[Lab17] Equilibrium
Posted: Mon Jun 16, 2025 2:41 pm
Il bunker era insonorizzato per non far passare nulla. Né onde, né voci, né incertezze. Aveva scelto lui ogni dettaglio: l’illuminazione filtrata, il silenzio totale, la poltrona troppo rigida per essere comoda. Sulla quella poltrona non cercava comodità, ma un promemoria costante: il potere non era mai una concessione; era una forma di resistenza. A cominciare da sé stesso, Levan Ramek, Primo Ministro di Velkania.
La parete digitale proiettava una mappa satellitare della capitale. Punti rossi lampeggiavano a intervalli precisi, segnalando disturbi, interferenze, piccole anomalie.
Aveva mandato in onda il suo falso rapimento: voleva sapere cosa lei avrebbe fatto. E lei era fuggita dalla sua prigione dorata. Era una previsione calcolata. Una provocazione necessaria. Ma era a un passo dal suo obiettivo, e doveva sapere.
Si voltò verso il tavolo. C’era un fascicolo aperto con fotografie e documenti allineati con cura. Volti. Nomi. Informazioni. Persone da far tacere. Enti e istituzioni soppressi. Ogni voce barrata con la sua penna.
Non era repressione. Era contenimento. Prevenzione.
Il popolo non aveva bisogno di sapere tutto. Solo ciò che lo teneva in equilibrio: minacce, promesse, sicurezza. Il resto era caos. E il caos andava evitato, a meno che non fosse necessario. Per questo aveva dato l’ordine di annientare la squadra comandata da Kai Vorn: il comandante troppo carismatico per essere gestito, troppo popolare per essere eliminato apertamente, quello che aveva già disertato una volta. La colpa sarebbe ricaduta sulla resistenza, i ribelli. E il popolo, allarmato, avrebbe approvato una maggiore sorveglianza. Il caos temporaneo era l’arma più antica. E la più efficace per giustificare il controllo.
Avevano tenuto Kai Vorn lontano, con una piccola unità mal equipaggiata, in modo che non potesse realmente minacciare l’equilibrio. Fino a ora.
Perché adesso con lui c’era quella variabile imprevista.
Arisa. Sua figlia.
Non sapeva come si fosse introdotta nella base, le milizie erano interdette alle donne: forse era diventata la puttana di Vorn, forse di tutta l'unità. Ma lui aveva sempre saputo dov'era. Sempre. Fin da bambina, dopo l'impianto del RFID, che lei non sapeva di avere. L'ordine era di riportarla viva: dopo l’attacco sarebbe stato più facile piegarla, costringerla a riprendere il proprio posto.
Aprì una seconda cartella, contrassegnata da un sigillo bianco. “Unità di dissuasione”. Erano state intercettate due trasmissioni illegali. Niente di realmente pericoloso, ma il principio era ciò che contava. Se passava una crepa, la pressione dall’esterno l’avrebbe allargata. E lui non lo avrebbe permesso: controllava i media. I flussi. Le autorità locali. Tutto.
Sospirò pesantemente.
Perché nonostante questo, qualcosa era andato storto. L'unità di Kai Vorn si era salvata: un aiuto dall’esterno li aveva lasciati in gioco.
Stava già pensando a un piano alternativo, quando fu chiamato.
Nella piccola stanza c’erano schermi ovunque. Codici, sequenze visive, flussi di dati. Ogni informazione aveva un posto. Al centro dello schermo principale, una figura in movimento. Corpo snello e andatura decisa. Le telecamere e i data base avevano impiegato quasi mezz’ora per confermare l’identità.
Alek Seran. O almeno quello era il nome del cadetto nei registri. Levan lo osservava in silenzio. Non era sorpresa. Era delusione.
Arisa. Ecco come si era introdotta nella base.
Non era morta. Non era stata spezzata. E quel volto che ora appariva nelle registrazioni di sorveglianza, taglio militare, assetto mimetico, postura da combattente, non era più una degenerazione emotiva. Era la prova vivente della sua teoria: il caos poteva alimentare minacce o generare forza. Era quasi uno spreco doverla piegare.
Gli occhi si strinsero. Sapeva dove stava andando. L’avrebbe intercettata lui stesso.
Il rumore delle pale copriva le voci ma non i suoi pensieri.
Non aveva cresciuto Arisa. Non l’aveva mai voluta realmente. Ma era stata utile. Una figura da esibire. Figlia perfetta. Nessuna incrinatura apparente. Una storia familiare a supporto del nuovo volto politico della Repubblica. Soprattutto dopo che la madre era morta... un altro ostacolo del quale si era dovuto occupare.
