Mirror Box
Posted: Fri Jan 01, 2021 6:14 pm
Se penso alla parola fantasma inizio a pensare al dolore, e viceversa. Un'associazione immediata che mi rimanda anche ai cavallucci marini, al mio amico Frank, e a quello schifo di cervello che mi ritrovo. Ma sono i fantasmi i veri colpevoli, lo sono sempre stati.
La prima volta che ho visto un fantasma è stata quando ero solo un ragazzino e me ne stavo sdraiato sul giardino di Frank. Stavo a fissare le nuvole mentre nel mio sangue si aggiravano 100 mg di eroina purissima. Frank non faceva che insistere sul fatto che a forza di guardare il cielo ci sarei rimasto.
«Eroina e nuvole non sono amiche», diceva tra uno sniff e l'altro. Già da allora aveva una zampogna al posto del naso, a furia di sniffare quella merda gli erano esplosi tutti i capillari.
Comunque, tanto per darci un taglio, ricordo di essermi messo a sedere e di aver guardato in direzione di una casa antistante a quella di Frank. Un uomo era affacciato alla finestra, stava immobile a fissare la strada. Non aveva il braccio sinistro, e il vento sembrava accanirsi su quella manica vuota che si stringeva e si gonfiava, si stringeva e si gonfiava.
Fantasmi, come dicevo.
Questo è uno dei pochissimi ricordi che ho del mio passato. Lo osservo andare via in dissolvenza e lasciare il posto alla pozza di succhi gastrici che ho appena vomitato.
«Mi sa che l'ho rigettata», mugugno. Poi frigno come una scolaretta. Frank accorre e inizia a fare il detective; affonda l'uncino che ha al posto della mano sinistra in quello schifo e si mette a rimestare.
«Io non vedo nulla». Mi osserva puntandomi addosso il suo nasone da pagliaccio, poi mi lancia una pasticca con la mano buona.
«Questa è l'ultima, se vomiti di nuovo sono cazzi tuoi».
Lo guardo e inizio a piangere di gioia.
«Grazie, Frank, davvero, sei il mio migliore amico».
Cazzo se lo è... Da quando ho visto quel tipo senza un braccio non ho fatto altro che parlarne; chissà che si prova, Frank; una cosa che prima c'è e poi puff, adios; Frank, chissà se lo percepisce ancora; Frank, ho letto su internet che può accadere, si chiama sindrome dell'arto fantasma... eccetera, eccetera.
Questa storia è durata per anni, era diventata un'ossessione. Penso che sia stato allora che ho iniziato a vederli ovunque.
Insomma, tornando a noi, Frank si è dimostrato un vero amico: si è amputato la mano sinistra per confutare la sindrome che tanto mi aveva privato del sonno.
«Finalmente potrò essere un pirata, grrr», diceva immerso nel suo sangue e in preda al dolore.
Un grande amico, lui, davvero. Ma non aveva compreso a fondo, non aveva per nulla capito.
I fantasmi esistono, eccome.
Il volto di Frank è un concentrato di empatia e solidarietà. È un duro colpo per lui, vedermi in questo stato lo distrugge. Che tenero.
«Stai bene _» Mi chiede.
Lo guardo attonito, poi alza l'uncino esibendo in tutto il suo splendore un bel punto di domanda.
Allora capisco: «No, non sto bene per niente».
Lancio la pasticca in aria.
La contemplo mentre faccio rallentare il tempo; volteggia, gira e rigira.
La attendo con la bocca spalancata.
Ed eccolo arrivare, mi cade in gola, il mio cavalluccio marino.
Cavallucci marini del cazzo. Le pasticche col nome più improprio della storia.
Divoratrici di ricordi, si insinuano nell'ippocampo e te lo fanno a fettine.
La botta che ne ricavi è colossale, certo, ma a quale prezzo.
Di sicuro un prezzo che ero disposto a pagare, all'epoca, quando un Frank in piena epistassi mi diceva che era stanco di sniffare roba, stanco di bucarsi, stanco dei fantasmi (no, quello ero io), e che era arrivato il momento di cambiare, di dimenticare (di nuovo io). Non faceva che parlarmi di questa nuova droga, che era stata creata da quei pazzi sciroccati che, dieci anni prima, avevano bruciato i cervelli di mezza città con le loro Pirandello... Le Pirandello, Gesù, se ci penso rido ancora; in quel periodo se beccavi qualcuno finivi per doverlo conoscere più di tre volte minimo... No, grazie, non facevano per me.
