciarmi sul piccolo giardino zen che, protetto almeno dalle pareti in carta di riso, poteva vivere e respirare come un polmone naturale che filtrava il mare, ne disperdeva la salubrità, e al massimo se ne scorgeva qualche scoria sul muschio dei sassi.
Vidi avvicinandomi che la porta era già aperta, e non me n’ero accorta prima perché mancava contraria. Sembrava quasi che quel piccolo giardino fosse un tempio ritagliato via dal mondo, che esistesse nel Qui, Ora e Adesso, ma allo stesso tempo non fosse presente. Come un muro di ombre che pur trattenendo quel po’ di luce che gli permette di materializzarsi, non ne ricava abbastanza forza vitale da potersi staccare dalla parete, varcare la terza dimensione, e prendere corpo.
Mi avvicinai lentamente tentando di fare il meno rumore possibile, ma capii poi che sarebbe stato inutile quanto tentare di camminare strisciando i piedi sull’acqua e aspettarsi di non affondare.
Zia Sachi se ne stava inginocchiata al centro del giardino, davanti a un piccolo masso scuro che non avevo mai notato prima. Ero indecisa se avvicinarmi ulteriormente, perché dal modo in cui osservato il suo corpo immoto, la nuca abbassata e il collo teso in uno sforzo inumano, capivo che doveva essere preda di una concentrazione intensa, di quelle che capitano anche a me quando mi dedico ad un passaggio particolarmente difficoltoso, e allo stesso tempo mi trascinano in un luogo di assenza, in uno stato di calma apparente in cui ogni muscolo è teso al suo estremo ma è al contempo misurato come non mai, i miei occhi non vedono che la musica formarsi davanti a me e librarsi nel vuoto di una stanza che già non esiste più, e le mie orecchie non sentono che le note non ancora pronunciate dal mio violino. Così mi sembrava zia Sachi davanti quel masso nero, come sospesa nel tempo del suo stato meditativo, e in realtà non fosse presente in quel giardino più di quanto non vi fosse presente una tonnara.
Varcai la porta di riso aspettandomi quasi di sentire l’aria addensarmisi attorno, pensando che sarebbe avvenuto qualcosa di speciale, uno scintillio, uno scompenso nella carica elettrostatica della notte che avrebbe prodotto una mistica luminescenza o uno scoppio inatteso. Posai i piedi scalzi sull’erba fredda e tagliente, e non accadde nulla.
Ripresi i sensi, per così dire, e con loro un po’ di coraggio, e mi avvicinai a zia Sachi.
Da sopra le sue spalle, potevo osservare meglio quello che mi era sembrato un masso informe, e che in realtà era una piccola statuina di porfido nero, una pietra lavica che emanava odore di zolfo e non c’entrava niente con le pietre marine che mi ero abituata a vedere passeggiando sul porto. Aveva la forma di un piccolo buddha, o forse solo di una qualche specie di monaco, immobile nella posizione del loto, con cinque piccoli corni che gli sbucavano dalla nuca calva e porosa, e sulla pancia, tra le pieghe del kesa, un minuscolo rubinetto d’oro.
Il volto di zia Sachi era quello del terrore. Non per se stessa, ma per chiunque avesse osato penetrare lo spazio sacro compreso idealmente tra lei e la statuetta. Quando si è terrorizzati a tal punto da volersi nascondere da se stessi, e in un certo senso si abbandona il proprio corpo e ci si rintana in qualche zona profonda della ghiandola pineale, o sotto una costola, dietro un polmone, si mostra in superficie uno sguardo assente, come di chi stia tentando di contare gli atomi nell’aria circostante. E quello sguardo terrorizza più di un volto arcigno o di un rabbioso digrignare, perché si percepisce che è scaturito da un ordine superiore e involontario su cui chi lo produce non ha alcun controllo.
La mano sinistra di zia Sachi era tesa, spossata dallo sforzo di protendersi verso il piccolo rubinetto che però non raggiungeva mai, come se ogni qualvolta il corpo di zia Sachi tentasse un ultimo assalto per afferrarlo, la zia Sachi che s’era rintanata da qualche parte di dentro sbucasse fuori gridando a squarciagola in un ultimo disperato tentativo di impedirne l’apertura.
Nella mano destra, zia Sachi teneva un pugnale da seppuku rivolto verso il proprio stomaco.
Alla vista del pugnale, l’incantesimo che mi aveva tenuta incollata ai margini di quello spazio sacro scoppiò in mille rivoli di fumo, e mi gettai su zia Sachi nel tentativo di strapparglielo di mano. In un moto continuo, come quelle figure dei balletti classici che si uniscono, mescolano le proprie membra e poi si disfano nell’arco di un crescendo, zia Sachi si riebbe e iniziò tra di noi una danza dell’antimorte.
Nella colluttazione, i nervi ormai sfiniti di zia Sachi proiettarono il pugnale verso la mia mano sinistra, e i tendini che legavano a doppio filo le mie dita a quel polso che così tanto avevo allenato, si aprirono come un mazzo di carte.
