[Caronte] La prima notte
Posted: Sun Jan 31, 2021 11:27 am
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La prima notte
La sera cala le sue ali sulla città. È un uccello enorme che si spiega in volo, ma è silenzioso e ha il passo felpato di un felino. La luce si fa calda, non offende più la vista con la sua arroganza vigorosa, i contorni si stemperano, si fanno lievi e dolci. Il tempo di accorgersene ed è già tardi, il cielo si fa scuro. Segno che un altro giorno se n'è andato. Un'altra occasione persa.
Anselmo si fruga le tasche. Con una mano conta gli spiccioli che ha messo da parte per telefonare a Mario, con l'altra tormenta il foglietto in cui ha appuntato il numero. Potrebbe chiamarlo ancora, non è troppo tardi in fondo. Lo tira fuori e lo guarda, per farsi coraggio. Il numero si legge appena, a furia di sfregarlo sta sfumando. Lavato via dal sudore delle sue mani e dall'esitazione.
È tuo fratello, come potrebbe non esserti d'aiuto. Le parole della ex moglie erano logiche ma Anselmo ne sentiva l'eco falsa e beffarda. Se lei non voleva aiutarlo perché avrebbe dovuto farlo lui?
Ti è rimasto solo lui, devi farti coraggio e chiamarlo. Sì, le aveva detto, lo farò e aveva preso il foglietto e l'aveva arrotolato. Ci aveva provato, qualche volta. Era arrivato a digitare il numero intero e a fare uno squillo. Ma poi aveva riattaccato.
Anselmo si appoggia al parapetto del ponte monumentale. Si affaccia a guardare la via di sotto. Un brulichio di gente suggerisce l'ora di cena imminente, i passanti si affrettano a tornare a casa, il traffico si intensifica in un ultimo guizzo caotico prima della calma serale. Gli viene in mente una storia che ha sentito su quel ponte, una di quelle storie che si presumono vere ma che nessuno si è preso la briga di verificare perché ormai vivono di vita propria. Un suicida di molti anni prima si è lanciato da qui. È caduto su una donna che passava sotto e si è salvato. La donna, invece, è rimasta paralizzata dalla vita in giù. Non sa bene perché, ma quella storia gli sembra simile alla sua. Anche lui sta precipitando verso la fine. Se nella caduta incontrerà qualcuno che ne attutirà il tonfo, forse si salverebbe. Ma quel qualcuno ne pagherebbe le spese.
Toccherebbe a Mario, questa volta.
Arrotola di nuovo il foglietto spiegazzato e si avvia verso il Cottolengo. Da lontano vede che c'è una fila fuori. Gente sgangherata a cui ancora non si sente affine. Un volontario esce fuori con una cartellina in mano.
- Ci sono ancora quattro posti liberi per stanotte - dice. Il suo sguardo è dispiaciuto ma nei suoi occhi si può leggere un'impotenza che conosce bene.
Il primo della fila non può entrare perché ha un cane e gli animali non sono ammessi. Entrano tutti quelli prima di Anselmo e rimangono solo loro davanti al portone chiuso.
- È venerdì, - dice quello col cane - è più difficile trovare posto.
- Ma tu non lo sapevi che non puoi entrare? - gli chiede, tanto per dire qualcosa che possa avvicinarlo a lui, il germe del riconoscimento di un destino comune, anche solo per quella notte.
- Sì, ma ci ho provato lo stesso. A volte c'è un altro volontario che chiude un occhio.
Il ragazzo sorride. I denti guasti rendono sinistro il suo sorriso. Poi se ne va senza salutare. La strada non è un luogo in cui è bene tenersi compagnia, se non ce n'è motivo.
Anselmo si mette in cammino, verso dove non lo sa, ma intuisce che finché si muove c'è speranza. Fermarsi è cedere, accettare una sorte che potrebbe dire di aver scelto se non fosse che è stata lei a scegliere lui. I passi lo portano verso la stazione. Tutti i profughi della società arrivano lì, ci passano attraverso, ci sostano, la eleggono anche a dimora. Quelli come Anselmo, che ancora non sanno di esserne parte, si illudono di mimetizzarsi tra la gente di passaggio, tra coloro per cui è un luogo di partenze e di arrivi e non una meta.
La sala di attesa è aperta. Anselmo si siede in un angolo e si appisola, confortato dal calore. Quando si sveglia percepisce subito che è arrivata un'altra fase della notte, quella in cui non ci sono treni da aspettare. Un'altra umanità popola la stanza. C'è una coppia di mezz'età. Lei ha i capelli tinti di un rosso innaturale ed è sovrappeso, sembra ubriaca. Si sta lamentando di qualcuno, continua a ripetere che se non arriva pianta un casino. Lui non parla e si limita ad annuire. Un uomo più giovane si sta rollando con meticolosità una sigaretta. L'aria è viziata e vi è un che di allarmato nei gesti e nelle parole di ognuno, ma Anselmo ci si sta già abituando, potrebbe anche addormentarsi di nuovo se non arrivasse una coppia di poliziotti a sgomberare la sala. Un ferroviere la chiude con un catenaccio.
