Arco di curva
Posted: Fri Jan 01, 2021 7:43 pm
Arco di curva
Avevano fatto l'amore, ora fumavano nel silenzio, lasciando correre i pensieri, il fumo disegnava arabeschi complessi sul soffitto della camera.
Lui sedeva ai piedi del letto, le lenzuola sparse a giacere sul pavimento:
un campo di battaglia silenzioso, il teatro quieto di una disfatta.
L'orologio a parete segnava le 15,48: il tempo era volato nelle ultime due ore, decise che si sarebbe alzato per la doccia, entro dodici minuti.
Lei distesa, nuda e assorta, stava adagiata mollemente alla testiera del letto: due cuscini sotto la nuca, la testa rivolta alla finestra i pensieri altrove, gli rammentava una donna di un quadro di Courbet.
La luce del mezzo pomeriggio di inizio ottobre, scemava lenta nella penombra della stanza.
Gli era sempre piaciuta quell'aria di morbido abbandono che scendeva sul corpo di lei, quando finivano di amarsi.
Fuori l'autunno incendiava di rosso, le foglie dei platani lungo il viale.
Pensò quanto fosse lontana da lui, da quel luogo e da quel letto, mentre seguiva i suoi pensieri: una distanza siderale, attraverso quel velo azzurro, lento e mobile che si alzava dalla sigaretta tra le sue dita.
Si accorse che da qualche minuto non stava più aspirando: lasciava che il tabacco si consumasse per inerzia.
Pensò a quei loro incontri, sempre brevi e clandestini, al loro ripetersi uguali da troppo tempo ormai, avevano consumato la passione e il resto, ora lasciavano in bocca un sapore conosciuto, senza sorprese ne magia.
Conosceva il rito puntuale dei gesti, delle posture che scandivano ognuno di quei momenti: erano fotogrammi fissati nella mente.
Avrebbe potuto farli scorrere ad occhi chiusi, come un film passato alla moviola: il modo in cui era solita raccogliere i capelli dietro l'orecchio, la ciocca lunga che lambiva il rilievo morbido del seno, quel vezzo di mordersi il labbro, segnando un'emozione.
Il suo profilo dagli zigomi alti, il collo sottile e candido, lo sguardo farsi languido, sulla soglia del sonno imminente: erano frammenti di lei rimasti scritti nel profondo, cose che gli appartenevano, tracce durature che avrebbe portato con sé.
Avrebbe conservato anche la memoria del suo profumo, che aveva colorato l'aria di quella stanza, il calore del suo corpo e del sesso fatto lo avrebbero accompagnato, confortando la strada del ritorno.
Tra le sue dita, la lingua contorta e avvizzita della cenere, aveva raggiunto il filtro, guardò l'ora sulla parete, pensò che il tempo stava finendo: essiccato in quel silenzio anestetico.
Sentì una stanchezza profonda gravargli le membra: avrebbe voluto dormire almeno un poco, ma bisognava andare.
Seguì con lo sguardo i contorni della stanza, come se li osservasse per la prima volta: il verde acido del tendaggio, strideva col rosa antico delle pareti.
In gusto ordinario e gli accostamenti improbabili erano la cifra costante di quegli alberghetti della mezza collina: ricoveri abituali di amori irregolari, in bilico sul margine stretto dello squallore.
Sempre così appartati da risultare invisibili ad occhi indiscreti, negligenti nel servizio di camera e disponibili nell'omettere la richiesta di documenti alla clientela di passaggio.
Coppie anonime, che giungevano separate, con due macchine diverse, occultate nel parcheggio che le piante coprivano alla vista della strada: amanti restii a lasciare traccia del loro passaggio sulle pagine di un registro d'albergo.
Un fremito, come un brivido di freddo lo scosse: la cenere si staccò dalla cicca e lieve come zucchero a velo, si sparse sul bouclé bruno della moquette.
Chiuse gli occhi, respiro a fondo e rivide la strada nella mente.
Un lungo rettilineo che dalla tangenziale portava all'autostrada e da li al mare, 80 km più a sud. Lo avevano percorso insieme decine di volte, nei fine settimana d’estate, quando il marito volava all'estero per i suoi affari lontani: era il tempo delle corse in auto con la capote aperta, il piede a fondo sull'acceleratore e la lancetta a sfiorare il limite del tachimetro.
L'aria calda turbinava, giocando con i suoi capelli e già sapeva di salmastro marino.
La conosceva bene quella strada. Una lingua nera d'asfalto stesa tra le colline, solcata al centro dalla linea bianca di mezzeria, aveva a mente ogni metro del suo manto scuro come un velluto e del paesaggio che le scorreva intorno.
C’erano campi col frumento maturo piegato dal vento estivo e boschetti di faggi, che salivano ai fianchi morbidi dei declivi, a tratti incontravi ruderi in abbandono persi fra le sterpaglie dei dossi, vedevi case coloniche con tetti di lavagna e grandi aie bianche di sole.
