La piscina
Un edificio come gli altri, squadrato e anonimo. Mi soffermo a guardarlo un istante appena, giusto il tempo di notare quanto è brutto.
"Fedett medence": leggo nelll'insegna in ottone. Deve essere piuttosto vecchia, visto che riporta una traduzione in caratteri cirillici. Accanto hanno appeso un moderno cartellino plastificato in cui campeggia la scritta "swimming pool" con tanto di simbolo, una serie di linee ondulate da cui emergono un pallino e un segmento. Più che un uomo che nuota, sembra un naufrago che affonda mentre chiede aiuto. Il disegno stilizzato mi dà la spinta definitiva per entrare.
La donna alla biglietteria ha un'espressione scocciata che si acuisce quando deve ripetermi il prezzo del biglietto. Lo fa alla stessa identica velocità. Non mi abituerò mai a questi suoni gutturali e sincopati.
Cosa mi abbia fatto convincere a fare un abbonamento, non saprei dirlo. Non certo l'approvazione di mia figlia:
- Finalmente! - mi ha detto quando le ho chiesto se conoscesse una piscina vicino a casa - Ti sei decisa a fare qualcosa per te stessa, per tirarti su.
Quasi le ho riso in faccia. Mi sono trattenuta: altro che tirarsi su, l'idea era andare giù, semmai, sempre più giù, fino ad affondare. Quello che più mi manca qui è proprio il mare. Ma non per la sua bellezza, per passeggiare sulla riva al tramonto o altre simili sciocchezze romantiche, mi manca quella massa d'acqua scura e torbida delle giornate nuvolose, quando non si vede il fondo e il mare agitato odora di naufragio. Mi piacerebbe nuotare fino al largo, oltre le boe, e perdermi tra le onde.
La verità è che sono una vigliacca. Non c'è bisogno del mare per affondare. Qui c'è il fiume, volendo, e anche un lago, basta prendere un treno. Ma, no, non è quello che cerco. Per ora voglio solo assaporare il preludio della morte, tastarne la temperatura, come si fa con i piedi prima di immergersi nell'acqua fredda. Lasciare che il mio corpo si sciolga nel liquido, che si decomponga poco alla volta, come un cadavere in una pozza.
- Ingyenes úszni - dico alla donna.
- Nem értettem.
Non capisce. Úszni è nuotare. Provo con úszás, non ho mai capito come si usano i verbi e i sostantivi in questa maledetta lingua, o forse sarebbe meglio dire che non ho mai voluto capire. Úszás, nuotare, ingyenes, libero, le dico. Voglio solo nuotare, non voglio un istruttore o fare un corso.
- Igen - dice. Deve aver capito.
Superato il consueto scoglio linguistico mi addentro nel ventre della balena.
Percorro un piccolo corridoio ed entro nello spogliatoio. L'aria è calda e spessa. Mi spoglio e mi metto il costume. Con me ci sono altre donne che parlano tra loro. Capisco la metà di quello che dicono, ma l'atto di svestirsi e avvolgersi negli accappatoi mi trasmette un inedito senso di comunanza con loro, lo stesso che si prova quando si è ricoverati tra estranei in una corsia di ospedale. Prima di entrare nella vasca, passo dal locale delle docce e sono costretta a mettere i piedi nella vaschetta per la disinfezione dei piedi. Mi viene in mente che bisognerebbe fare la doccia prima di entrare, ma che nessuno la fa, né nel mio paese, né qui, a quanto pare. I piedi però non sfuggono al rituale di pulizia.
Dunque entro nella piscina vera e propria. Una violenta serie di sensazioni mi investe. L'aria ancora più spessa e umida mi avvolge la pelle, mi immergo dentro un rumore di fondo attutito e ovattato, inconfondibile, e infine aspiro con voluttà l'odore, l'effluvio acre del cloro.
Mi ritrovo, nel mio corpo di adulta, scaraventata nella carne di quello di me bambina. Affiorano dal nulla a cui erano relegati i lunghi inverni delle elementari, scanditi dal corso di nuoto tre volte a settimana. La mamma credeva che il nuoto facesse bene alla crescita e aveva obbligato tutti i suoi figli a iscriversi in piscina. Io avrei preferito fare danza classica, ma mi sarebbe dispiaciuto contrariare la mamma, che adoravo.