La statua nera si ricoprì del mio sangue e feci appena in tempo a cogliere un leggero luccichio che l’asfissia dell’aria aveva messo in risalto nel rivolo di globuli rossi a contatto con l’oro della fontanella. Poi svenni.
Dopo l’intervento, restai qualche giorno in ospedale. Poi i medici decisero che sarei potuta rientrare a casa e iniziare così il mio periodo di adeguamento a quella nuova vita offesa. Non ne feci una colpa a zia Sachi, che s’era dimostrata profondamente dispiaciuta per l’incidente ed era lei stessa sotto shock, tanto da non ricordarsi che pochi frammenti di quanto era accaduto.
La mia vita di violinista era finita, e pensai quasi sorridendo alla profezia che mia madre aveva sussurrato quella sera per convincermi a partire. In un modo o nell’altro, la mia vita sarebbe stata decisa dalla vacanza con zia Sachi, e direi che ormai il verdetto era stato pronunciato: la mia mano sinistra era volata via assieme alle note che non avrei mai più suonato.
Avrei dovuto avvisarla, e avvisare il nonno, che sarebbe stato deluso almeno quanto me dal mio futuro svanito come lo strappo di un tessuto dopo un rammendo.
Il dolore al moncherino si acutizzava durante le ore di riposo, in cui la mia mente prima abituata a restare sotto tensione, non aveva ora di che sfamarsi ed era libera di concentrare tutte le sue percezioni sulla periferica ora mancante al mio sistema nervoso.
Iniziai a dormire sempre più spesso durante il giorno, sperando di distrarmi dal dolore. Mi vedevo in prima fila nella sezione degli archi all’interno del golfo mistico, quella fossa invisibile agli occhi della platea ma presente e vivida ai loro timpani, che parlavo a loro attraverso il vibrato delle corde e il tocco deciso ma etereo del mio archetto.
Mi risvegliai da uno di questi sogni in preda a un’agitazione nevrotica. Nel sogno, al posto dell’archetto, tentavo di adoperare il moncherino. Lo facevo scivolare sulle corde ma era tozzo, e le corde vibravano sorde al tocco della mia pelle.
Piansi.
Zia Sachi rientrò dal giro di raccolta e mi vide raggomitolata sul divano, col braccio nascosto tra i cuscini viola, come una marionetta in attesa dietro il proscenio, nascosta alla vista dal morbido sipario.
Ripensai a quella sera, e avevo così tante domande che, sebbene non vedessi l’ora di liberarmene, la lingua s’impantanò e rimasi in silenzio.
– Tesoro. Rei. Non sai quanto mi dispiace per quello che è successo. Non avrei mai voluto, credimi.
– Ti credo, zia Sachi. Ti credo. È solo che… non so.
– Parlami, bambina.
– Non capisco. Cosa stavi facendo? Perché avevi il pugnale? Perché te ne stavi inginocchiata in giardino? Cos’era quella statua?
Zia Sachi prese un fazzoletto e mi asciugò le lacrime.
– Aspetta qui – mi disse.
La vidi rispuntare dall’angolo della parete con in mano quella pietra porosa e allo stesso tempo levigata, come uno straordinario oggetto dalle proprietà quantiche che È e anche Non È, e si riesce a percepirne entrambi gli stati, immoti eppure furibondi nel loro infinito sovrapporsi, turbinare l’uno sull’altro, e mostrarsi ai miei sensi come un’esplosione indecifrabile di presenza.
– Sono anni che non apro la fontana, sai?
– Cosa significa? Non capisco.
– La trovai un giorno, da ragazzina. L’ho usato tante volte, all’epoca. Mio padre non ne ha mai sospettato l’esistenza, e come avrebbe potuto in fondo. Vuoi provare?
Non volevo. Non ne ero sicura. Non capivo.
– Ma cosa… fa? – Mi sembrava impossibile che facesse qualsiasi cosa.
– Porta indietro il tempo. Oh, non guardarmi così. Come fossi una pazza. Lo fa sul serio… a modo suo.
Andai a dormire, o almeno ci provai, ma non riuscii a chiudere occhio. Il giorno dopo, mentre zia Sachi ancora riposava, andai nel salotto dove aveva lasciato la statua. Mi resi conto che, in qualche modo inspiegabile, lei mi conosceva. Che aveva imparato a conoscermi da quando mi ero trasferita lì per le vacanze, e che in qualche modo fossimo ormai legate l’una all’altra, come una cucitura a maglie strette.
Non so cosa mi aspettassi. Quella mattina aprii il rubinetto, ma invece dell’acqua uscì… niente. Il rubinetto si apriva e si richiudeva, e ovviamente dalla pietra scura e porosa in cui era incastonato non sgorgava nulla.
Delusa, mi alzai meccanicamente per riporre quella inutile statuetta in giardino. La mia mano destra era salda sul vestito del monaco.
La mia mano sinistra, sulla nuca calva. Sentivo ogni fibra della pietra a contatto coi polpastrelli e la mia carne fresca, rinnovata.
All’altezza del polso, una sottile cicatrice dorata ricuciva assieme le due estremità.
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