[Caronte] Primo banco
Posted: Sun Jan 31, 2021 7:32 am
Commento
Racconto migrato
Il mio è l’ultimo banco, ma la prof. Nelli non lo sa. Per forza, è nuova, insegna alle gloriose scuole medie Quercino da ben due settimane. Tutte le volte in cui abbiamo lezione con lei, grida: «Antonio! Primo banco!»
Dice, la prof. Nelli, di aver capito subito con chi ha a che fare.
Arraffo zaino e quaderni e mi trascino tra banchi e compagni con il passo del condannato a morte fino ad arrivare all’orribilissimo primo banco dove mi piazzo a gambe larghe. Punto i gomiti, pianto gli occhi sugli occhiali della prof. Nelli e ci metto dentro tutto quello che penso di lei. Ecco, in quei momenti riesco a tenere la bocca chiusa senza sforzo.
Secondo la prof. stare in primo banco mi costringerà a stare più attento.
Dice, la prof. Nelli, che sono distratto.
Il problema non è che io sia distratto è che riesco a tenere i miei pensieri chiusi in bocca solo per pochi secondi alla volta; primo o ultimo banco ha poca importanza.
Oggi sono finito a fianco di quella schiappa di Leo, solo perché Marta, la sua fidanzatina, è a casa con la febbre. Non vedo perché Leo non faccia i compiti anche per me senza che io debba rubarglieli. Credo proprio che oggi dovrò spiegarglielo, non ho intenzione di dover testimoniare alle sue facce da vittima come l’anno scorso. Cosa pensa? Che mi faccia piacere vedere che figure fa con i prof. quando si presenta senza compiti? Che poi, certo, loro sospettano che dietro ci sia il mio zampino, ma come dimostrarlo?
Il primo banco è da sfigati, da secchioni, da nerd, il primo banco è da gente con gli occhiali e invece io ci vedo benissimo. La prima volta che mi hanno trasferito qua davanti mi sembrava di stare in un’altra classe, c’è tutta un’altra prospettiva da qui.
«Hei, Leo, mi hai portato i compiti?»
«Shhh, la prof. sta spiegando!» mi ha rimproverato subito lui, forse sperando che mi sarei lasciato distrarre.
«Se pensi che finisca così, ti sbagli di grosso,» bisbiglio con la miglior voce da killer che ho in repertorio. «Me li devi, o finisce male.»
Leo si volta e mi osserva per quasi mezzo minuto: è serio, forse è la prima volta che lo guardo negli occhi. Non c’è paura nel suo sguardo, c’è qualcosa che non capisco e che non mi piace per niente, mi ricorda mia nonna e lei non c’è più. Mi fa sentire piccolo, sbagliato. Mi fa venire da piangere, così gli pianto una gomitata nelle costole mentre con la mano spazzo il banco e tutto vola a terra.
«Antonio!» grida la prof. «Fila subito dal preside, non voglio perdere del tempo con te.»
Dice, la prof. Nelli, che la presidenza è dove merito di stare.
Do un calcio al banco e faccio strepitare le gambe di ferro della sedia sul pavimento di finto marmo ancora prima che la prof. abbia chiuso la bocca. Sento gli occhi di tutti puntati addosso e mi faccio più alto, butto indietro la testa e sghignazzo. Vedo la temperatura salire dal collo fino alla cima dei capelli della prof.; tra poco esploderà.
«Non è stata colpa di Toni, prof.» interviene Leo, e in classe cala un silenzio così profondo che riesco a sentire i pensieri di tutti volteggiare impazziti come canarini in gabbia. «Mi è scivolata la penna e, cercando di prenderla, ho buttato giù tutto.»
Credo che per la prima volta, da quando ci conosciamo, io e la prof. ci sentiamo nello stesso modo e questo non piace a nessuno dei due, si vede bene dalla faccia di entrambi.
«Ne sei sicuro, Leonardo?»
«Certo, prof.» dice il mio compagno di banco come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Mi scusi per la confusione.»
Leo fa per alzarsi, immagino voglia andare a raccogliere i quaderni e le penne rotolate fino alla cattedra, visto quanto siamo vicini.
Per un momento, mi pare di essere una statua di sale, poi sbuffo e lo strato rigido che mi ricopre si sgretola spargendosi sul pavimento. Pianto una mano sulla spalla di Leo e lo costringo a risedersi con un tonfo. La prof. sobbalza, apre la bocca poi la richiude, Leo si volta e mi guarda da sotto in su, ma io ho la strana sensazione di essere io a guardarlo dal basso.
Faccio il giro del banco calpestando i frammenti della mia armatura di sale: cric croc crac scricchiolano sotto le suole. È l’unico rumore in questa classe di venticinque persone più una che si aspettano da me qualcosa di clamoroso. Mi piace stupirli, tenerli sull’attenti. Mi temono. Mi vedono.
Mi chino e raccolgo dei fogli sparsi, il quaderno e le penne. I piedi della prof. fanno tac tac sotto la cattedra. Ridacchio, so che si sta sporgendo da sopra di me per vedere cosa faccio, per essere pronta a intervenire. So che tutta la classe sta allungando il collo e si chiede quale sarà la mia prossima mossa.
Stringo tra le mani il bottino e mi raddrizzo, venticinque teste seguono il mio movimento. Faccio uno scatto minuscolo, così, tanto per prendermi una soddisfazione. Venticinque paia di occhi scattano con me. «Ecco qua, Leo.»
«Grazie, Toni.»
E questo è tutto.
Dice, la prof. Nelli, che qualche volta troppe parole tolgono importanza al succo del discorso.
Così mi limito a un’alzata di spalle, poi torno a sedermi di fianco a Leo.