Ci potevi filare veloce su quella strada: era come un lungo drappo, lucido e nero, su cui le ruote aderivano morbide, come in un bacio di amanti.
Le labbra si incresparono di amaro, il filo dei ricordi cadeva sul disordine di lenzuola del letto, come foglie esauste sul tappetto giallo dell'autunno.
Al fondo della strada si apriva la parabolica di un viadotto: una mezza luna di cemento e bitume, sospesa nel vuoto a trenta metri di altezza,
sotto, in una gola buia, il letto del torrente: un rivolo misero e asciutto, interrato tra sassi e arbusti in quella stagione dell'anno.
Oggi era stata l'ultima volta che avevano fatto l'amore, un addio non detto, ma era nelle cose: dirselo non sarebbe servito.
Le aveva domandato quando avrebbero potuto incontrarsi ancora: lei non aveva risposto, abbassando gli occhi si era guardata intorno, come avesse smarrito qualcosa.
Poi senza guardarlo negli occhi, aveva trovato il fiato e le parole: troppe cose da fare, era un periodo complicato, lo avrebbe cercato lei quando veniva il momento, gli aveva detto.
Non era brava a mentire, gli leggevi la bugia in quel mordersi il labbro inferiore, come avveniva a volte nei bambini.
Era tardi, sentiva il tempo scivolare tra le dita come sabbia, gli mancava la volontà di serrarle per trattenerla.
Conosceva la strada e la curva.
Sapeva a quale velocità era giusto imboccarla: il punto esatto in cui si sarebbe generata la corda di un arco di curva, nel semicerchio d'asfalto.
In quell’ istante avrebbe corretto, con una pressione leggera sullo sterzo, la traiettoria dell'auto.
A quella velocità il veicolo avrebbe seguito la proiezione del suo moto, liberandosi dalla gravità lungo una retta in fuga nello spazio.
Avrebbe chiuso gli occhi, con le mani strette al volante, proseguendo la sua corsa in quel tramonto silenzioso nell’ imbrunire dorato.
Lo sapeva da due mesi: una tac cerebrale metteva un punto al futuro.
Gli erano rimasti il conto alla rovescia dei giorni, dei ricordi e dei respiri restanti.
Fece una doccia calda, poi iniziò a rivestirsi, senza fretta, quando fu pronto guardò ancora il corpo di lei che riposava sul letto: si era assopita in una posizione raccolta, un sonno infantile, il respiro lieve e sereno.
Un raggio di sole dava tenui riflessi biondi al castano dei capelli di lei.
Pensò a quella luce come a una carezza gentile.
Uscì, chiudendo piano la porta, per non svegliarla.
Avevano fatto l'amore, ora fumavano nel silenzio, lasciando correre i pensieri, il fumo disegnava arabeschi complessi sul soffitto della camera.
Lui sedeva ai piedi del letto, le lenzuola sparse a giacere sul pavimento:
un campo di battaglia silenzioso, il teatro quieto di una disfatta.
L'orologio a parete segnava le 15,48: il tempo era volato nelle ultime due ore, decise che si sarebbe alzato per la doccia, entro dodici minuti.
Lei distesa, nuda e assorta, stava adagiata mollemente alla testiera del letto: due cuscini sotto la nuca, la testa rivolta alla finestra i pensieri altrove, gli rammentava una donna di un quadro di Courbet.
La luce del mezzo pomeriggio di inizio ottobre, scemava lenta nella penombra della stanza.
Gli era sempre piaciuta quell'aria di morbido abbandono che scendeva sul corpo di lei, quando finivano di amarsi.
Fuori l'autunno incendiava di rosso, le foglie dei platani lungo il viale.
Pensò quanto fosse lontana da lui, da quel luogo e da quel letto, mentre seguiva i suoi pensieri: una distanza siderale, attraverso quel velo azzurro, lento e mobile che si alzava dalla sigaretta tra le sue dita.
Si accorse che da qualche minuto non stava più aspirando: lasciava che il tabacco si consumasse per inerzia.
Pensò a quei loro incontri, sempre brevi e clandestini, al loro ripetersi uguali da troppo tempo ormai, avevano consumato la passione e il resto, ora lasciavano in bocca un sapore conosciuto, senza sorprese ne magia.
Conosceva il rito puntuale dei gesti, delle posture che scandivano ognuno di quei momenti: erano fotogrammi fissati nella mente.
Avrebbe potuto farli scorrere ad occhi chiusi, come un film passato alla moviola: il modo in cui era solita raccogliere i capelli dietro l'orecchio, la ciocca lunga che lambiva il rilievo morbido del seno, quel vezzo di mordersi il labbro, segnando un'emozione.
Il suo profilo dagli zigomi alti, il collo sottile e candido, lo sguardo farsi languido, sulla soglia del sonno imminente: erano frammenti di lei rimasti scritti nel profondo, cose che gli appartenevano, tracce durature che avrebbe portato con sé.
Avrebbe conservato anche la memoria del suo profumo, che aveva colorato l'aria di quella stanza, il calore del suo corpo e del sesso fatto lo avrebbero accompagnato, confortando la strada del ritorno.