Raggiungo il bordo vasca dopo aver appeso l'accappatoio e allineo le mie ciabatte accanto alle altre. Tutte insieme formano una lunga fila ordinata. L'ultimo vestigio della vita terrestre prima di poter cambiare elemento. Mi siedo sul bordo, dove spunta la scaletta, e mi infilo la cuffia. Guardo gli altri nuotatori, seminudi e con le teste imbozzolate nelle cuffie sono esseri ridotti a corpi, inermi e puri, tutti uguali come neonati appena usciti dal grembo materno.
Entro piano nell'enorme ventre della piscina, scendendo i gradini della scaletta. Pochi passi a ritroso verso l'infanzia, la propria era preistorica. Una volta immersa, il corpo cambia stato, non sottostà alle regole di terra e aria. Leggero, perde peso e vola.
Tutti quegli uomini e donne galleggiano come crisalidi a fior d'acqua, e anch'io, come loro, non sono più una külföldi, una straniera, e nemmeno un singolo essere umano, ma una libellula regredita a ninfa. Siamo larve impupate di cicala.
Immergo anche la testa. Inspiro aria ed espiro bolle d'acqua. Percorro con tutta la foga possibile la corsia a stile libero. Quando arrivo dall'altro lato ho il fiatone, ma non mi fermo. Continuo a nuotare. Fino allo sfinimento.
Mi ritrovo a pancia in giù, ferma a galleggiare mentre guardo il fondo della piscina. È uguale a quello di qualsiasi altra piscina, anzi, sono le piscine a essere tutte uguali. Continuo a guardare le piastrelle del fondo, in apnea. Basterà rimanere così ancora per qualche minuto e sarà finita. È così semplice.
Sento l'acqua che mi penetra nei polmoni, dal naso, dalla bocca, dagli occhi, da tutti i pori, e spinge le pareti del mio sterno. È stato il maestro di nuoto che mi ha buttato in mezzo alla corsia, senza braccioli. La mamma mi guarda dagli spalti, si è alzata in piedi, attenta, ma non interviene. Sento che sto morendo, non è vero che i bambini hanno l'istinto di galleggiare. Sbracciano in modo inconsulto, annaspano e poi affondano. Vedo le gambe dei nuotatori che mi scivolano vicino, gli occhi e la gola bruciano, le voci attutite sono sillabe urlate in una lingua universale, non è né italiano né ungherese, ma un esperanto che risale a prima di Babele, la lingua che il feto sente dal ventre materno, prima di potere articolare i suoni. Vedo il volto del maestro sott'acqua. Non mi tocca, né mi aiuta. L'iniziazione crudele alla piscina non lo prevede, ma è lì accanto a me. E allora riemergo, e riesco a prendere fiato, l'ossigeno entra nei polmoni a farsi spazio tra le branchie. Vado su e giù, su e giù. Finché il mio corpo capisce.
Sono attaccata alla corda che divide le corsie. Riemersa non so come. Respiro, sto respirando. E piango, ma non di disperazione, né di gioia. Piango di vita.
Nessuno si deve essere accorto che stavo affogando. Non si può annegare volontariamente, il corpo non te lo permette.
Guardo i dorsi delle mie mani coperti di goccioline. La pelle è impermeabile, idrorepellente come le piume dei cigni, non si impregna come i capelli e l'acqua scorre via. Poi guardo i palmi. La pelle è raggrinzita. Mi sono sempre chiesta come mai stare in acqua a lungo la faccia seccare. Allora inspiro una grossa boccata d'aria e mi immergo un'ultima volta. Punto verso il fondo della piscina e vado a toccarlo con le mani e dopo nuoto ancora, sott'acqua e sotto i corpi degli altri nuotatori. Fino a raggiungere il piolo più basso della scaletta. Lo afferro. Non serve decidere se rimanere sotto o risalire. Una forza che non è la mia mi spinge verso la superficie. Sono solo le mani strette alla scala a tenermi giù. Ma non lo possono fare ancora per molto.
