[Lab18] (Erostrato) Novantasei ore di luce
Posted: Tue Nov 25, 2025 12:05 pm
(Erostrato) Novantasei ore di luce
Le feste di compleanno che organizzava mia madre erano isole di cartone: scherzi maligni che duravano il necessario per mettersi in mostra.
— Si festeggia insieme. Sarà una bellissima festa. Se la ricorderanno tutti i nostri amici.
Le candeline tossivano luce, e quella volta il nome sulla torta non era il mio.
Nessuno mi aveva chiesto se volessi essere festeggiato insieme a mio cugino.
E il suo nome, non il mio, tremolava sulla panna: “Buon compleanno Andrea”, io ero il margine, un dettaglio sfocato.
Avevo sei anni.
Il pavimento del salone era una mappa di briciole, il divano era un continente in ombra. Sul bracciolo c’era un odore sottile di polvere calda, di fibre consumate. E poi lo vidi: un buchino nella trama.
Piccolo, solo un gioco di luce. Accarezzai la stoffa con il polpastrello e fu come toccare il pelo di un animale che dorme. Il disegno era una città di strade parallele, e in mezzo, la fuga. Spinsi il dito nel buco.
Le voci arrivavano lontane e felici. Io ero rifugiato in un posto inclinato dove la luce si sposta e ti nasconde. Il dito scivolò dentro, fece strada al secondo dito e la struttura cambiò verso, si fece gola. Avvertii un lieve schiocco. L’ordito si aprì. C'era un bagliore di polvere volante. Il buco cresceva, non troppo, ma tanto bastò: Il terzo dito esplorò l'imbottitura.
Lo strappo definitivo esplose nella stanza e tutti si accorsero di me.
La mano di mia madre arrivò, rapida e calda, e si posò sul mio polso.
— Matteo! Che stai facendo?— La domanda era un faro puntato sul mio viso. Ero illuminato. Colpevole, sì, ma per la prima volta, presente.
L’intreccio cedette ancora, un millimetro, un niente. Ma quel niente fu determinante. Il rimprovero mi scivolò addosso: uno scroscio di pioggia prevista.
—Non si fa, non si tocca, guarda cosa hai combinato.
Mi morsi l’interno della guancia. Gli adulti, allarmati, parlavano di punizioni. Io, dentro, parlavo a modo mio.
Oggi parlo di peso specifico: quanto pesa un bambino quando lo si guarda davvero? E quanto il fastidio degli adulti? E i miei pochi grammi di notorietà? Avevano una consistenza o solo leggerezza?
Non piansi. Qualcosa dentro di me registrò: il pianto è inutile. La colpa è un microfono acceso e un nome non esiste finché non ferisce.
La festa continuò. Le foto, i regali, i saluti. Tutto scivolò via, dimenticato.
Tranne quel gesto che nel tempo diventò un regno. Il mio nome si guadagnò la sua definizione: “quello che ha rovinato il divano della zia.” Non era elegante, ma era il mio profilo. Lo tenni stretto, come un seme.
Poi fu un germoglio di consapevolezza piena fino ad oggi.
E non mi stupisco quando Il giornalaio non mi saluta. Le mani gli scorrono sui quotidiani, tutti quei nomi stampati. E non si ricorda il mio.
Ho all’attivo sessant'anni di invisibilità trascorsi a limare gli sguardi e a vedere gli occhi degli altri scivolare via, cercare qualcun altro oltre la mia spalla.
Una vita spesa negli uffici comunali: pratiche, conflitti sedati, firme. Mai una promozione. Non perché non la meritassi, ma perché ero già fuori dalla mappa. Collocato nell'angolo sbagliato, tra scrivanie e intenzioni, ero già trasparente.
Cammino per la città. Non saluto, non cerco nessuno.
Ma a volte basta poco per riaccendere quel filamento, lo stesso che si accese quando il bracciolo si aprì. Un commento fuori luogo alla fermata del bus. Un silenzio troppo lungo al bancone del bar. Un qualsiasi gesto minimo che inceppa la routine e qualcuno si volta.
La quiescenza è arrivata a tradimento, non ero pronto. La pensione è una stanza vuota che chiamano tempo libero. Il tempo se ne va. Io resto e penso.
Studio le abitudini della città, passeggio per le strade, mi fermo volentieri a Piazza Maggiore, osservo le persone vive gioire del sole, della compagnia dei propri simili. Mi rallegro per loro perché ancora non sanno.
