[MI145] Il nel mezzo
Posted: Sun Feb 21, 2021 8:25 pm
Sono innamorata di mia sorella.
All’inizio era l’amore filiare di una bambina nei confronti della sorella maggiore, poi con la pubertà è diventato qualcosa di diverso. Io e Renata siamo cresciute insieme fino a che lei non si è sposata ed è andata via. So che non se n’è mai accorta e probabilmente l’avrebbe considerata solo l’ennesima stramberia dell’artista di famiglia. Avrebbe riso dei miei calori e deriso il pudore con cui le accarezzavo i capelli quando guardavamo un film sul divano, o come accavallavo le mie gambe nude sulle sue anche d’estate e col caldo. Non ha mai avuto un bel carattere, ma con me ha sempre manifestato il senso di protezione proprio di chi è madre già da prima di diventarlo. Qualche anno fa partorì Bruna e diventò madre per davvero. Non ne soffrii, anzi amavo Bruna come fosse anche figlia mia.
Adesso che sono venute a stare da me, finalmente, possiamo essere la famiglia che ho sempre sperato che fossimo.
«Mi dai una mano con le valigie di Bruna?»
Il tempo non è dei migliori per un trasloco, ma non importa perché questo è stato fatto d’urgenza e non ci si poteva aspettare altro. Angoli di pantaloni e magliette colorate spuntano dalle valigie in tela. Quella di Renata è ammaccata e ha dei graffi nuovi sul davanti. Probabilmente Sergio glie l’ha tirata dietro.
Ho preparato cibo thai, il nostro preferito.
«Alla fine ti sei decisa. Sono contenta Rèni», le dico. Bruna mangia il riso bianco e ha dei cicchi appiccicati sulle guance.
«Hm. Sì beh, non avevo scelta».
«Ma sei felice di stare con me, vero?»
Non voglio farle pressioni. So che ne ha passate di brutte e so quanto mi vuole bene, non devo costringere le persone a continue dimostrazioni d’affetto.
«Felice di non avere altro posto dove andare con mia figlia se non a casa della mia sorellina diciannovenne? Sono in estasi».
Non la spingo oltre; questa sera ha bisogno di riposarsi. Le propongo un film, una serata di quelle che passavamo da ragazzine. Bruna ha finito di mangiare e già sbadiglia.
«Non avresti qualcosa da bere? Qualcosa di forte», mi chiede.
«Ho del sakè».
«Roba raffinata! Andrà benissimo, grazie».
Accendo la TV e metto Bruna sul divano. Credo sia abituata ad addormentarsi da sola perché mi sorride e chiude gli occhi quasi all’unisono. Porto la bottiglia di sakè in cucina. Renata si attacca senza usare il bicchiere che ha lì davanti e io la lascio fare. Non me ne offre neanche un goccio, se la scola tutta in due minuti.
«Rèni, devo parlarti».
«Non stasera dai. Non hai qualcosa di nuovo da mostrarmi? Che so, un quadro, uno scarabocchio dei tuoi. Mi piacciono.»
«Non ho mai dipinto quadri, ma a dire il vero domani sera inauguro una mostra per il mio ultimo lavoro», dico. So che non le interessa l’arte in generale, né tantomeno la mia. Sa solo che le mie opere si vendono bene.
«Una mostra tutta tua? E brava la mia sorellina! Sei l’artista più giovane nella storia della famiglia».
«Credo di essere l’unica a dire il vero».
«Ah, io dipingevo. Ricordi? Quei quadri di Parigi con le foglie, lì».
«Me li ricordo. Quando mai sei stata a Parigi poi?». Ci guardiamo negli occhi e ridiamo. Siamo entrambe brille, chi di alcol chi di euforia.
Renata ha la guancia destra rossa. Le si arrossisce sempre quando è sbronza: solo la destra, una palla rosso fuoco che sembra una mela e mi fa venire voglia di prenderla a morsi.
«Rèni, sul serio. Ascolta». Renata non mi da il tempo di finire. Si aggrappa alle maniche della mia canottiera per tirarsi su e in un unico movimento fluido mi bacia. Rimango impietrita e faccio per rimetterla a sedere, perché non è così che lo immaginavo. Più la spingo lontano però, più lei mi si avvicina. Mi infila la lingua in bocca e perdo qualsiasi controllo. Inizio a toccarle il seno su cui da bambina appoggiavo la testa, e nel frattempo mi bagno.