Ma i Cavallucci marini erano tutt'altra storia. Per me è stato amore a prima vista; una pasticca che era una gomma per cancellare, letteralmente. Addio traumi, addio sensi di colpa, e chi se ne frega degli effetti collaterali: bei ricordi che si possono contare sulle dita di una mano.
Ma è stato un errore, bello grosso anche, perché non sono i ricordi a infestarti dentro, bensì il vuoto che si lasciano dietro. È lo spazio abbandonato dal braccio ciò che trasforma la manica di una maglietta in un sudario.
Evidentemente la pasticca ha già fatto effetto, visto che riesco a sparare stronzate simili.
Mi guardo attorno e non capisco dove sono. Niente ha più consistenza. La stanza in cui mi trovo non la riconosco più. Non ricordo di cosa stavo parlando, e con chi.
Una ragazza cammina per la stanza. Dio, quanto è bella. La vedo immergersi in una conversazione incomprensibile. Sembra uscita da una registrazione, e allora capisco che sto guardando il frammento di un ricordo che non è più mio. Non riesco a smettere di fissarla, so di averla amata molto, e non rammento di che tipo di amore si trattasse; se quello che si proverebbe per una sorella, o quello per la donna della tua vita.
Vorrei urlare e disperarmi, ma sono così sballato che l'unica cosa che posso fare è lasciarmi alle spalle il mio corpo comatoso e mettermi a svolazzare per la stanza. Mi pare si chiami derealizzazione.
Mi piace, mi sento un po' come un regista quando succede. E allora punto la telecamera sul fantasma della ragazza, e divento anche montatore quando improvviso dei Jump-cut a caso:
- Le dico che il nuovo taglio di capelli è carino, che sembra un maschiaccio. Finge di arrabbiarsi ma è rossa come un peperone. «Facciamoci una pera», dice.
- Quando l'ago tocca la vena lei geme, premo sullo stantuffo e mi ricambia con un bacio.
- «Guardiamo Donnie Darko, prima che mi si chiudano gli occhi». Le dico che è fissata, che l'abbiamo visto troppe volte, ma lei è innamorata di Frank il coniglio.
Basta, il corto è finito. Il dolore fantasma è intenso, non posso più sopportarlo. Ciò che fa più male è che m'importa solo del fatto di avere potuto trasformare un coniglio in un cazzo di tossico con l'uncino.
Vedo altri fantasmi attorno a me; uomini, donne e bambini. Insomma, c'è di tutto. I protagonisti e gli antagonisti, comparse comprese, della mia vita. Stanno fermi, tutti accalcati, ad asfissiarmi.
Lasciatemi in pace. Non la voglio la carrellata dei momenti di un'esistenza che ho scelto di cucinarmi su un cucchiaio. Bruciati e, infine, cancellati del tutto da una pillola.
Ritrovo la forza per urlare: «Frank!»
Ma lui non risponde, sento solo il suo nasone che respira. Ora sono davvero solo.
«Avresti dovuto portarmi indietro nel tempo, coniglio di merda!»
Frank se la ride mischiato in quella ressa di anonimi che stanno fermi ad osservarmi.
Poi tutto finisce, così come è iniziato. Ritrovo i contorni della mia stanza. Rinsavito del tutto mi alzo per sgranchirmi. Apro la finestra e mi affaccio al mondo esterno. Inspiro a pieni polmoni, l'aria mattutina mi affranca dal lezzo dell'appartamento. Eppure, è come se qualcosa fosse rimasta incastrata, me la sento appiccicata addosso, come del cibo tra i denti.
È una storia, una delle tante, una di quelle che non mi appartengono più. Mi piacerebbe staccarmela di dosso, contemplarla e poterla raccontare. Ma non posso. Per un breve lasso di tempo mi ritrovo a pensare a chi perde un caro amico. Un velo si frappone tra me e quel pensiero, e penso a quanto mi piacerebbe poter distendere le braccia, rilassare i muscoli e, infine, stringere i pugni. Purtroppo, però, non esiste scatola abbastanza grande per contenere i miei fantasmi, né specchio che possa rifletterli.