Scelgo il giorno. Lo giro in bocca, ne assaggio il peso. Alcuni giorni sono troppo morbidi. Altri hanno la consistenza giusta. Una data, un’ora precisa e un luogo, prima di tutto di questo ho bisogno.
Poi il metodo. Il metodo è basilare, ci vuole disciplina.
Torno a casa, preparo il caffè.
Esco sul terrazzo, osservo il panorama che si gode dal terzo piano. Costruisco un ponte mentre sorseggio la bevanda calda. C’è un vuoto nel punto esatto dove sarò. Ci tengo che il ricordo resti.
Entro in casa. Provo la scena davanti allo specchio. Il mio volto è calmo. Gli occhi sono quelli di un uomo che ha aspettato tutta la vita.
— Piazza Maggiore, domenica 9, ore dodici. Lo dico ad alta voce. La vibrazione del tono è perfetta. Penso a come sarà dopo, solo un momento, poi lascio cadere la visione, non è il momento di pensarci. Non devo rischiare, la clemenza non fa parte della strategia.
Sono passati tre giorni dalla decisione definitiva, oggi è un giorno speciale, domani si compirà il gesto. Voglio festeggiare. Mi verso un dito di cognac e esco diretto verso la pasticceria, un piccolo sgarro alla dieta in un giorno come questo ci sta.
Stamattina piazza Maggiore è gremita. Una decina di turisti siede sul bordo della monumentale fontana, allineati come spettatori in platea.
Davanti a loro il palazzo comunale si alza come un fondale scenico, con le finestre che paiono logge e i balconi palchi laterali.
Io resto fermo al centro della piazza: il lastricato sarà il mio palcoscenico. Osservo le telecamere di sorveglianza con approvazione.
L’avessi fatto oggi!
Durante il ritorno a casa mi sorprende una tristezza improvvisa: vivo qui da sempre e ogni via di questa città mi ha visto crescere, i ricordi si accavallano. Ricordi di gente, mio padre, mia madre…poteva essere diverso da così? Ci penso con discernimento. Sulle scale, prima di aprire il portone, ho la risposta: no, non è esistito nulla che non portasse all’epilogo di domani.
Spunto le faccende fatte sulla lista strategica, sistemo con cura ogni dettaglio, vado avanti fino a quando non mi coglie il buio, chiudo le finestre, e mi preparo per una lunga notte. La mia disciplina mi impone alcuni rituali che stasera mi sembrano inutili, ma non transigo e svolgo ogni compito con certosina precisione. A letto il sonno non arriva, un dormiveglia tormentato dura per un tempo infinito. Poi l’incubo che non ricordo e che mi sveglia di soprassalto. È l’alba
Prima di uscire, mi siedo in cucina. Immagino di essere in chiesa, immagino di essere come tutti gli altri che si svuotano dei peccati in un solo colpo succhiando l’ostia.
Sorrido al mio pensiero di redenzione. Non mi serve.
Non tremo.
La mattina è chiara. L'aria ha quella qualità di vetro che hanno certi giorni di primavera.
Cammino verso la piazza con la borsa a tracolla.
Piazza Maggiore. Undici e quaranta.
La piazza è un formicaio. Un gruppo di turisti giapponesi fotografa il palazzo comunale. Una classe di bambini attraversa in fila indiana, le maestre li contano. Tavolini dei bar tutti occupati. Piccioni che beccano briciole. Un venditore di palloncini. Una coppia che si bacia vicino agli schizzi d’acqua.
Mi siedo su una panchina. La borsa tra i piedi. Respiro lentamente.
Undici e quarantacinque.
Una bambina con un gelato corre verso il centro della piazza. La crema le cola sulla mano. Ride. Ha un viso dolce, capelli mori e ricci le inondano le spalle e la maglietta rosa. Scarpe con le lucine che si accendono a ogni passo. Dietro di lei, il padre con la macchina fotografica al collo.
— Emma, aspetta. Fermati, voglio farti una foto.
Ha sei anni, forse sette. La guardo mentre si avvicina al bordo della vasca e si china a guardare l'acqua. Il padre si ferma tre metri dietro di lei. Inquadra. Sorride. Anche sua figlia ride. Il gelato continua a colare lungo l’avambraccio.
Mi alzo. Cammino verso di loro.
Prima di arrivare, alzo lo sguardo. La telecamera è lì, sul palo della luce, angolo nord-ovest della piazza. L'ho studiata per settimane. So esattamente dove punta.
Mi fermo. Guardo dritto verso l'obiettivo. Tre secondi. Voglio che il mio volto sia ben inquadrato. Voglio che non ci siano dubbi che sono io.