È buio. Alzo la testa dal cuscino inzuppato di sudore e l’orologio mi restituisce un luminescente tre di notte. Mi giro per rubare ancora un’immagine del corpo di Renata attaccato al mio, ma trovo solo lenzuola aggrovigliate. La cerco nell’oscurità e intravedo una luce dalla porta del bagno. Mi alzo a tentoni perché anche la mia vescica è gonfia e vorrebbe liberarsi. Mi trascino verso il bagno ma quando faccio per aprire la porta, Renata la spalanca e la luce mi investe.
«Che fai in piedi a quest’ora?». Qualsiasi cambio improvviso d’intensità mi provoca fitte immediate alla testa.
«Devo pisciare Rèni. Tu che fai?». Ma non c’è bisogno che risponda. Appoggiati sul lavandino ci sono un cucchiaio e una siringa. Renata ha ancora il laccio emostatico attorno al braccio.
Ho dovuto faticare non poco per convincere Renata a venire alla mostra. L’intervento di Bruna è stato decisivo. Rèni aveva paura che Sergio avesse saputo dove si trovava.
«È furbo. Sicuramente saprà già della mostra e avrà immaginato che ci andremo e sarà lì ad aspettarmi», dice.
«Ma c’è la Sicurezza! Se si farà vivo li avvertiremo e lo scorteranno fuori, d’accordo?»
«Zia Marzia, di che parla la tua mostra?» Bruna cerca sempre di smorzare gli animi.
«Ecco, non so se sia adatta a una bambina», dice Renata.
«Ma Bruna è una bambina grande, non è vero Bruna?»
«Certo che sì», risponde Bruna.
«Ma cos’è questo “Labirinto di Carne”?» Renata legge la brochure della mostra e mi rivolge uno sguardo un po’ ansioso.
«Ma niente! Ricordi quella volta che da piccole rubammo la carne della festa del paese per cucirci dei vestiti “vivi”? Ho preso l’idea e l’ho trasformata in una sorta di esposizione esperienziale. Una passeggiata attraverso un labirinto di carne. Un labirinto vivo».
«Sembra una cosa macabra», dice lei.
«Fiiico», dice Bruna.
All’ingresso della struttura c’è una folla inaspettata, e il curatore che mi ha individuato già dal parcheggio si avventa su di me a grandi falcate e con gli occhi color moneta.
Renata si stringe nel cappotto e si guarda intorno. Tiene la mano a Bruna mentre cerca di capire se nel nugolo di corpi ci sia anche quello di Sergio.
«Allora, che ve ne pare?»
«Avevo ragione io. È macabro», dice Renata mentre si avvicina per guardarlo.
«Zia, è bellissimo zia! Sembra un muro di hamburger. Entriamo?»
«No Bruna, mi dispiace. Non è fatto per entrarci. Non ho disegnato neanche una cartina, ho costruito un pezzo alla volta finché non ho finito la carne».
Posso leggere la delusione sul suo volto.
«Mi dispiace, è più una cosa concettuale. Forse avevi ragione Rèni, non è adatto a una bambina». Mi giro per scusarmi con Renata ma non la trovo.
«Bruna, dov’è tua madre?»
«Era qui fino a prima.»
Mi viene il dubbio che non abbia resistito al richiamo dell’eroina. Ne sono quasi certa e la rabbia mi riempie lo stomaco. Avrei dovuto parlargliene subito ma non volevo rovinare la serata perfetta che avevo immaginato per noi tre. Tra tutta questa gente che è venuta per vedere il lavoro della sua sorellina, davanti a lei e a sua figlia, pensa solo a iniettarsi merda nelle vene?
Devo stare calma. Non saltare a conclusioni.
Passano i minuti. Stringo forte Bruna e lentamente, senza allarmare nessuno, avanziamo tra la gente che mi saluta e sorride e si complimenta. Controlliamo in bagno, ma Renata non c’è.
Dove s’è cacciata?
Mi viene in mente di cercarla nel parcheggio. Forse ha almeno avuto il buonsenso di allontanarsi da sguardi indiscreti prima di tirare fuori la siringa.
Sull’uscio dell’entrata vedo Sergio. Stringo Bruna ancora più forte e mi mischio alla folla. Devo evitare a tutti i costi che ci veda. Ma se fosse lui la ragione della scomparsa di Renata? Se l’avesse presa? Maledetto cornuto.
«Zia, forse la mamma è entrata nel labirinto?»
È un’ipotesi a cui non avevo pensato. È assurdo, ma vale la pena controllare. Sergio lo affronterò quando sarò sola.
Cerchiamo lo spazio striminzito da cui sono sgattaiolata fuori l’ultima volta. Facciamo il giro del labirinto più volte, da nord a sud, da est a ovest. Niente. L’entrata è scomparsa.
Stringo forte la mano di Bruna.
«Tranquilla amore mio. Torniamo a controllare domattina, ti va?»