Le aveva permesso di mantenere i suoi puerili segreti, finché la sua immagine non ne avesse risentito. Ma se quell’immagine cedeva, se proprio lei parlava, tutto il resto vacillava. Davanti a documenti, fondi deviati, centri di contenimento, protocolli di “rieducazione sociale”, allora anche i più ciechi avrebbero alzato gli occhi.
Il volto riflesso nel vetro rimase impassibile. Ma la decisione, dentro, si consolidò. Doveva “riabilitarla”. Non avrebbe voluto arrivare all’eliminazione diretta della variabile.
Odiava ammetterlo, ma aveva bisogno della sua immagine. Ma doveva trovarla prima che trasmettesse i dati. Avrebbe accusato Kai Vorn di averla sequestrata e seviziata. L’avrebbe usata per liberarsi anche di lui, che fosse in una rappresaglia militare, o attraverso la legge marziale. Soprattutto insieme, sarebbero sempre stati una spina nel fianco.
Il terminale nella tasca segnalò: Accesso Autorizzato – Biometria compatibile.
Levan lo chiuse. Arisa era arrivata alla base segreta, e anche lui era molto vicino.
Avanzava sicuro nel corridoio silenzioso, le mani dietro la schiena, il busto eretto come in sala di comando. Poi la vide. Arisa.
In piedi, in fondo al corridoio, lo guardava come si osserva un nemico.
Non esitò: «È così che sei finita?» La voce era controllata, piatta. Non c’era rabbia. Solo una constatazione. «A rubare dati. Compromettere operazioni militari. Disertare.»
Lei alzò un’arma. Le mani non tremavano. «Fermati.»
Levan non si fermò. «Non hai idea di cosa stai distruggendo.»
«Ho le prove di ciò che hai fatto. La tua voce. I tuoi ordini. I documenti.»
Lui fece un passo. Poi un altro. «E pensi che basti? Io controllo i canali. I giornali. I flussi. Le autorità. Tu sei solo una ragazzina piena di rancore.»
Con la rabbia negli occhi, lei indietreggiò. Il gesto non era insicuro, ma mostrava un conflitto. Era un vantaggio.
«Sono tuo padre.» Continuò, il tono più basso, più duro. «Ti ho protetta per tutta la vita. Anche quando non capivi cosa stesse succedendo.»
Un altro passo. Lo spazio tra loro si accorciava. «Non puoi combattermi. Non hai idea del costo.»
«La mamma ce l’aveva. E per questo è morta.»
Si fermò. Portò le mani avanti, lentamente. Nessuna arma. Solo la forza. E poi si lanciò.
Cercò di afferrarle il polso. Lei reagì con prontezza, un calcio fulmineo, un colpo al fianco. L’impatto fu preciso, ma lui resistette. Le strappò la pistola con un movimento secco. L’arma rimbalzò contro la parete e cadde. Lui la spinse contro il muro, sentì il colpo spezzarle il fiato.
«Non ti farò del male.» Disse, stringendo appena di più, «ma non ti lascerò andare. Non puoi sfidare l'ordine che ho costruito per te, per tutti.»
Lei si liberò con uno scatto. Usò una ginocchiata e si gettò sulla pistola, la raccolse, si rialzò ansimando. Aveva ancora fiato. Ancora determinazione.
Ma non sparò. Non ci riuscì.
In quell’attimo di esitazione, la raggiunse. La lotta fu un vortice di colpi e parate, senza concessioni. Arisa era brava: compensava la sua forza con l’agilità e l’astuzia. Ma lui riuscì a strapparle via il coltello dalla cintura e bloccarle i polsi.
«Hai finito. Sei mia figlia. Non potrai mai vincere questa guerra.»
Lei rispose con una testata. Il sangue gli scese dal naso. Levan strinse la presa. Le torse la spalla. Fu il rumore secco che provocò il grido di Arisa. Ma ancora non cedeva.
Allora colpì di nuovo. Un calcio diretto tra le reni. Poi uno frontale. Violento. Lo sentì entrare a fondo, tra costole e stomaco.
Lei crollò. Non era svenuta. Ma non si rialzava.
Levan la guardò. Il petto si muoveva a fatica. Gli occhi ancora aperti. Ma non c’era più forza.
«Hai perso.» disse piano. «Ti porto via.»