Poi cammino lentamente e mi posiziono davanti alla seconda telecamera, quella sul palazzo comunale. Di nuovo mi fermo. Guardo l'obiettivo. Altri tre secondi.
Appoggio la borsa alla base marmorea, sul lato est, la spingo col piede più in fondo che posso. Mi volto un'ultima volta verso la piazza. Verso tutta quella vita.
Mi inginocchio. Faccio finta di allacciare le scarpe. In realtà controllo e guardo la terza telecamera, quella della banca. Le do il mio profilo. Voglio che mi vedano da ogni angolazione.
Mi rialzo. Guardo un'ultima volta la telecamera del palazzo comunale. Sorrido. Un piccolo sorriso, quasi impercettibile. Ma so che lo vedranno. Quando rivedranno i filmati, lo vedranno.
Mi allontano. Venti passi. Trenta. Cinquanta.
Mi volto.
Emma è ancora lì, intorno ai giochi d’acqua. Il gelato è quasi finito. Il padre le dice qualcosa. Lei annuisce. Si asciuga le mani sulla maglietta.
Un piccione si posa sul porfido scuro, lo osservo beccare vicino alla borsa. Poi vola via.
Undici e cinquantacinque.
La classe di bambini si è fermata davanti al palazzo comunale. La maestra spiega qualcosa. Indica le finestre. Loro guardano in alto, annoiati. Uno si gratta il naso. Una bambina con le trecce si china ad allacciare le scarpe.
I turisti giapponesi si sono spostati vicino agli zampilli che fuoriescono dalle bocche dei delfini. Fanno foto di gruppo. Sorridono. Dicono:
— Cheese
La coppia si è seduta sul bordo del bacile. Lui le tiene la mano. Lei appoggia la testa sulla sua spalla.
Il mondo è pieno. Denso. Vivo.
Io sono l'unica cosa ferma.
Undici e cinquantotto.
Emma si è allontanata. Corre verso il padre. Le lucine delle scarpe lampeggiano rosso, blu, rosso, blu. Il padre la prende in braccio, la bacia sulla guancia.
— Facciamo ancora una foto?
Si girano. Iniziano a camminare verso il lato opposto.
Si avvicinano alla borsa.
Guardo l'orologio.
Trenta secondi.
Venti secondi.
La maestra chiama i bambini.
— Forza, ricomponiamo la fila. Adesso andiamo a vedere la biblioteca.
I bambini si raggruppano. La bambina con le trecce è ancora china sulle scarpe.
Dieci secondi.
Emma e il padre sono fermi. Lui sta inquadrando e lei ride. Sono a pochi centimetri dall’epicentro.
Cinque secondi.
Chiudo gli occhi.
Tre.
Due.
Uno.
Il suono è sbagliato. Non è un'esplosione come nei film. È più secco.
Poi il silenzio. Un secondo intero di silenzio dove la piazza trattiene il respiro. I piccioni volano via, uno stormo impazzito. L'allarme di un'auto inizia a suonare. Poi un secondo, un terzo.
Poi le grida.
Il fumo sale denso, nero. Bellissimo il contrasto con gli schizzi d’argento illuminati dal sole.
I turisti giapponesi non ci sono più. Dove erano, adesso c'è solo fumo e forme che non voglio distinguere.
La coppia è a terra. Lui sopra di lei, non si muovono.
Il venditore di palloncini è in ginocchio. Urla, i palloncini sono macchie colorate nel cielo azzurro.
La bambina con le trecce è seduta. Guarda le sue mani. Sono rosse, non capisce. Continua a guardare le sue mani.
La maestra urla nomi.
— Marco! Sofia! Luca!
alcuni bambini rispondono, altri no.
Il fumo continua a salire.
Io sono fermo. A cinquanta passi. Osservo.
Sirene in lontananza.
Un bambino piange. È uno della classe, è illeso ma piange forte, con la bocca spalancata.
Guardo tutto questo e penso: è successo. l'ho fatto succedere.
Io ho creato questo momento. Prima non esisteva. Ora esiste. Ed esisterà per sempre.
Un uomo mi passa accanto correndo, ha il volto coperto di lacrime e polvere, mi spinge senza vedermi.
Mi allontano, lentamente. Vado contro il flusso delle persone che corrono verso la piazza. Nessuno mi ferma, nessuno mi guarda.
Torno a casa. Mi tolgo le scarpe, vado a farmi un caffè.
Accendo la televisione.
Ci vogliono trentacinque minuti prima che arrivi la notizia sulla rete locale. Le immagini aeree della piazza. L'elicottero che riprende dall'alto. Il fumo, le ambulanze, i corpi coperti da teli.