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commento
traccia di mezzogiorno
All’inizio era l’amore filiare di una bambina nei confronti della sorella maggiore, poi con la pubertà è diventato qualcosa di diverso. Io e Renata siamo cresciute insieme fino a che lei non si è sposata ed è andata via. So che non se n’è mai accorta e probabilmente l’avrebbe considerata solo l’ennesima stramberia dell’artista di famiglia. Avrebbe riso dei miei calori e deriso il pudore con cui le accarezzavo i capelli quando guardavamo un film sul divano, o come accavallavo le mie gambe nude sulle sue anche d’estate e col caldo. Non ha mai avuto un bel carattere, ma con me ha sempre manifestato il senso di protezione proprio di chi è madre già da prima di diventarlo. Qualche anno fa partorì Bruna e diventò madre per davvero. Non ne soffrii, anzi amavo Bruna come fosse anche figlia mia.
Adesso che sono venute a stare da me, finalmente, possiamo essere la famiglia che ho sempre sperato che fossimo.
«Mi dai una mano con le valigie di Bruna?»
Il tempo non è dei migliori per un trasloco, ma non importa perché questo è stato fatto d’urgenza e non ci si poteva aspettare altro. Angoli di pantaloni e magliette colorate spuntano dalle valigie in tela. Quella di Renata è ammaccata e ha dei graffi nuovi sul davanti. Probabilmente Sergio glie l’ha tirata dietro.
Ho preparato cibo thai, il nostro preferito.
«Alla fine ti sei decisa. Sono contenta Rèni», le dico. Bruna mangia il riso bianco e ha dei cicchi appiccicati sulle guance.
«Hm. Sì beh, non avevo scelta».
«Ma sei felice di stare con me, vero?»
Non voglio farle pressioni. So che ne ha passate di brutte e so quanto mi vuole bene, non devo costringere le persone a continue dimostrazioni d’affetto.
«Felice di non avere altro posto dove andare con mia figlia se non a casa della mia sorellina diciannovenne? Sono in estasi».
Non la spingo oltre; questa sera ha bisogno di riposarsi. Le propongo un film, una serata di quelle che passavamo da ragazzine. Bruna ha finito di mangiare e già sbadiglia.
«Non avresti qualcosa da bere? Qualcosa di forte», mi chiede.
«Ho del sakè».
«Roba raffinata! Andrà benissimo, grazie».
Accendo la TV e metto Bruna sul divano. Credo sia abituata ad addormentarsi da sola perché mi sorride e chiude gli occhi quasi all’unisono. Porto la bottiglia di sakè in cucina. Renata si attacca senza usare il bicchiere che ha lì davanti e io la lascio fare. Non me ne offre neanche un goccio, se la scola tutta in due minuti.
«Rèni, devo parlarti».
«Non stasera dai. Non hai qualcosa di nuovo da mostrarmi? Che so, un quadro, uno scarabocchio dei tuoi. Mi piacciono.»
«Non ho mai dipinto quadri, ma a dire il vero domani sera inauguro una mostra per il mio ultimo lavoro», dico. So che non le interessa l’arte in generale, né tantomeno la mia. Sa solo che le mie opere si vendono bene.
«Una mostra tutta tua? E brava la mia sorellina! Sei l’artista più giovane nella storia della famiglia».
«Credo di essere l’unica a dire il vero».
«Ah, io dipingevo. Ricordi? Quei quadri di Parigi con le foglie, lì».
«Me li ricordo. Quando mai sei stata a Parigi poi?». Ci guardiamo negli occhi e ridiamo. Siamo entrambe brille, chi di alcol chi di euforia.
Renata ha la guancia destra rossa. Le si arrossisce sempre quando è sbronza: solo la destra, una palla rosso fuoco che sembra una mela e mi fa venire voglia di prenderla a morsi.
«Rèni, sul serio. Ascolta». Renata non mi da il tempo di finire. Si aggrappa alle maniche della mia canottiera per tirarsi su e in un unico movimento fluido mi bacia. Rimango impietrita e faccio per rimetterla a sedere, perché non è così che lo immaginavo. Più la spingo lontano però, più lei mi si avvicina. Mi infila la lingua in bocca e perdo qualsiasi controllo. Inizio a toccarle il seno su cui da bambina appoggiavo la testa, e nel frattempo mi bagno.
È buio. Alzo la testa dal cuscino inzuppato di sudore e l’orologio mi restituisce un luminescente tre di notte. Mi giro per rubare ancora un’immagine del corpo di Renata attaccato al mio, ma trovo solo lenzuola aggrovigliate. La cerco nell’oscurità e intravedo una luce dalla porta del bagno. Mi alzo a tentoni perché anche la mia vescica è gonfia e vorrebbe liberarsi. Mi trascino verso il bagno ma quando faccio per aprire la porta, Renata la spalanca e la luce mi investe.