La prof. Nelli ricomincia a spiegare.
Racconto migrato
Il mio è l’ultimo banco, ma la prof. Nelli non lo sa. Per forza, è nuova, insegna alle gloriose scuole medie Quercino da ben due settimane. Tutte le volte in cui abbiamo lezione con lei, grida: «Antonio! Primo banco!»
Dice, la prof. Nelli, di aver capito subito con chi ha a che fare.
Arraffo zaino e quaderni e mi trascino tra banchi e compagni con il passo del condannato a morte fino ad arrivare all’orribilissimo primo banco dove mi piazzo a gambe larghe. Punto i gomiti, pianto gli occhi sugli occhiali della prof. Nelli e ci metto dentro tutto quello che penso di lei. Ecco, in quei momenti riesco a tenere la bocca chiusa senza sforzo.
Secondo la prof. stare in primo banco mi costringerà a stare più attento.
Dice, la prof. Nelli, che sono distratto.
Il problema non è che io sia distratto è che riesco a tenere i miei pensieri chiusi in bocca solo per pochi secondi alla volta; primo o ultimo banco ha poca importanza.
Oggi sono finito a fianco di quella schiappa di Leo, solo perché Marta, la sua fidanzatina, è a casa con la febbre. Non vedo perché Leo non faccia i compiti anche per me senza che io debba rubarglieli. Credo proprio che oggi dovrò spiegarglielo, non ho intenzione di dover testimoniare alle sue facce da vittima come l’anno scorso. Cosa pensa? Che mi faccia piacere vedere che figure fa con i prof. quando si presenta senza compiti? Che poi, certo, loro sospettano che dietro ci sia il mio zampino, ma come dimostrarlo?
Il primo banco è da sfigati, da secchioni, da nerd, il primo banco è da gente con gli occhiali e invece io ci vedo benissimo. La prima volta che mi hanno trasferito qua davanti mi sembrava di stare in un’altra classe, c’è tutta un’altra prospettiva da qui.
«Hei, Leo, mi hai portato i compiti?»
«Shhh, la prof. sta spiegando!» mi ha rimproverato subito lui, forse sperando che mi sarei lasciato distrarre.
«Se pensi che finisca così, ti sbagli di grosso,» bisbiglio con la miglior voce da killer che ho in repertorio. «Me li devi, o finisce male.»
Leo si volta e mi osserva per quasi mezzo minuto: è serio, forse è la prima volta che lo guardo negli occhi. Non c’è paura nel suo sguardo, c’è qualcosa che non capisco e che non mi piace per niente, mi ricorda mia nonna e lei non c’è più. Mi fa sentire piccolo, sbagliato. Mi fa venire da piangere, così gli pianto una gomitata nelle costole mentre con la mano spazzo il banco e tutto vola a terra.
«Antonio!» grida la prof. «Fila subito dal preside, non voglio perdere del tempo con te.»
Dice, la prof. Nelli, che la presidenza è dove merito di stare.
Do un calcio al banco e faccio strepitare le gambe di ferro della sedia sul pavimento di finto marmo ancora prima che la prof. abbia chiuso la bocca. Sento gli occhi di tutti puntati addosso e mi faccio più alto, butto indietro la testa e sghignazzo. Vedo la temperatura salire dal collo fino alla cima dei capelli della prof.; tra poco esploderà.
«Non è stata colpa di Toni, prof.» interviene Leo, e in classe cala un silenzio così profondo che riesco a sentire i pensieri di tutti volteggiare impazziti come canarini in gabbia. «Mi è scivolata la penna e, cercando di prenderla, ho buttato giù tutto.»
Credo che per la prima volta, da quando ci conosciamo, io e la prof. ci sentiamo nello stesso modo e questo non piace a nessuno dei due, si vede bene dalla faccia di entrambi.
«Ne sei sicuro, Leonardo?»
«Certo, prof.» dice il mio compagno di banco come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Mi scusi per la confusione.»
Leo fa per alzarsi, immagino voglia andare a raccogliere i quaderni e le penne rotolate fino alla cattedra, visto quanto siamo vicini.
Per un momento, mi pare di essere una statua di sale, poi sbuffo e lo strato rigido che mi ricopre si sgretola spargendosi sul pavimento. Pianto una mano sulla spalla di Leo e lo costringo a risedersi con un tonfo. La prof. sobbalza, apre la bocca poi la richiude, Leo si volta e mi guarda da sotto in su, ma io ho la strana sensazione di essere io a guardarlo dal basso.
Faccio il giro del banco calpestando i frammenti della mia armatura di sale: cric croc crac scricchiolano sotto le suole. È l’unico rumore in questa classe di venticinque persone più una che si aspettano da me qualcosa di clamoroso. Mi piace stupirli, tenerli sull’attenti. Mi temono. Mi vedono.
Mi chino e raccolgo dei fogli sparsi, il quaderno e le penne. I piedi della prof. fanno tac tac sotto la cattedra. Ridacchio, so che si sta sporgendo da sopra di me per vedere cosa faccio, per essere pronta a intervenire. So che tutta la classe sta allungando il collo e si chiede quale sarà la mia prossima mossa.
Stringo tra le mani il bottino e mi raddrizzo, venticinque teste seguono il mio movimento. Faccio uno scatto minuscolo, così, tanto per prendermi una soddisfazione. Venticinque paia di occhi scattano con me. «Ecco qua, Leo.»
«Grazie, Toni.»
E questo è tutto.
Dice, la prof. Nelli, che qualche volta troppe parole tolgono importanza al succo del discorso.
Così mi limito a un’alzata di spalle, poi torno a sedermi di fianco a Leo.
La prof. Nelli ricomincia a spiegare.