—Strage in Piazza Maggiore,— La voce della giornalista trema.
—Un ordigno esplosivo. Si parla di almeno quattordici vittime. Decine di feriti.
Cambiano inquadratura. La piazza vista da terra, parte della fontana distrutta. L'acqua, che continua a scorrere oltre i bordi spezzati, si tinge di rosso
—Atto terroristico.
—Attacco premeditato. La polizia sta esaminando i filmati delle telecamere di sorveglianza.
Mi verso un altro caffè, esco sul terrazzo. Si vede e si sente il trambusto in città; Sirene, elicotteri, voci amplificate. È più di quanto immaginassi. Ora devo solo aspettare.
Passano ore. Continuano a trasmettere le stesse immagini. Le stesse frasi.
—Tragedia.
— Orrore.
— Strage.
Non ho dormito, ma stamattina, finalmente, sulle sulle reti nazionali ascolto la notizia che volevo sentirei:
— La polizia ha diffuso l'immagine dell'uomo ripreso dalle telecamere mentre posizionava l'ordigno. Se qualcuno lo riconosce è pregato di contattare immediatamente le autorità.
Sullo schermo appare la mia faccia. Il momento in cui guardavo la telecamera del palazzo comunale.
Il mio volto riempie lo schermo, un brivido di calore mi attraversa, è piacere puro.
— L'uomo,— continua la giornalista,
—si è fermato più volte davanti alle telecamere. Sembra che volesse essere ripreso.
Un moto di approvazione mi pervade.
Lo schermo cambia. Adesso trasmettono la sequenza: io che cammino verso la fontana. Io che mi fermo. Io che guardo la telecamera. Io che appoggio la borsa. Io che sorrido, Emma che corre sullo sfondo.
— Un comportamento agghiacciante,— dice l'esperto. — L'attentatore voleva essere riconosciuto.
Le manette arrivano cinque ore dopo la diffusione delle immagini.
Sfondano la porta. Mi trovano seduto al tavolo della cucina. Mi portano via in silenzio, in macchina nessuno parla.
In centrale mi fanno sedere in una stanza bianca. Un tavolo. Due sedie. Una telecamera nell'angolo. Perdo la cognizione del tempo, le ore passano. Nessuno mi da mie notizie. Mi rinchiudono in una cella, il tempo si è fermato.
Aspetto.
Non so che giorno sia, mi portano in una stanza senza finestre, sopra un tavolo c’è una bottiglia d’acqua e un bicchiere, mi ricordo che ho sete. Entra un uomo. Quarant'anni, forse cinquanta. Capelli grigi, occhi stanchi: si siede davanti a me. Appoggia una cartellina sul tavolo. La apre, poi ci ripensa.
Non parla subito. Mi guarda. Forse aspetta che sia io a dire qualcosa.
Non ho nulla da dire.
Lui è nervoso. Io resto calmo. Poi parla.
— So che tipo sei. Quindi non perdiamo tempo.
Appoggia le mani sulla cartellina.
— Parliamo di te. Di quello che volevi. Visibilità, giusto? Volevi che il mondo ti guardasse.
Non rispondo.
— Bene. Ti do una notizia. Dal momento in cui la tua faccia è apparsa in TV, il Governo ha emanato il decreto d'emergenza. Tutela della memoria delle vittime. Articolo 7: è vietato pubblicare nome, cognome, foto dell'attentatore. Tu sei già illegale.
Si sporge in avanti.
— Capisci? Il tuo nome diventa illegale. Per rispetto delle vittime.
Sento qualcosa stringersi nel petto.
— E sai cosa succede dopo? Diventi un numero Un codice negli archivi della polizia.
Mi guarda negli occhi. Io non abbasso lo sguardo, posso sostenere ben altro.
— Che giorno è oggi? lo chiedo a voce bassa, spero in una risposta fredda e breve.
— Giovedì. Tra poche ore torni ad essere quello che eri: nessuno.
Si alza. Prende la cartellina.
— Le vittime invece avranno targhe, borse di studio, panchine con i loro nomi. Ogni anno, il 9 maggio, qualcuno li dirà ad alta voce quei nomi. Marco, Lucia, Paolo. Tutti e quattordici. Tu?
Si ferma sulla porta.
—Tu non esisti più.
La porta si chiude.
Piango, non doveva andare così, non era per questo che ho ricostruito la mia identità.
Sessant’anni di invisibilità. Novantasei ore di luce. Poi di nuovo l'ombra.
Sul muro della cella, incido il mio nome ogni giorno.