Anselmo se ne va a un binario, come se dovesse davvero partire e si siede su una panchina di marmo. Il freddo della pietra gli penetra subito addosso, attraverso i vestiti. I vagoni fermi al binario sono involucri vuoti, una locomotiva sbuffa di tanto in tanto, come un animale morente.
Resiste lì per qualche ora, stordito dal freddo e dall'inerzia. Il tempo sembra incantato, sospeso come una nebbiolina leggera. La notte è infinita.
Prova a spostarsi ancora. Cambia binario, torna all'ingresso principale, esce all'esterno e ripete il percorso qualche volta. Si ritrova ancora su quella panchina gelata. Deve esserci un qualche meccanismo nei suoi passi che lo fa sostare laddove è già stato, un istinto primordiale che segue il corpo per trovare riparo. Anselmo pensa ai nostri antenati, alle foreste, agli alberi, agli anfratti in cui si rifugiavano. I corpi addormentati sulla terra nuda, prima che fossero inventate capanne e palafitte.
Nel sottopassaggio verso i binari sotterranei ci sono delle persone che dormono. Fagotti di umanità e coperte, addossati alla parete in una fila ordinata. Ognuno giace su un pezzo di cartone, che disegna uno spazio personale, come se fossero letti in un dormitorio. Anselmo esita, sente di essere arrivato a un punto di arrivo, sia della notte che della sua vita. Sa che se cede adesso, se si stende lì accanto a uno di quei corpi, è finita.
Uno dei fagotti si agita, un viso emerge dal sacco a pelo:
- Qui non puoi stare - gli dice - Questo posto è mio.
Anselmo si sposta più in là. Ha l'impressione che quelle persone siano una famiglia, una comunità, in cui lui non può entrare come se niente fosse.
Si accuccia a terra, lo zaino in grembo, senza osare stendersi, come se quello fosse il suo ultimo baluardo di appartenenza alla società. Gli altri senzatetto non gli dicono nulla, vuol dire che lì può stare.
La resistenza residua inizia a cedere, lascia piano gli ormeggi attraverso il sonno. È un confine invisibile tra ciò che era e ciò che sarà la sua vita, una spaccatura insanabile, ma la sta attraversando. Domani non potrà che constatare di essere approdato dall'altro lato.
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La prima notte
La sera cala le sue ali sulla città. È un uccello enorme che si spiega in volo, ma è silenzioso e ha il passo felpato di un felino. La luce si fa calda, non offende più la vista con la sua arroganza vigorosa, i contorni si stemperano, si fanno lievi e dolci. Il tempo di accorgersene ed è già tardi, il cielo si fa scuro. Segno che un altro giorno se n'è andato. Un'altra occasione persa.
Anselmo si fruga le tasche. Con una mano conta gli spiccioli che ha messo da parte per telefonare a Mario, con l'altra tormenta il foglietto in cui ha appuntato il numero. Potrebbe chiamarlo ancora, non è troppo tardi in fondo. Lo tira fuori e lo guarda, per farsi coraggio. Il numero si legge appena, a furia di sfregarlo sta sfumando. Lavato via dal sudore delle sue mani e dall'esitazione.
È tuo fratello, come potrebbe non esserti d'aiuto. Le parole della ex moglie erano logiche ma Anselmo ne sentiva l'eco falsa e beffarda. Se lei non voleva aiutarlo perché avrebbe dovuto farlo lui?
Ti è rimasto solo lui, devi farti coraggio e chiamarlo. Sì, le aveva detto, lo farò e aveva preso il foglietto e l'aveva arrotolato. Ci aveva provato, qualche volta. Era arrivato a digitare il numero intero e a fare uno squillo. Ma poi aveva riattaccato.
Anselmo si appoggia al parapetto del ponte monumentale. Si affaccia a guardare la via di sotto. Un brulichio di gente suggerisce l'ora di cena imminente, i passanti si affrettano a tornare a casa, il traffico si intensifica in un ultimo guizzo caotico prima della calma serale. Gli viene in mente una storia che ha sentito su quel ponte, una di quelle storie che si presumono vere ma che nessuno si è preso la briga di verificare perché ormai vivono di vita propria. Un suicida di molti anni prima si è lanciato da qui. È caduto su una donna che passava sotto e si è salvato. La donna, invece, è rimasta paralizzata dalla vita in giù. Non sa bene perché, ma quella storia gli sembra simile alla sua. Anche lui sta precipitando verso la fine. Se nella caduta incontrerà qualcuno che ne attutirà il tonfo, forse si salverebbe. Ma quel qualcuno ne pagherebbe le spese.
Toccherebbe a Mario, questa volta.