«Che fai in piedi a quest’ora?». Qualsiasi cambio improvviso d’intensità mi provoca fitte immediate alla testa.
«Devo pisciare Rèni. Tu che fai?». Ma non c’è bisogno che risponda. Appoggiati sul lavandino ci sono un cucchiaio e una siringa. Renata ha ancora il laccio emostatico attorno al braccio.
Ho dovuto faticare non poco per convincere Renata a venire alla mostra. L’intervento di Bruna è stato decisivo. Rèni aveva paura che Sergio avesse saputo dove si trovava.
«È furbo. Sicuramente saprà già della mostra e avrà immaginato che ci andremo e sarà lì ad aspettarmi», dice.
«Ma c’è la Sicurezza! Se si farà vivo li avvertiremo e lo scorteranno fuori, d’accordo?»
«Zia Marzia, di che parla la tua mostra?» Bruna cerca sempre di smorzare gli animi.
«Ecco, non so se sia adatta a una bambina», dice Renata.
«Ma Bruna è una bambina grande, non è vero Bruna?»
«Certo che sì», risponde Bruna.
«Ma cos’è questo “Labirinto di Carne”?» Renata legge la brochure della mostra e mi rivolge uno sguardo un po’ ansioso.
«Ma niente! Ricordi quella volta che da piccole rubammo la carne della festa del paese per cucirci dei vestiti “vivi”? Ho preso l’idea e l’ho trasformata in una sorta di esposizione esperienziale. Una passeggiata attraverso un labirinto di carne. Un labirinto vivo».
«Sembra una cosa macabra», dice lei.
«Fiiico», dice Bruna.
All’ingresso della struttura c’è una folla inaspettata, e il curatore che mi ha individuato già dal parcheggio si avventa su di me a grandi falcate e con gli occhi color moneta.
Renata si stringe nel cappotto e si guarda intorno. Tiene la mano a Bruna mentre cerca di capire se nel nugolo di corpi ci sia anche quello di Sergio.
«Allora, che ve ne pare?»
«Avevo ragione io. È macabro», dice Renata mentre si avvicina per guardarlo.
«Zia, è bellissimo zia! Sembra un muro di hamburger. Entriamo?»
«No Bruna, mi dispiace. Non è fatto per entrarci. Non ho disegnato neanche una cartina, ho costruito un pezzo alla volta finché non ho finito la carne».
Posso leggere la delusione sul suo volto.
«Mi dispiace, è più una cosa concettuale. Forse avevi ragione Rèni, non è adatto a una bambina». Mi giro per scusarmi con Renata ma non la trovo.
«Bruna, dov’è tua madre?»
«Era qui fino a prima.»
Mi viene il dubbio che non abbia resistito al richiamo dell’eroina. Ne sono quasi certa e la rabbia mi riempie lo stomaco. Avrei dovuto parlargliene subito ma non volevo rovinare la serata perfetta che avevo immaginato per noi tre. Tra tutta questa gente che è venuta per vedere il lavoro della sua sorellina, davanti a lei e a sua figlia, pensa solo a iniettarsi merda nelle vene?
Devo stare calma. Non saltare a conclusioni.
Passano i minuti. Stringo forte Bruna e lentamente, senza allarmare nessuno, avanziamo tra la gente che mi saluta e sorride e si complimenta. Controlliamo in bagno, ma Renata non c’è.
Dove s’è cacciata?
Mi viene in mente di cercarla nel parcheggio. Forse ha almeno avuto il buonsenso di allontanarsi da sguardi indiscreti prima di tirare fuori la siringa.
Sull’uscio dell’entrata vedo Sergio. Stringo Bruna ancora più forte e mi mischio alla folla. Devo evitare a tutti i costi che ci veda. Ma se fosse lui la ragione della scomparsa di Renata? Se l’avesse presa? Maledetto cornuto.
«Zia, forse la mamma è entrata nel labirinto?»
È un’ipotesi a cui non avevo pensato. È assurdo, ma vale la pena controllare. Sergio lo affronterò quando sarò sola.
Cerchiamo lo spazio striminzito da cui sono sgattaiolata fuori l’ultima volta. Facciamo il giro del labirinto più volte, da nord a sud, da est a ovest. Niente. L’entrata è scomparsa.
Stringo forte la mano di Bruna.
«Tranquilla amore mio. Torniamo a controllare domattina, ti va?»
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commento
traccia di mezzogiorno