La prima volta che ho visto un fantasma è stata quando ero solo un ragazzino e me ne stavo sdraiato sul giardino di Frank. Stavo a fissare le nuvole mentre nel mio sangue si aggiravano 100 mg di eroina purissima. Frank non faceva che insistere sul fatto che a forza di guardare il cielo ci sarei rimasto.
«Eroina e nuvole non sono amiche», diceva tra uno sniff e l'altro. Già da allora aveva una zampogna al posto del naso, a furia di sniffare quella merda gli erano esplosi tutti i capillari.
Comunque, tanto per darci un taglio, ricordo di essermi messo a sedere e di aver guardato in direzione di una casa antistante a quella di Frank. Un uomo era affacciato alla finestra, stava immobile a fissare la strada. Non aveva il braccio sinistro, e il vento sembrava accanirsi su quella manica vuota che si stringeva e si gonfiava, si stringeva e si gonfiava.
Fantasmi, come dicevo.
Questo è uno dei pochissimi ricordi che ho del mio passato. Lo osservo andare via in dissolvenza e lasciare il posto alla pozza di succhi gastrici che ho appena vomitato.
«Mi sa che l'ho rigettata», mugugno. Poi frigno come una scolaretta. Frank accorre e inizia a fare il detective; affonda l'uncino che ha al posto della mano sinistra in quello schifo e si mette a rimestare.
«Io non vedo nulla». Mi osserva puntandomi addosso il suo nasone da pagliaccio, poi mi lancia una pasticca con la mano buona.
«Questa è l'ultima, se vomiti di nuovo sono cazzi tuoi».
Lo guardo e inizio a piangere di gioia.
«Grazie, Frank, davvero, sei il mio migliore amico».
Cazzo se lo è... Da quando ho visto quel tipo senza un braccio non ho fatto altro che parlarne; chissà che si prova, Frank; una cosa che prima c'è e poi puff, adios; Frank, chissà se lo percepisce ancora; Frank, ho letto su internet che può accadere, si chiama sindrome dell'arto fantasma... eccetera, eccetera.
Questa storia è durata per anni, era diventata un'ossessione. Penso che sia stato allora che ho iniziato a vederli ovunque.
Insomma, tornando a noi, Frank si è dimostrato un vero amico: si è amputato la mano sinistra per confutare la sindrome che tanto mi aveva privato del sonno.
«Finalmente potrò essere un pirata, grrr», diceva immerso nel suo sangue e in preda al dolore.
Un grande amico, lui, davvero. Ma non aveva compreso a fondo, non aveva per nulla capito.
I fantasmi esistono, eccome.
Il volto di Frank è un concentrato di empatia e solidarietà. È un duro colpo per lui, vedermi in questo stato lo distrugge. Che tenero.
«Stai bene _» Mi chiede.
Lo guardo attonito, poi alza l'uncino esibendo in tutto il suo splendore un bel punto di domanda.
Allora capisco: «No, non sto bene per niente».
Lancio la pasticca in aria.
La contemplo mentre faccio rallentare il tempo; volteggia, gira e rigira.
La attendo con la bocca spalancata.
Ed eccolo arrivare, mi cade in gola, il mio cavalluccio marino.
Cavallucci marini del cazzo. Le pasticche col nome più improprio della storia.
Divoratrici di ricordi, si insinuano nell'ippocampo e te lo fanno a fettine.
La botta che ne ricavi è colossale, certo, ma a quale prezzo.
Di sicuro un prezzo che ero disposto a pagare, all'epoca, quando un Frank in piena epistassi mi diceva che era stanco di sniffare roba, stanco di bucarsi, stanco dei fantasmi (no, quello ero io), e che era arrivato il momento di cambiare, di dimenticare (di nuovo io). Non faceva che parlarmi di questa nuova droga, che era stata creata da quei pazzi sciroccati che, dieci anni prima, avevano bruciato i cervelli di mezza città con le loro Pirandello... Le Pirandello, Gesù, se ci penso rido ancora; in quel periodo se beccavi qualcuno finivi per doverlo conoscere più di tre volte minimo... No, grazie, non facevano per me.