Rimase in piedi sopra di lei, sovrastandola. Il viso di Arisa era contratto, il sangue sulle labbra, gli occhi che lampeggiavano: e ancora non cedeva.
Stupida.
Non capiva che stava facendo tutto questo per proteggerla. Non lei, ma ciò che rappresentava. Non avrebbe lasciato che quell’immagine andasse in frantumi. Neppure ora. Il controllo era tutto.
Si chinò, pronto a trascinarla via.
Il rumore arrivò sordo e meccanico. Una porta che saltava dai cardini.
Levan si voltò, ancora piegato su di lei.
Kai Vorn.
Lo riconobbe subito. Era ferito al fianco, ma in piedi, determinato. Era uno di quei maledetti che non si piegano finché non smettono di respirare. Occhi fissi e taglienti. Alle sue spalle, due figure armate in mimetiche non ufficiali. Ribelli.
«Allontanati da lei.» disse Kai. «Adesso.» La voce era piatta, ma trattenuta. Era già un ultimatum.
Levan si alzò lentamente, senza abbassare lo sguardo. Inspirò. «Tu non sai cosa stai facendo.»
La canna del fucile si alzò: «So esattamente cosa sto facendo. Hai dieci secondi.»
Non si mosse. Lo guardò. Guardò i due ribelli. Non erano molti, ma spostavano l’asse. Il suo vantaggio era finito.
Avrebbe potuto provare a trattare. Ma non con Kai Vorn. E il modo in cui guardava Arisa… quello era un altro tipo di problema.
«Puoi sparare.» disse Levan, con voce fredda. «Ma poi?»
Kai non gli rispose. Guardava rigido il corpo a terra di Arisa. La spalla lussata, il fiato corto. Il fallimento negli occhi aperti che lo guardavano, senza riuscire a parlare.
«Non ho bisogno di sparare.» Disse Kai, abbassando leggermente il fucile. «Sei già finito. Ma se mi costringi, e spero che tu lo faccia, posso sempre spezzarti le ginocchia.» Il suo sguardo non tremò. E il tono era cambiato. Più basso. Più concreto. Più letale.
Poi, un rumore alle spalle. Altri due uomini dell’unità di Kai. Non aveva più tempo. Non poteva permettere che lo circondassero. Lo avrebbero preso, esposto, giudicato. Scattò verso Arisa. La sua pistola spuntava da sotto il fianco. La raccolse e se la puntò alla tempia. Lucido. Coerente.
La morte non è un’ammissione di colpa, ma un ultimo atto di controllo.
La parete digitale proiettava una mappa satellitare della capitale. Punti rossi lampeggiavano a intervalli precisi, segnalando disturbi, interferenze, piccole anomalie.
Aveva mandato in onda il suo falso rapimento: voleva sapere cosa lei avrebbe fatto. E lei era fuggita dalla sua prigione dorata. Era una previsione calcolata. Una provocazione necessaria. Ma era a un passo dal suo obiettivo, e doveva sapere.
Si voltò verso il tavolo. C’era un fascicolo aperto con fotografie e documenti allineati con cura. Volti. Nomi. Informazioni. Persone da far tacere. Enti e istituzioni soppressi. Ogni voce barrata con la sua penna.
Non era repressione. Era contenimento. Prevenzione.
Il popolo non aveva bisogno di sapere tutto. Solo ciò che lo teneva in equilibrio: minacce, promesse, sicurezza. Il resto era caos. E il caos andava evitato, a meno che non fosse necessario. Per questo aveva dato l’ordine di annientare la squadra comandata da Kai Vorn: il comandante troppo carismatico per essere gestito, troppo popolare per essere eliminato apertamente, quello che aveva già disertato una volta. La colpa sarebbe ricaduta sulla resistenza, i ribelli. E il popolo, allarmato, avrebbe approvato una maggiore sorveglianza. Il caos temporaneo era l’arma più antica. E la più efficace per giustificare il controllo.
Avevano tenuto Kai Vorn lontano, con una piccola unità mal equipaggiata, in modo che non potesse realmente minacciare l’equilibrio. Fino a ora.
Perché adesso con lui c’era quella variabile imprevista.
Arisa. Sua figlia.
Non sapeva come si fosse introdotta nella base, le milizie erano interdette alle donne: forse era diventata la puttana di Vorn, forse di tutta l'unità. Ma lui aveva sempre saputo dov'era. Sempre. Fin da bambina, dopo l'impianto del RFID, che lei non sapeva di avere. L'ordine era di riportarla viva: dopo l’attacco sarebbe stato più facile piegarla, costringerla a riprendere il proprio posto.