"Fedett medence": leggo nelll'insegna in ottone. Deve essere piuttosto vecchia, visto che riporta una traduzione in caratteri cirillici. Accanto hanno appeso un moderno cartellino plastificato in cui campeggia la scritta "swimming pool" con tanto di simbolo, una serie di linee ondulate da cui emergono un pallino e un segmento. Più che un uomo che nuota, sembra un naufrago che affonda mentre chiede aiuto. Il disegno stilizzato mi dà la spinta definitiva per entrare.
La donna alla biglietteria ha un'espressione scocciata che si acuisce quando deve ripetermi il prezzo del biglietto. Lo fa alla stessa identica velocità. Non mi abituerò mai a questi suoni gutturali e sincopati.
Cosa mi abbia fatto convincere a fare un abbonamento, non saprei dirlo. Non certo l'approvazione di mia figlia:
- Finalmente! - mi ha detto quando le ho chiesto se conoscesse una piscina vicino a casa - Ti sei decisa a fare qualcosa per te stessa, per tirarti su.
Quasi le ho riso in faccia. Mi sono trattenuta: altro che tirarsi su, l'idea era andare giù, semmai, sempre più giù, fino ad affondare. Quello che più mi manca qui è proprio il mare. Ma non per la sua bellezza, per passeggiare sulla riva al tramonto o altre simili sciocchezze romantiche, mi manca quella massa d'acqua scura e torbida delle giornate nuvolose, quando non si vede il fondo e il mare agitato odora di naufragio. Mi piacerebbe nuotare fino al largo, oltre le boe, e perdermi tra le onde.
La verità è che sono una vigliacca. Non c'è bisogno del mare per affondare. Qui c'è il fiume, volendo, e anche un lago, basta prendere un treno. Ma, no, non è quello che cerco. Per ora voglio solo assaporare il preludio della morte, tastarne la temperatura, come si fa con i piedi prima di immergersi nell'acqua fredda. Lasciare che il mio corpo si sciolga nel liquido, che si decomponga poco alla volta, come un cadavere in una pozza.
- Ingyenes úszni - dico alla donna.
- Nem értettem.
Non capisce. Úszni è nuotare. Provo con úszás, non ho mai capito come si usano i verbi e i sostantivi in questa maledetta lingua, o forse sarebbe meglio dire che non ho mai voluto capire. Úszás, nuotare, ingyenes, libero, le dico. Voglio solo nuotare, non voglio un istruttore o fare un corso.
- Igen - dice. Deve aver capito.
Superato il consueto scoglio linguistico mi addentro nel ventre della balena.
Percorro un piccolo corridoio ed entro nello spogliatoio. L'aria è calda e spessa. Mi spoglio e mi metto il costume. Con me ci sono altre donne che parlano tra loro. Capisco la metà di quello che dicono, ma l'atto di svestirsi e avvolgersi negli accappatoi mi trasmette un inedito senso di comunanza con loro, lo stesso che si prova quando si è ricoverati tra estranei in una corsia di ospedale. Prima di entrare nella vasca, passo dal locale delle docce e sono costretta a mettere i piedi nella vaschetta per la disinfezione dei piedi. Mi viene in mente che bisognerebbe fare la doccia prima di entrare, ma che nessuno la fa, né nel mio paese, né qui, a quanto pare. I piedi però non sfuggono al rituale di pulizia.
Dunque entro nella piscina vera e propria. Una violenta serie di sensazioni mi investe. L'aria ancora più spessa e umida mi avvolge la pelle, mi immergo dentro un rumore di fondo attutito e ovattato, inconfondibile, e infine aspiro con voluttà l'odore, l'effluvio acre del cloro.
Mi ritrovo, nel mio corpo di adulta, scaraventata nella carne di quello di me bambina. Affiorano dal nulla a cui erano relegati i lunghi inverni delle elementari, scanditi dal corso di nuoto tre volte a settimana. La mamma credeva che il nuoto facesse bene alla crescita e aveva obbligato tutti i suoi figli a iscriversi in piscina. Io avrei preferito fare danza classica, ma mi sarebbe dispiaciuto contrariare la mamma, che adoravo.