Qualcuno lo cancella ogni settimana.
Io lo riscrivo.
Le feste di compleanno che organizzava mia madre erano isole di cartone: scherzi maligni che duravano il necessario per mettersi in mostra.
— Si festeggia insieme. Sarà una bellissima festa. Se la ricorderanno tutti i nostri amici.
Le candeline tossivano luce, e quella volta il nome sulla torta non era il mio.
Nessuno mi aveva chiesto se volessi essere festeggiato insieme a mio cugino.
E il suo nome, non il mio, tremolava sulla panna: “Buon compleanno Andrea”, io ero il margine, un dettaglio sfocato.
Avevo sei anni.
Il pavimento del salone era una mappa di briciole, il divano era un continente in ombra. Sul bracciolo c’era un odore sottile di polvere calda, di fibre consumate. E poi lo vidi: un buchino nella trama.
Piccolo, solo un gioco di luce. Accarezzai la stoffa con il polpastrello e fu come toccare il pelo di un animale che dorme. Il disegno era una città di strade parallele, e in mezzo, la fuga. Spinsi il dito nel buco.
Le voci arrivavano lontane e felici. Io ero rifugiato in un posto inclinato dove la luce si sposta e ti nasconde. Il dito scivolò dentro, fece strada al secondo dito e la struttura cambiò verso, si fece gola. Avvertii un lieve schiocco. L’ordito si aprì. C'era un bagliore di polvere volante. Il buco cresceva, non troppo, ma tanto bastò: Il terzo dito esplorò l'imbottitura.
Lo strappo definitivo esplose nella stanza e tutti si accorsero di me.
La mano di mia madre arrivò, rapida e calda, e si posò sul mio polso.
— Matteo! Che stai facendo?— La domanda era un faro puntato sul mio viso. Ero illuminato. Colpevole, sì, ma per la prima volta, presente.
L’intreccio cedette ancora, un millimetro, un niente. Ma quel niente fu determinante. Il rimprovero mi scivolò addosso: uno scroscio di pioggia prevista.
—Non si fa, non si tocca, guarda cosa hai combinato.
Mi morsi l’interno della guancia. Gli adulti, allarmati, parlavano di punizioni. Io, dentro, parlavo a modo mio.
Oggi parlo di peso specifico: quanto pesa un bambino quando lo si guarda davvero? E quanto il fastidio degli adulti? E i miei pochi grammi di notorietà? Avevano una consistenza o solo leggerezza?
Non piansi. Qualcosa dentro di me registrò: il pianto è inutile. La colpa è un microfono acceso e un nome non esiste finché non ferisce.
La festa continuò. Le foto, i regali, i saluti. Tutto scivolò via, dimenticato.
Tranne quel gesto che nel tempo diventò un regno. Il mio nome si guadagnò la sua definizione: “quello che ha rovinato il divano della zia.” Non era elegante, ma era il mio profilo. Lo tenni stretto, come un seme.
Poi fu un germoglio di consapevolezza piena fino ad oggi.
E non mi stupisco quando Il giornalaio non mi saluta. Le mani gli scorrono sui quotidiani, tutti quei nomi stampati. E non si ricorda il mio.
Ho all’attivo sessant'anni di invisibilità trascorsi a limare gli sguardi e a vedere gli occhi degli altri scivolare via, cercare qualcun altro oltre la mia spalla.
Una vita spesa negli uffici comunali: pratiche, conflitti sedati, firme. Mai una promozione. Non perché non la meritassi, ma perché ero già fuori dalla mappa. Collocato nell'angolo sbagliato, tra scrivanie e intenzioni, ero già trasparente.
Cammino per la città. Non saluto, non cerco nessuno.
Ma a volte basta poco per riaccendere quel filamento, lo stesso che si accese quando il bracciolo si aprì. Un commento fuori luogo alla fermata del bus. Un silenzio troppo lungo al bancone del bar. Un qualsiasi gesto minimo che inceppa la routine e qualcuno si volta.
La quiescenza è arrivata a tradimento, non ero pronto. La pensione è una stanza vuota che chiamano tempo libero. Il tempo se ne va. Io resto e penso.
Studio le abitudini della città, passeggio per le strade, mi fermo volentieri a Piazza Maggiore, osservo le persone vive gioire del sole, della compagnia dei propri simili. Mi rallegro per loro perché ancora non sanno.
Scelgo il giorno. Lo giro in bocca, ne assaggio il peso. Alcuni giorni sono troppo morbidi. Altri hanno la consistenza giusta. Una data, un’ora precisa e un luogo, prima di tutto di questo ho bisogno.