Ma i Cavallucci marini erano tutt'altra storia. Per me è stato amore a prima vista; una pasticca che era una gomma per cancellare, letteralmente. Addio traumi, addio sensi di colpa, e chi se ne frega degli effetti collaterali: bei ricordi che si possono contare sulle dita di una mano.
Ma è stato un errore, bello grosso anche, perché non sono i ricordi a infestarti dentro, bensì il vuoto che si lasciano dietro. È lo spazio abbandonato dal braccio ciò che trasforma la manica di una maglietta in un sudario.
Evidentemente la pasticca ha già fatto effetto, visto che riesco a sparare stronzate simili.
Mi guardo attorno e non capisco dove sono. Niente ha più consistenza. La stanza in cui mi trovo non la riconosco più. Non ricordo di cosa stavo parlando, e con chi.
Una ragazza cammina per la stanza. Dio, quanto è bella. La vedo immergersi in una conversazione incomprensibile. Sembra uscita da una registrazione, e allora capisco che sto guardando il frammento di un ricordo che non è più mio. Non riesco a smettere di fissarla, so di averla amata molto, e non rammento di che tipo di amore si trattasse; se quello che si proverebbe per una sorella, o quello per la donna della tua vita.
Vorrei urlare e disperarmi, ma sono così sballato che l'unica cosa che posso fare è lasciarmi alle spalle il mio corpo comatoso e mettermi a svolazzare per la stanza. Mi pare si chiami derealizzazione.
Mi piace, mi sento un po' come un regista quando succede. E allora punto la telecamera sul fantasma della ragazza, e divento anche montatore quando improvviso dei Jump-cut a caso:
- Le dico che il nuovo taglio di capelli è carino, che sembra un maschiaccio. Finge di arrabbiarsi ma è rossa come un peperone. «Facciamoci una pera», dice.
- Quando l'ago tocca la vena lei geme, premo sullo stantuffo e mi ricambia con un bacio.
- «Guardiamo Donnie Darko, prima che mi si chiudano gli occhi». Le dico che è fissata, che l'abbiamo visto troppe volte, ma lei è innamorata di Frank il coniglio.
Basta, il corto è finito. Il dolore fantasma è intenso, non posso più sopportarlo. Ciò che fa più male è che m'importa solo del fatto di avere potuto trasformare un coniglio in un cazzo di tossico con l'uncino.
Vedo altri fantasmi attorno a me; uomini, donne e bambini. Insomma, c'è di tutto. I protagonisti e gli antagonisti, comparse comprese, della mia vita. Stanno fermi, tutti accalcati, ad asfissiarmi.
Lasciatemi in pace. Non la voglio la carrellata dei momenti di un'esistenza che ho scelto di cucinarmi su un cucchiaio. Bruciati e, infine, cancellati del tutto da una pillola.
Ritrovo la forza per urlare: «Frank!»
Ma lui non risponde, sento solo il suo nasone che respira. Ora sono davvero solo.
«Avresti dovuto portarmi indietro nel tempo, coniglio di merda!»
Frank se la ride mischiato in quella ressa di anonimi che stanno fermi ad osservarmi.
Poi tutto finisce, così come è iniziato. Ritrovo i contorni della mia stanza. Rinsavito del tutto mi alzo per sgranchirmi. Apro la finestra e mi affaccio al mondo esterno. Inspiro a pieni polmoni, l'aria mattutina mi affranca dal lezzo dell'appartamento. Eppure, è come se qualcosa fosse rimasta incastrata, me la sento appiccicata addosso, come del cibo tra i denti.
È una storia, una delle tante, una di quelle che non mi appartengono più. Mi piacerebbe staccarmela di dosso, contemplarla e poterla raccontare. Ma non posso. Per un breve lasso di tempo mi ritrovo a pensare a chi perde un caro amico. Un velo si frappone tra me e quel pensiero, e penso a quanto mi piacerebbe poter distendere le braccia, rilassare i muscoli e, infine, stringere i pugni. Purtroppo, però, non esiste scatola abbastanza grande per contenere i miei fantasmi, né specchio che possa rifletterli.