Aprì una seconda cartella, contrassegnata da un sigillo bianco. “Unità di dissuasione”. Erano state intercettate due trasmissioni illegali. Niente di realmente pericoloso, ma il principio era ciò che contava. Se passava una crepa, la pressione dall’esterno l’avrebbe allargata. E lui non lo avrebbe permesso: controllava i media. I flussi. Le autorità locali. Tutto.
Sospirò pesantemente.
Perché nonostante questo, qualcosa era andato storto. L'unità di Kai Vorn si era salvata: un aiuto dall’esterno li aveva lasciati in gioco.
Stava già pensando a un piano alternativo, quando fu chiamato.
Nella piccola stanza c’erano schermi ovunque. Codici, sequenze visive, flussi di dati. Ogni informazione aveva un posto. Al centro dello schermo principale, una figura in movimento. Corpo snello e andatura decisa. Le telecamere e i data base avevano impiegato quasi mezz’ora per confermare l’identità.
Alek Seran. O almeno quello era il nome del cadetto nei registri. Levan lo osservava in silenzio. Non era sorpresa. Era delusione.
Arisa. Ecco come si era introdotta nella base.
Non era morta. Non era stata spezzata. E quel volto che ora appariva nelle registrazioni di sorveglianza, taglio militare, assetto mimetico, postura da combattente, non era più una degenerazione emotiva. Era la prova vivente della sua teoria: il caos poteva alimentare minacce o generare forza. Era quasi uno spreco doverla piegare.
Gli occhi si strinsero. Sapeva dove stava andando. L’avrebbe intercettata lui stesso.
Il rumore delle pale copriva le voci ma non i suoi pensieri.
Non aveva cresciuto Arisa. Non l’aveva mai voluta realmente. Ma era stata utile. Una figura da esibire. Figlia perfetta. Nessuna incrinatura apparente. Una storia familiare a supporto del nuovo volto politico della Repubblica. Soprattutto dopo che la madre era morta... un altro ostacolo del quale si era dovuto occupare.
Le aveva permesso di mantenere i suoi puerili segreti, finché la sua immagine non ne avesse risentito. Ma se quell’immagine cedeva, se proprio lei parlava, tutto il resto vacillava. Davanti a documenti, fondi deviati, centri di contenimento, protocolli di “rieducazione sociale”, allora anche i più ciechi avrebbero alzato gli occhi.
Il volto riflesso nel vetro rimase impassibile. Ma la decisione, dentro, si consolidò. Doveva “riabilitarla”. Non avrebbe voluto arrivare all’eliminazione diretta della variabile.
Odiava ammetterlo, ma aveva bisogno della sua immagine. Ma doveva trovarla prima che trasmettesse i dati. Avrebbe accusato Kai Vorn di averla sequestrata e seviziata. L’avrebbe usata per liberarsi anche di lui, che fosse in una rappresaglia militare, o attraverso la legge marziale. Soprattutto insieme, sarebbero sempre stati una spina nel fianco.
Il terminale nella tasca segnalò: Accesso Autorizzato – Biometria compatibile.
Levan lo chiuse. Arisa era arrivata alla base segreta, e anche lui era molto vicino.
Avanzava sicuro nel corridoio silenzioso, le mani dietro la schiena, il busto eretto come in sala di comando. Poi la vide. Arisa.
In piedi, in fondo al corridoio, lo guardava come si osserva un nemico.
Non esitò: «È così che sei finita?» La voce era controllata, piatta. Non c’era rabbia. Solo una constatazione. «A rubare dati. Compromettere operazioni militari. Disertare.»
Lei alzò un’arma. Le mani non tremavano. «Fermati.»
Levan non si fermò. «Non hai idea di cosa stai distruggendo.»
«Ho le prove di ciò che hai fatto. La tua voce. I tuoi ordini. I documenti.»
Lui fece un passo. Poi un altro. «E pensi che basti? Io controllo i canali. I giornali. I flussi. Le autorità. Tu sei solo una ragazzina piena di rancore.»
Con la rabbia negli occhi, lei indietreggiò. Il gesto non era insicuro, ma mostrava un conflitto. Era un vantaggio.
«Sono tuo padre.» Continuò, il tono più basso, più duro. «Ti ho protetta per tutta la vita. Anche quando non capivi cosa stesse succedendo.»