Raggiungo il bordo vasca dopo aver appeso l'accappatoio e allineo le mie ciabatte accanto alle altre. Tutte insieme formano una lunga fila ordinata. L'ultimo vestigio della vita terrestre prima di poter cambiare elemento. Mi siedo sul bordo, dove spunta la scaletta, e mi infilo la cuffia. Guardo gli altri nuotatori, seminudi e con le teste imbozzolate nelle cuffie sono esseri ridotti a corpi, inermi e puri, tutti uguali come neonati appena usciti dal grembo materno.
Entro piano nell'enorme ventre della piscina, scendendo i gradini della scaletta. Pochi passi a ritroso verso l'infanzia, la propria era preistorica. Una volta immersa, il corpo cambia stato, non sottostà alle regole di terra e aria. Leggero, perde peso e vola.
Tutti quegli uomini e donne galleggiano come crisalidi a fior d'acqua, e anch'io, come loro, non sono più una külföldi, una straniera, e nemmeno un singolo essere umano, ma una libellula regredita a ninfa. Siamo larve impupate di cicala.
Immergo anche la testa. Inspiro aria ed espiro bolle d'acqua. Percorro con tutta la foga possibile la corsia a stile libero. Quando arrivo dall'altro lato ho il fiatone, ma non mi fermo. Continuo a nuotare. Fino allo sfinimento.
Mi ritrovo a pancia in giù, ferma a galleggiare mentre guardo il fondo della piscina. È uguale a quello di qualsiasi altra piscina, anzi, sono le piscine a essere tutte uguali. Continuo a guardare le piastrelle del fondo, in apnea. Basterà rimanere così ancora per qualche minuto e sarà finita. È così semplice.
Sento l'acqua che mi penetra nei polmoni, dal naso, dalla bocca, dagli occhi, da tutti i pori, e spinge le pareti del mio sterno. È stato il maestro di nuoto che mi ha buttato in mezzo alla corsia, senza braccioli. La mamma mi guarda dagli spalti, si è alzata in piedi, attenta, ma non interviene. Sento che sto morendo, non è vero che i bambini hanno l'istinto di galleggiare. Sbracciano in modo inconsulto, annaspano e poi affondano. Vedo le gambe dei nuotatori che mi scivolano vicino, gli occhi e la gola bruciano, le voci attutite sono sillabe urlate in una lingua universale, non è né italiano né ungherese, ma un esperanto che risale a prima di Babele, la lingua che il feto sente dal ventre materno, prima di potere articolare i suoni. Vedo il volto del maestro sott'acqua. Non mi tocca, né mi aiuta. L'iniziazione crudele alla piscina non lo prevede, ma è lì accanto a me. E allora riemergo, e riesco a prendere fiato, l'ossigeno entra nei polmoni a farsi spazio tra le branchie. Vado su e giù, su e giù. Finché il mio corpo capisce.
Sono attaccata alla corda che divide le corsie. Riemersa non so come. Respiro, sto respirando. E piango, ma non di disperazione, né di gioia. Piango di vita.
Nessuno si deve essere accorto che stavo affogando. Non si può annegare volontariamente, il corpo non te lo permette.
Guardo i dorsi delle mie mani coperti di goccioline. La pelle è impermeabile, idrorepellente come le piume dei cigni, non si impregna come i capelli e l'acqua scorre via. Poi guardo i palmi. La pelle è raggrinzita. Mi sono sempre chiesta come mai stare in acqua a lungo la faccia seccare. Allora inspiro una grossa boccata d'aria e mi immergo un'ultima volta. Punto verso il fondo della piscina e vado a toccarlo con le mani e dopo nuoto ancora, sott'acqua e sotto i corpi degli altri nuotatori. Fino a raggiungere il piolo più basso della scaletta. Lo afferro. Non serve decidere se rimanere sotto o risalire. Una forza che non è la mia mi spinge verso la superficie. Sono solo le mani strette alla scala a tenermi giù. Ma non lo possono fare ancora per molto.