Arrotola di nuovo il foglietto spiegazzato e si avvia verso il Cottolengo. Da lontano vede che c'è una fila fuori. Gente sgangherata a cui ancora non si sente affine. Un volontario esce fuori con una cartellina in mano.
- Ci sono ancora quattro posti liberi per stanotte - dice. Il suo sguardo è dispiaciuto ma nei suoi occhi si può leggere un'impotenza che conosce bene.
Il primo della fila non può entrare perché ha un cane e gli animali non sono ammessi. Entrano tutti quelli prima di Anselmo e rimangono solo loro davanti al portone chiuso.
- È venerdì, - dice quello col cane - è più difficile trovare posto.
- Ma tu non lo sapevi che non puoi entrare? - gli chiede, tanto per dire qualcosa che possa avvicinarlo a lui, il germe del riconoscimento di un destino comune, anche solo per quella notte.
- Sì, ma ci ho provato lo stesso. A volte c'è un altro volontario che chiude un occhio.
Il ragazzo sorride. I denti guasti rendono sinistro il suo sorriso. Poi se ne va senza salutare. La strada non è un luogo in cui è bene tenersi compagnia, se non ce n'è motivo.
Anselmo si mette in cammino, verso dove non lo sa, ma intuisce che finché si muove c'è speranza. Fermarsi è cedere, accettare una sorte che potrebbe dire di aver scelto se non fosse che è stata lei a scegliere lui. I passi lo portano verso la stazione. Tutti i profughi della società arrivano lì, ci passano attraverso, ci sostano, la eleggono anche a dimora. Quelli come Anselmo, che ancora non sanno di esserne parte, si illudono di mimetizzarsi tra la gente di passaggio, tra coloro per cui è un luogo di partenze e di arrivi e non una meta.
La sala di attesa è aperta. Anselmo si siede in un angolo e si appisola, confortato dal calore. Quando si sveglia percepisce subito che è arrivata un'altra fase della notte, quella in cui non ci sono treni da aspettare. Un'altra umanità popola la stanza. C'è una coppia di mezz'età. Lei ha i capelli tinti di un rosso innaturale ed è sovrappeso, sembra ubriaca. Si sta lamentando di qualcuno, continua a ripetere che se non arriva pianta un casino. Lui non parla e si limita ad annuire. Un uomo più giovane si sta rollando con meticolosità una sigaretta. L'aria è viziata e vi è un che di allarmato nei gesti e nelle parole di ognuno, ma Anselmo ci si sta già abituando, potrebbe anche addormentarsi di nuovo se non arrivasse una coppia di poliziotti a sgomberare la sala. Un ferroviere la chiude con un catenaccio.
Anselmo se ne va a un binario, come se dovesse davvero partire e si siede su una panchina di marmo. Il freddo della pietra gli penetra subito addosso, attraverso i vestiti. I vagoni fermi al binario sono involucri vuoti, una locomotiva sbuffa di tanto in tanto, come un animale morente.
Resiste lì per qualche ora, stordito dal freddo e dall'inerzia. Il tempo sembra incantato, sospeso come una nebbiolina leggera. La notte è infinita.
Prova a spostarsi ancora. Cambia binario, torna all'ingresso principale, esce all'esterno e ripete il percorso qualche volta. Si ritrova ancora su quella panchina gelata. Deve esserci un qualche meccanismo nei suoi passi che lo fa sostare laddove è già stato, un istinto primordiale che segue il corpo per trovare riparo. Anselmo pensa ai nostri antenati, alle foreste, agli alberi, agli anfratti in cui si rifugiavano. I corpi addormentati sulla terra nuda, prima che fossero inventate capanne e palafitte.
Nel sottopassaggio verso i binari sotterranei ci sono delle persone che dormono. Fagotti di umanità e coperte, addossati alla parete in una fila ordinata. Ognuno giace su un pezzo di cartone, che disegna uno spazio personale, come se fossero letti in un dormitorio. Anselmo esita, sente di essere arrivato a un punto di arrivo, sia della notte che della sua vita. Sa che se cede adesso, se si stende lì accanto a uno di quei corpi, è finita.
Uno dei fagotti si agita, un viso emerge dal sacco a pelo:
- Qui non puoi stare - gli dice - Questo posto è mio.
Anselmo si sposta più in là. Ha l'impressione che quelle persone siano una famiglia, una comunità, in cui lui non può entrare come se niente fosse.
Si accuccia a terra, lo zaino in grembo, senza osare stendersi, come se quello fosse il suo ultimo baluardo di appartenenza alla società. Gli altri senzatetto non gli dicono nulla, vuol dire che lì può stare.
La resistenza residua inizia a cedere, lascia piano gli ormeggi attraverso il sonno. È un confine invisibile tra ciò che era e ciò che sarà la sua vita, una spaccatura insanabile, ma la sta attraversando. Domani non potrà che constatare di essere approdato dall'altro lato.