Poi il metodo. Il metodo è basilare, ci vuole disciplina.
Torno a casa, preparo il caffè.
Esco sul terrazzo, osservo il panorama che si gode dal terzo piano. Costruisco un ponte mentre sorseggio la bevanda calda. C’è un vuoto nel punto esatto dove sarò. Ci tengo che il ricordo resti.
Entro in casa. Provo la scena davanti allo specchio. Il mio volto è calmo. Gli occhi sono quelli di un uomo che ha aspettato tutta la vita.
— Piazza Maggiore, domenica 9, ore dodici. Lo dico ad alta voce. La vibrazione del tono è perfetta. Penso a come sarà dopo, solo un momento, poi lascio cadere la visione, non è il momento di pensarci. Non devo rischiare, la clemenza non fa parte della strategia.
Sono passati tre giorni dalla decisione definitiva, oggi è un giorno speciale, domani si compirà il gesto. Voglio festeggiare. Mi verso un dito di cognac e esco diretto verso la pasticceria, un piccolo sgarro alla dieta in un giorno come questo ci sta.
Stamattina piazza Maggiore è gremita. Una decina di turisti siede sul bordo della monumentale fontana, allineati come spettatori in platea.
Davanti a loro il palazzo comunale si alza come un fondale scenico, con le finestre che paiono logge e i balconi palchi laterali.
Io resto fermo al centro della piazza: il lastricato sarà il mio palcoscenico. Osservo le telecamere di sorveglianza con approvazione.
L’avessi fatto oggi!
Durante il ritorno a casa mi sorprende una tristezza improvvisa: vivo qui da sempre e ogni via di questa città mi ha visto crescere, i ricordi si accavallano. Ricordi di gente, mio padre, mia madre…poteva essere diverso da così? Ci penso con discernimento. Sulle scale, prima di aprire il portone, ho la risposta: no, non è esistito nulla che non portasse all’epilogo di domani.
Spunto le faccende fatte sulla lista strategica, sistemo con cura ogni dettaglio, vado avanti fino a quando non mi coglie il buio, chiudo le finestre, e mi preparo per una lunga notte. La mia disciplina mi impone alcuni rituali che stasera mi sembrano inutili, ma non transigo e svolgo ogni compito con certosina precisione. A letto il sonno non arriva, un dormiveglia tormentato dura per un tempo infinito. Poi l’incubo che non ricordo e che mi sveglia di soprassalto. È l’alba
Prima di uscire, mi siedo in cucina. Immagino di essere in chiesa, immagino di essere come tutti gli altri che si svuotano dei peccati in un solo colpo succhiando l’ostia.
Sorrido al mio pensiero di redenzione. Non mi serve.
Non tremo.
La mattina è chiara. L'aria ha quella qualità di vetro che hanno certi giorni di primavera.
Cammino verso la piazza con la borsa a tracolla.
Piazza Maggiore. Undici e quaranta.
La piazza è un formicaio. Un gruppo di turisti giapponesi fotografa il palazzo comunale. Una classe di bambini attraversa in fila indiana, le maestre li contano. Tavolini dei bar tutti occupati. Piccioni che beccano briciole. Un venditore di palloncini. Una coppia che si bacia vicino agli schizzi d’acqua.
Mi siedo su una panchina. La borsa tra i piedi. Respiro lentamente.
Undici e quarantacinque.
Una bambina con un gelato corre verso il centro della piazza. La crema le cola sulla mano. Ride. Ha un viso dolce, capelli mori e ricci le inondano le spalle e la maglietta rosa. Scarpe con le lucine che si accendono a ogni passo. Dietro di lei, il padre con la macchina fotografica al collo.
— Emma, aspetta. Fermati, voglio farti una foto.
Ha sei anni, forse sette. La guardo mentre si avvicina al bordo della vasca e si china a guardare l'acqua. Il padre si ferma tre metri dietro di lei. Inquadra. Sorride. Anche sua figlia ride. Il gelato continua a colare lungo l’avambraccio.
Mi alzo. Cammino verso di loro.
Prima di arrivare, alzo lo sguardo. La telecamera è lì, sul palo della luce, angolo nord-ovest della piazza. L'ho studiata per settimane. So esattamente dove punta.
Mi fermo. Guardo dritto verso l'obiettivo. Tre secondi. Voglio che il mio volto sia ben inquadrato. Voglio che non ci siano dubbi che sono io.
Poi cammino lentamente e mi posiziono davanti alla seconda telecamera, quella sul palazzo comunale. Di nuovo mi fermo. Guardo l'obiettivo. Altri tre secondi.
