[MI 146] Il vero nome
Posted: Sun Mar 07, 2021 9:11 pm
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Traccia di mezzogiorno.
Il vero nome
La lama era affondata nella schiena, sotto la scapola. Ricordava bene il dettaglio perché al momento di sferrare il colpo ne aveva visto la sagoma rettangolare affiorare dalla pelle chiara.
Con un unico colpo aveva ucciso anche la madre che giaceva sotto di lui. Aveva preso il coltello per il pane e la lunga lama li aveva infilzati entrambi. Se fossero morti allo stesso tempo non sapeva. Perché lui era riuscito a scappare. Aveva preso un treno e aveva attraversato il confine la notte stessa. Non lo avevano mai trovato. Ed erano ormai passati cinque anni.
Tomasz si svegliò presto anche se era domenica. Le energie che non spendeva per lavorare in fabbrica sembravano dover esplodere nei giorni di riposo. Il lavoro era ripetitivo e faticoso, l'ideale per lui. La fatica gli ottundeva i sensi e la ragione, ed era un sollievo non dovere pensare né ricordare. Si mise la tuta e le scarpe da ginnastica e uscì. Nessuno se ne stupiva, era solo uno dei tanti che faceva jogging sul lungolago. Correva e scaricava l'energia in eccesso.
Quel giorno fece l'errore di fermarsi. Una nebbiolina ricopriva la superficie del lago, ricordava in modo inequivocabile il lago Balaton, i pomeriggi passati sulla riva con i genitori. Si sedette su una panchina e si lasciò andare ai ricordi.
- Tomasz, tuo padre ti sta chiamando - sua madre sorrideva e indicava verso Ferenc. Lui sceglieva i sassi piatti per farli rimbalzare sull'acqua e lo incitava a imitarlo. Era più bravo di lui, ma solo perché era più grande. Il sasso lanciato da Ferenc fece cinque salti. Li aveva contati: uno, due, tre, quattro. Il quinto gli sembrò irreale, eppure avvenne, naturale come un miracolo. Il sasso di Tomasz fece tre salti.
- Non male - aveva detto Ferenc, come avrebbe fatto qualsiasi padre.
Non gli era mai venuto in mente che fosse troppo giovane per essere suo padre o che sua madre fosse troppo vecchia per lui. Sono cose che agli occhi di un bambino non hanno significato. Sua madre era sua madre e Ferenc era suo padre. Punto. Tutte le elucubrazioni sull'età poteva farle solo con il senno di poi.
- Ciao. Un po' freddo oggi, vero?
Tomasz si voltò di scatto verso chi gli aveva rivolto la parola. Era una runner come lui e doveva avere più o meno la sua età. Non disse nulla e continuò a squadrarla. Il suo sguardo era duro. Lo aveva sorpreso in un attimo di intimità, in uno dei rari momenti in cui si lasciava andare ai ricordi, e se ne vergognava.
- Scusami, non volevo disturbarti - disse la ragazza - È che ti vedo spesso qui a correre e mi sembra di conoscerti.
Tomasz si sorprese, pensava di essere invisibile agli altri, uno straniero che lavora e si fa i fatti suoi. Ma evidentemente non era così.
- Non preoccuparti - rispose - Non mi hai disturbato, ero solo sovrappensiero.
Si sentì in dovere di dire qualcosa in più:
- Allora anche tu vieni spesso qui a correre?
- Sì - rispose lei - tutte le domeniche. Come te.
Dunque lei lo aveva visto più volte, lo aveva osservato. Ma era solo una ragazza, come lui. In questi anni aveva messo da parte le ragazze, come qualsiasi altra cosa che avesse a che fare con il genere umano. Lei gli stava ricordando che era ancora vivo, che era giovane e che poteva piacere.
- Come ti chiami? - le chiese.
- Martina, e tu?
- Ho un nome strano.
Rispondeva sempre così a chi glielo aveva chiesto in quegli anni. Per evitare di dare informazioni su di sé e perché il suo nome, sia il vero che quello falso, era legato alla bugia. La bugia che aveva sentito raccontare per diciassette anni, quella per cui si chiamava Tomasz e in cui Ferenc era suo padre.
- Strano come? - domandò lei.
- È ungherese.
Di solito qui finiva la curiosità della gente. Le persone non hanno la pazienza di imparare nomi strani e non vanno oltre.
- Va bene, ma non puoi dirmi come ti chiami?
Lei non si era fermata. Voleva conoscere lui, proprio lui.
- Tomasz. Mi chiamo Tomasz.
- Non è poi così strano.
Certo, pensò lui. Aveva detto il suo vecchio nome, quello della bugia. Il suo nome attuale, che usava da quando era fuggitivo era Balázs, che suonava molto più strano. In qualche modo gli sembrava anche il suo nome più vero, perché da quando si chiamava Balázs sapeva la verità. Ferenc non era solo suo padre, era anche suo fratello. Ma siccome la verità era troppo mostruosa, la madre aveva ripetuto a entrambi quella pietosa bugia. L'aveva ripetuta così tante volte che avevano finito per crederci. Tutti e due.
- Beh, piacere di conoscerti, Tomasz - disse Martina.
Non sapeva perché aveva detto il suo vero nome a quella ragazza. Si rese conto che lei aveva aperto senza volere una breccia nella sua corazza. Non aveva avuto paura di essere scoperto in quel preciso momento. Si chiese solo quale fosse il suo vero nome. Il nome vero del periodo della bugia? O il nome falso del periodo della verità? Probabilmente lo erano entrambi.
- Piacere, Martina.
Le tese la mano e lei gliela strinse. Sentì la sua pelle liscia, il primo contatto con una ragazza dopo tanto tempo, e comprese che chi fosse non aveva poi così importanza.