Un altro passo. Lo spazio tra loro si accorciava. «Non puoi combattermi. Non hai idea del costo.»
«La mamma ce l’aveva. E per questo è morta.»
Si fermò. Portò le mani avanti, lentamente. Nessuna arma. Solo la forza. E poi si lanciò.
Cercò di afferrarle il polso. Lei reagì con prontezza, un calcio fulmineo, un colpo al fianco. L’impatto fu preciso, ma lui resistette. Le strappò la pistola con un movimento secco. L’arma rimbalzò contro la parete e cadde. Lui la spinse contro il muro, sentì il colpo spezzarle il fiato.
«Non ti farò del male.» Disse, stringendo appena di più, «ma non ti lascerò andare. Non puoi sfidare l'ordine che ho costruito per te, per tutti.»
Lei si liberò con uno scatto. Usò una ginocchiata e si gettò sulla pistola, la raccolse, si rialzò ansimando. Aveva ancora fiato. Ancora determinazione.
Ma non sparò. Non ci riuscì.
In quell’attimo di esitazione, la raggiunse. La lotta fu un vortice di colpi e parate, senza concessioni. Arisa era brava: compensava la sua forza con l’agilità e l’astuzia. Ma lui riuscì a strapparle via il coltello dalla cintura e bloccarle i polsi.
«Hai finito. Sei mia figlia. Non potrai mai vincere questa guerra.»
Lei rispose con una testata. Il sangue gli scese dal naso. Levan strinse la presa. Le torse la spalla. Fu il rumore secco che provocò il grido di Arisa. Ma ancora non cedeva.
Allora colpì di nuovo. Un calcio diretto tra le reni. Poi uno frontale. Violento. Lo sentì entrare a fondo, tra costole e stomaco.
Lei crollò. Non era svenuta. Ma non si rialzava.
Levan la guardò. Il petto si muoveva a fatica. Gli occhi ancora aperti. Ma non c’era più forza.
«Hai perso.» disse piano. «Ti porto via.»
Rimase in piedi sopra di lei, sovrastandola. Il viso di Arisa era contratto, il sangue sulle labbra, gli occhi che lampeggiavano: e ancora non cedeva.
Stupida.
Non capiva che stava facendo tutto questo per proteggerla. Non lei, ma ciò che rappresentava. Non avrebbe lasciato che quell’immagine andasse in frantumi. Neppure ora. Il controllo era tutto.
Si chinò, pronto a trascinarla via.
Il rumore arrivò sordo e meccanico. Una porta che saltava dai cardini.
Levan si voltò, ancora piegato su di lei.
Kai Vorn.
Lo riconobbe subito. Era ferito al fianco, ma in piedi, determinato. Era uno di quei maledetti che non si piegano finché non smettono di respirare. Occhi fissi e taglienti. Alle sue spalle, due figure armate in mimetiche non ufficiali. Ribelli.
«Allontanati da lei.» disse Kai. «Adesso.» La voce era piatta, ma trattenuta. Era già un ultimatum.
Levan si alzò lentamente, senza abbassare lo sguardo. Inspirò. «Tu non sai cosa stai facendo.»
La canna del fucile si alzò: «So esattamente cosa sto facendo. Hai dieci secondi.»
Non si mosse. Lo guardò. Guardò i due ribelli. Non erano molti, ma spostavano l’asse. Il suo vantaggio era finito.
Avrebbe potuto provare a trattare. Ma non con Kai Vorn. E il modo in cui guardava Arisa… quello era un altro tipo di problema.
«Puoi sparare.» disse Levan, con voce fredda. «Ma poi?»
Kai non gli rispose. Guardava rigido il corpo a terra di Arisa. La spalla lussata, il fiato corto. Il fallimento negli occhi aperti che lo guardavano, senza riuscire a parlare.
«Non ho bisogno di sparare.» Disse Kai, abbassando leggermente il fucile. «Sei già finito. Ma se mi costringi, e spero che tu lo faccia, posso sempre spezzarti le ginocchia.» Il suo sguardo non tremò. E il tono era cambiato. Più basso. Più concreto. Più letale.
Poi, un rumore alle spalle. Altri due uomini dell’unità di Kai. Non aveva più tempo. Non poteva permettere che lo circondassero. Lo avrebbero preso, esposto, giudicato. Scattò verso Arisa. La sua pistola spuntava da sotto il fianco. La raccolse e se la puntò alla tempia. Lucido. Coerente.
La morte non è un’ammissione di colpa, ma un ultimo atto di controllo.