Appoggio la borsa alla base marmorea, sul lato est, la spingo col piede più in fondo che posso. Mi volto un'ultima volta verso la piazza. Verso tutta quella vita.
Mi inginocchio. Faccio finta di allacciare le scarpe. In realtà controllo e guardo la terza telecamera, quella della banca. Le do il mio profilo. Voglio che mi vedano da ogni angolazione.
Mi rialzo. Guardo un'ultima volta la telecamera del palazzo comunale. Sorrido. Un piccolo sorriso, quasi impercettibile. Ma so che lo vedranno. Quando rivedranno i filmati, lo vedranno.
Mi allontano. Venti passi. Trenta. Cinquanta.
Mi volto.
Emma è ancora lì, intorno ai giochi d’acqua. Il gelato è quasi finito. Il padre le dice qualcosa. Lei annuisce. Si asciuga le mani sulla maglietta.
Un piccione si posa sul porfido scuro, lo osservo beccare vicino alla borsa. Poi vola via.
Undici e cinquantacinque.
La classe di bambini si è fermata davanti al palazzo comunale. La maestra spiega qualcosa. Indica le finestre. Loro guardano in alto, annoiati. Uno si gratta il naso. Una bambina con le trecce si china ad allacciare le scarpe.
I turisti giapponesi si sono spostati vicino agli zampilli che fuoriescono dalle bocche dei delfini. Fanno foto di gruppo. Sorridono. Dicono:
— Cheese
La coppia si è seduta sul bordo del bacile. Lui le tiene la mano. Lei appoggia la testa sulla sua spalla.
Il mondo è pieno. Denso. Vivo.
Io sono l'unica cosa ferma.
Undici e cinquantotto.
Emma si è allontanata. Corre verso il padre. Le lucine delle scarpe lampeggiano rosso, blu, rosso, blu. Il padre la prende in braccio, la bacia sulla guancia.
— Facciamo ancora una foto?
Si girano. Iniziano a camminare verso il lato opposto.
Si avvicinano alla borsa.
Guardo l'orologio.
Trenta secondi.
Venti secondi.
La maestra chiama i bambini.
— Forza, ricomponiamo la fila. Adesso andiamo a vedere la biblioteca.
I bambini si raggruppano. La bambina con le trecce è ancora china sulle scarpe.
Dieci secondi.
Emma e il padre sono fermi. Lui sta inquadrando e lei ride. Sono a pochi centimetri dall’epicentro.
Cinque secondi.
Chiudo gli occhi.
Tre.
Due.
Uno.
Il suono è sbagliato. Non è un'esplosione come nei film. È più secco.
Poi il silenzio. Un secondo intero di silenzio dove la piazza trattiene il respiro. I piccioni volano via, uno stormo impazzito. L'allarme di un'auto inizia a suonare. Poi un secondo, un terzo.
Poi le grida.
Il fumo sale denso, nero. Bellissimo il contrasto con gli schizzi d’argento illuminati dal sole.
I turisti giapponesi non ci sono più. Dove erano, adesso c'è solo fumo e forme che non voglio distinguere.
La coppia è a terra. Lui sopra di lei, non si muovono.
Il venditore di palloncini è in ginocchio. Urla, i palloncini sono macchie colorate nel cielo azzurro.
La bambina con le trecce è seduta. Guarda le sue mani. Sono rosse, non capisce. Continua a guardare le sue mani.
La maestra urla nomi.
— Marco! Sofia! Luca!
alcuni bambini rispondono, altri no.
Il fumo continua a salire.
Io sono fermo. A cinquanta passi. Osservo.
Sirene in lontananza.
Un bambino piange. È uno della classe, è illeso ma piange forte, con la bocca spalancata.
Guardo tutto questo e penso: è successo. l'ho fatto succedere.
Io ho creato questo momento. Prima non esisteva. Ora esiste. Ed esisterà per sempre.
Un uomo mi passa accanto correndo, ha il volto coperto di lacrime e polvere, mi spinge senza vedermi.
Mi allontano, lentamente. Vado contro il flusso delle persone che corrono verso la piazza. Nessuno mi ferma, nessuno mi guarda.
Torno a casa. Mi tolgo le scarpe, vado a farmi un caffè.
Accendo la televisione.
Ci vogliono trentacinque minuti prima che arrivi la notizia sulla rete locale. Le immagini aeree della piazza. L'elicottero che riprende dall'alto. Il fumo, le ambulanze, i corpi coperti da teli.