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Traccia di mezzogiorno.
Il vero nome
La lama era affondata nella schiena, sotto la scapola. Ricordava bene il dettaglio perché al momento di sferrare il colpo ne aveva visto la sagoma rettangolare affiorare dalla pelle chiara.
Con un unico colpo aveva ucciso anche la madre che giaceva sotto di lui. Aveva preso il coltello per il pane e la lunga lama li aveva infilzati entrambi. Se fossero morti allo stesso tempo non sapeva. Perché lui era riuscito a scappare. Aveva preso un treno e aveva attraversato il confine la notte stessa. Non lo avevano mai trovato. Ed erano ormai passati cinque anni.
Tomasz si svegliò presto anche se era domenica. Le energie che non spendeva per lavorare in fabbrica sembravano dover esplodere nei giorni di riposo. Il lavoro era ripetitivo e faticoso, l'ideale per lui. La fatica gli ottundeva i sensi e la ragione, ed era un sollievo non dovere pensare né ricordare. Si mise la tuta e le scarpe da ginnastica e uscì. Nessuno se ne stupiva, era solo uno dei tanti che faceva jogging sul lungolago. Correva e scaricava l'energia in eccesso.
Quel giorno fece l'errore di fermarsi. Una nebbiolina ricopriva la superficie del lago, ricordava in modo inequivocabile il lago Balaton, i pomeriggi passati sulla riva con i genitori. Si sedette su una panchina e si lasciò andare ai ricordi.
- Tomasz, tuo padre ti sta chiamando - sua madre sorrideva e indicava verso Ferenc. Lui sceglieva i sassi piatti per farli rimbalzare sull'acqua e lo incitava a imitarlo. Era più bravo di lui, ma solo perché era più grande. Il sasso lanciato da Ferenc fece cinque salti. Li aveva contati: uno, due, tre, quattro. Il quinto gli sembrò irreale, eppure avvenne, naturale come un miracolo. Il sasso di Tomasz fece tre salti.
- Non male - aveva detto Ferenc, come avrebbe fatto qualsiasi padre.
Non gli era mai venuto in mente che fosse troppo giovane per essere suo padre o che sua madre fosse troppo vecchia per lui. Sono cose che agli occhi di un bambino non hanno significato. Sua madre era sua madre e Ferenc era suo padre. Punto. Tutte le elucubrazioni sull'età poteva farle solo con il senno di poi.
- Ciao. Un po' freddo oggi, vero?
Tomasz si voltò di scatto verso chi gli aveva rivolto la parola. Era una runner come lui e doveva avere più o meno la sua età. Non disse nulla e continuò a squadrarla. Il suo sguardo era duro. Lo aveva sorpreso in un attimo di intimità, in uno dei rari momenti in cui si lasciava andare ai ricordi, e se ne vergognava.
- Scusami, non volevo disturbarti - disse la ragazza - È che ti vedo spesso qui a correre e mi sembra di conoscerti.
Tomasz si sorprese, pensava di essere invisibile agli altri, uno straniero che lavora e si fa i fatti suoi. Ma evidentemente non era così.
- Non preoccuparti - rispose - Non mi hai disturbato, ero solo sovrappensiero.
Si sentì in dovere di dire qualcosa in più:
- Allora anche tu vieni spesso qui a correre?
- Sì - rispose lei - tutte le domeniche. Come te.
Dunque lei lo aveva visto più volte, lo aveva osservato. Ma era solo una ragazza, come lui. In questi anni aveva messo da parte le ragazze, come qualsiasi altra cosa che avesse a che fare con il genere umano. Lei gli stava ricordando che era ancora vivo, che era giovane e che poteva piacere.
- Come ti chiami? - le chiese.
- Martina, e tu?
- Ho un nome strano.
Rispondeva sempre così a chi glielo aveva chiesto in quegli anni. Per evitare di dare informazioni su di sé e perché il suo nome, sia il vero che quello falso, era legato alla bugia. La bugia che aveva sentito raccontare per diciassette anni, quella per cui si chiamava Tomasz e in cui Ferenc era suo padre.
- Strano come? - domandò lei.
- È ungherese.
Di solito qui finiva la curiosità della gente. Le persone non hanno la pazienza di imparare nomi strani e non vanno oltre.
- Va bene, ma non puoi dirmi come ti chiami?
Lei non si era fermata. Voleva conoscere lui, proprio lui.
- Tomasz. Mi chiamo Tomasz.
- Non è poi così strano.
Certo, pensò lui. Aveva detto il suo vecchio nome, quello della bugia. Il suo nome attuale, che usava da quando era fuggitivo era Balázs, che suonava molto più strano. In qualche modo gli sembrava anche il suo nome più vero, perché da quando si chiamava Balázs sapeva la verità. Ferenc non era solo suo padre, era anche suo fratello. Ma siccome la verità era troppo mostruosa, la madre aveva ripetuto a entrambi quella pietosa bugia. L'aveva ripetuta così tante volte che avevano finito per crederci. Tutti e due.
- Beh, piacere di conoscerti, Tomasz - disse Martina.
Non sapeva perché aveva detto il suo vero nome a quella ragazza. Si rese conto che lei aveva aperto senza volere una breccia nella sua corazza. Non aveva avuto paura di essere scoperto in quel preciso momento. Si chiese solo quale fosse il suo vero nome. Il nome vero del periodo della bugia? O il nome falso del periodo della verità? Probabilmente lo erano entrambi.
- Piacere, Martina.
Le tese la mano e lei gliela strinse. Sentì la sua pelle liscia, il primo contatto con una ragazza dopo tanto tempo, e comprese che chi fosse non aveva poi così importanza.