Tra le sue dita, la lingua contorta e avvizzita della cenere, aveva raggiunto il filtro, guardò l'ora sulla parete, pensò che il tempo stava finendo: essiccato in quel silenzio anestetico.
Sentì una stanchezza profonda gravargli le membra: avrebbe voluto dormire almeno un poco, ma bisognava andare.
Seguì con lo sguardo i contorni della stanza, come se li osservasse per la prima volta: il verde acido del tendaggio, strideva col rosa antico delle pareti.
In gusto ordinario e gli accostamenti improbabili erano la cifra costante di quegli alberghetti della mezza collina: ricoveri abituali di amori irregolari, in bilico sul margine stretto dello squallore.
Sempre così appartati da risultare invisibili ad occhi indiscreti, negligenti nel servizio di camera e disponibili nell'omettere la richiesta di documenti alla clientela di passaggio.
Coppie anonime, che giungevano separate, con due macchine diverse, occultate nel parcheggio che le piante coprivano alla vista della strada: amanti restii a lasciare traccia del loro passaggio sulle pagine di un registro d'albergo.
Un fremito, come un brivido di freddo lo scosse: la cenere si staccò dalla cicca e lieve come zucchero a velo, si sparse sul bouclé bruno della moquette.
Chiuse gli occhi, respiro a fondo e rivide la strada nella mente.
Un lungo rettilineo che dalla tangenziale portava all'autostrada e da li al mare, 80 km più a sud. Lo avevano percorso insieme decine di volte, nei fine settimana d’estate, quando il marito volava all'estero per i suoi affari lontani: era il tempo delle corse in auto con la capote aperta, il piede a fondo sull'acceleratore e la lancetta a sfiorare il limite del tachimetro.
L'aria calda turbinava, giocando con i suoi capelli e già sapeva di salmastro marino.
La conosceva bene quella strada. Una lingua nera d'asfalto stesa tra le colline, solcata al centro dalla linea bianca di mezzeria, aveva a mente ogni metro del suo manto scuro come un velluto e del paesaggio che le scorreva intorno.
C’erano campi col frumento maturo piegato dal vento estivo e boschetti di faggi, che salivano ai fianchi morbidi dei declivi, a tratti incontravi ruderi in abbandono persi fra le sterpaglie dei dossi, vedevi case coloniche con tetti di lavagna e grandi aie bianche di sole.
Ci potevi filare veloce su quella strada: era come un lungo drappo, lucido e nero, su cui le ruote aderivano morbide, come in un bacio di amanti.
Le labbra si incresparono di amaro, il filo dei ricordi cadeva sul disordine di lenzuola del letto, come foglie esauste sul tappetto giallo dell'autunno.
Al fondo della strada si apriva la parabolica di un viadotto: una mezza luna di cemento e bitume, sospesa nel vuoto a trenta metri di altezza,
sotto, in una gola buia, il letto del torrente: un rivolo misero e asciutto, interrato tra sassi e arbusti in quella stagione dell'anno.
Oggi era stata l'ultima volta che avevano fatto l'amore, un addio non detto, ma era nelle cose: dirselo non sarebbe servito.
Le aveva domandato quando avrebbero potuto incontrarsi ancora: lei non aveva risposto, abbassando gli occhi si era guardata intorno, come avesse smarrito qualcosa.
Poi senza guardarlo negli occhi, aveva trovato il fiato e le parole: troppe cose da fare, era un periodo complicato, lo avrebbe cercato lei quando veniva il momento, gli aveva detto.
Non era brava a mentire, gli leggevi la bugia in quel mordersi il labbro inferiore, come avveniva a volte nei bambini.
Era tardi, sentiva il tempo scivolare tra le dita come sabbia, gli mancava la volontà di serrarle per trattenerla.
Conosceva la strada e la curva.
Sapeva a quale velocità era giusto imboccarla: il punto esatto in cui si sarebbe generata la corda di un arco di curva, nel semicerchio d'asfalto.
In quell’ istante avrebbe corretto, con una pressione leggera sullo sterzo, la traiettoria dell'auto.
A quella velocità il veicolo avrebbe seguito la proiezione del suo moto, liberandosi dalla gravità lungo una retta in fuga nello spazio.
Avrebbe chiuso gli occhi, con le mani strette al volante, proseguendo la sua corsa in quel tramonto silenzioso nell’ imbrunire dorato.
Lo sapeva da due mesi: una tac cerebrale metteva un punto al futuro.
Gli erano rimasti il conto alla rovescia dei giorni, dei ricordi e dei respiri restanti.
Fece una doccia calda, poi iniziò a rivestirsi, senza fretta, quando fu pronto guardò ancora il corpo di lei che riposava sul letto: si era assopita in una posizione raccolta, un sonno infantile, il respiro lieve e sereno.
Un raggio di sole dava tenui riflessi biondi al castano dei capelli di lei.
Pensò a quella luce come a una carezza gentile.
Uscì, chiudendo piano la porta, per non svegliarla.