—Strage in Piazza Maggiore,— La voce della giornalista trema.
—Un ordigno esplosivo. Si parla di almeno quattordici vittime. Decine di feriti.
Cambiano inquadratura. La piazza vista da terra, parte della fontana distrutta. L'acqua, che continua a scorrere oltre i bordi spezzati, si tinge di rosso
—Atto terroristico.
—Attacco premeditato. La polizia sta esaminando i filmati delle telecamere di sorveglianza.
Mi verso un altro caffè, esco sul terrazzo. Si vede e si sente il trambusto in città; Sirene, elicotteri, voci amplificate. È più di quanto immaginassi. Ora devo solo aspettare.
Passano ore. Continuano a trasmettere le stesse immagini. Le stesse frasi.
—Tragedia.
— Orrore.
— Strage.
Non ho dormito, ma stamattina, finalmente, sulle sulle reti nazionali ascolto la notizia che volevo sentirei:
— La polizia ha diffuso l'immagine dell'uomo ripreso dalle telecamere mentre posizionava l'ordigno. Se qualcuno lo riconosce è pregato di contattare immediatamente le autorità.
Sullo schermo appare la mia faccia. Il momento in cui guardavo la telecamera del palazzo comunale.
Il mio volto riempie lo schermo, un brivido di calore mi attraversa, è piacere puro.
— L'uomo,— continua la giornalista,
—si è fermato più volte davanti alle telecamere. Sembra che volesse essere ripreso.
Un moto di approvazione mi pervade.
Lo schermo cambia. Adesso trasmettono la sequenza: io che cammino verso la fontana. Io che mi fermo. Io che guardo la telecamera. Io che appoggio la borsa. Io che sorrido, Emma che corre sullo sfondo.
— Un comportamento agghiacciante,— dice l'esperto. — L'attentatore voleva essere riconosciuto.
Le manette arrivano cinque ore dopo la diffusione delle immagini.
Sfondano la porta. Mi trovano seduto al tavolo della cucina. Mi portano via in silenzio, in macchina nessuno parla.
In centrale mi fanno sedere in una stanza bianca. Un tavolo. Due sedie. Una telecamera nell'angolo. Perdo la cognizione del tempo, le ore passano. Nessuno mi da mie notizie. Mi rinchiudono in una cella, il tempo si è fermato.
Aspetto.
Non so che giorno sia, mi portano in una stanza senza finestre, sopra un tavolo c’è una bottiglia d’acqua e un bicchiere, mi ricordo che ho sete. Entra un uomo. Quarant'anni, forse cinquanta. Capelli grigi, occhi stanchi: si siede davanti a me. Appoggia una cartellina sul tavolo. La apre, poi ci ripensa.
Non parla subito. Mi guarda. Forse aspetta che sia io a dire qualcosa.
Non ho nulla da dire.
Lui è nervoso. Io resto calmo. Poi parla.
— So che tipo sei. Quindi non perdiamo tempo.
Appoggia le mani sulla cartellina.
— Parliamo di te. Di quello che volevi. Visibilità, giusto? Volevi che il mondo ti guardasse.
Non rispondo.
— Bene. Ti do una notizia. Dal momento in cui la tua faccia è apparsa in TV, il Governo ha emanato il decreto d'emergenza. Tutela della memoria delle vittime. Articolo 7: è vietato pubblicare nome, cognome, foto dell'attentatore. Tu sei già illegale.
Si sporge in avanti.
— Capisci? Il tuo nome diventa illegale. Per rispetto delle vittime.
Sento qualcosa stringersi nel petto.
— E sai cosa succede dopo? Diventi un numero Un codice negli archivi della polizia.
Mi guarda negli occhi. Io non abbasso lo sguardo, posso sostenere ben altro.
— Che giorno è oggi? lo chiedo a voce bassa, spero in una risposta fredda e breve.
— Giovedì. Tra poche ore torni ad essere quello che eri: nessuno.
Si alza. Prende la cartellina.
— Le vittime invece avranno targhe, borse di studio, panchine con i loro nomi. Ogni anno, il 9 maggio, qualcuno li dirà ad alta voce quei nomi. Marco, Lucia, Paolo. Tutti e quattordici. Tu?
Si ferma sulla porta.
—Tu non esisti più.
La porta si chiude.
Piango, non doveva andare così, non era per questo che ho ricostruito la mia identità.
Sessant’anni di invisibilità. Novantasei ore di luce. Poi di nuovo l'ombra.
Sul muro della cella, incido il mio nome ogni giorno.
Qualcuno lo cancella ogni settimana.
Io lo riscrivo.