[MI188] In un giorno di pioggia
Posted: Fri Oct 17, 2025 6:38 pm
Traccia di Mezzanotte n.1 "Il giorno della pioggia"
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IN UN GIORNO DI PIOGGIA
Oggi piove, come allora. Come allora il cielo è terso e mi domando da dove cadano queste gocce, se non c'è nessuna nuvola a portarle. Mi ricorda la Sua risata. Era un suono limpido, scrosciante, e io mi domandavo che cosa la facesse ridere, dal momento che non stavo facendo nulla per provocarla. Ero, anzi, molto impacciato. Continuavo a maneggiare l'ombrello: una folata di vento aveva rovesciato le asticelle di metallo, e una non ne voleva sapere di tornare alla posizione originale. Ci eravamo riparati sotto la tettoia della biblioteca di paese. E Lei rideva.
«Possiamo anche fare senza» Lei indicò il cielo oltre il soffitto del portico con un cenno del mento. «Non piove troppo. E poi, ho il cappuccio!»
Disse quell'ultima frase con un ampio sorriso, le mani affossate nelle tasche del k-way, il bacino spostato in avanti che ondeggiava giocoso. Si stava annoiando. La stavo annoiando. Che cos'altro poteva significare quel movimento, e quello sguardo sporto oltre a noi, noncurante dei miei sforzi. Ma io non volevo lasciar perdere. Non doveva pensare che ero più debole di un pezzo di metallo.
Crac.
Rimasi immobile, l'asticella in mano, piegata in modo innaturale come una gamba spezzata.
Lei si coprì la bocca, «Mi sa che l'hai rotto.»
E rideva. Lei rideva. Rideva di me.
Rideva con la stessa voce stridula e pungente dei bambini della sezione Giraffe della scuola materna Maria Ausiliatrice. Anche quel giorno pioveva col Sole e, nonostante i raggi splendenti, le maestre decisero di non farci uscire in giardino. A me importava poco: mi piaceva starmene in aula, a giocare al maestro con il mio peluche di Snoopy. Lo facevo sedere al banco, gli insegnavo a pronunciare le lettere e lo bacchettavo con il righello quando sbagliava. Gli altri bambini non c'erano mai, troppo impegnati a cacciare i lombrichi e a lanciarsi la terra in cortile. Ma quel giorno non fu loro permesso di dedicarsi alle loro attività preferite. E, impossibilitati a guerreggiare tra di loro, si allearono contro di me.
Ero un bersaglio facile: timido, imbranato, e con due larghe orecchie a sventola che sbucavano dal cranio quadrato come un fungo da un ceppo di legno. All'inizio, i bambini erano andati in salone, dove c'erano le cucine giocattolo e le piste delle macchinine. Poi, uno di loro era tornato in aula, a nascondere nello zainetto la HotWheels viola che voleva portarsi a casa. Io stavo parlando con Snoopy, seduto al mio banco, e indicavo con il righello la lettera S che avevo scritto sulla lavagna. Davo le spalle alla porta d'entrata. Quando lo sentii armeggiare con la cerniera dello zaino era ormai troppo tardi: i nostri occhi si incrociarono, divenni tutto rosso, lui sorrise da un orecchio all'altro.
Fu più veloce di me. Chiuse la cerniera poi, continuando a fissarmi, si avvicinò a Snoopy. Pensai che fosse interessato alla mia lezione... ma lui agguantò il peluche per le orecchie nere e corse fuori. Il righello tintinnò quando mi cadde di mano. Corsi fuori anch'io. Il bambino aveva raggiunto i suoi amichetti. Io giunsi senza fiato, più per la paura che per la corsa. Il gruppetto di teppisti mi fissava. Poi, il bambino che aveva rubato Snoopy lo sollevò per una zampa e urlò qualcosa. Tutti risero. Io mi gettai ai suoi piedi, implorando di non farlo. Risero ancora più forte. E corsero tutti insieme al bagno.
E ora guardavo Lei come guardavo quei bulli che tenevano la testa del mio Snoopy nella tavoletta. Con rabbia. Sentii il sangue affluire ai pugni. Strinsi l'ombrello che si incrinò con un cigolio. E Lei rideva. Ma presto avrebbe capito che cosa succedeva a chi rideva di me.
Lo avevano capito i ragazzi dello spogliatoio di calcio. Era un sabato pomeriggio, dopo una partita che si era giocata in una giornata piovosa e soleggiata come questa. Io facevo il difensore, ma mi ero distratto a osservare l'arcobaleno lontano nel cielo, e non avevo sentito i compagni che mi chiamavano per marcare l'attaccante con la maglia numero 8. Gli avversari batterono il calcio d'angolo, e il numero 8 segnò. Perdemmo 1-0.
In spogliatoio, volevo andarmene il prima possibile. Il mister era entrato e aveva sbraitato che era ingiusto perdere così per l'incapacità di uno, e se n'era uscito sbattendo la porta. Il capitano aveva lanciato il suo borsone a terra e detto che forse era meglio che ripensassi alla mia scelta di iscrivermi in quella squadra. Ma il nostro attaccante, che era stato incapace di segnare e rimediare così al mio errore, si avvicinò battendo i tacchetti degli scarpini e mi urlò in faccia che ero uno scarso. Non alzai gli occhi. Lui ripetè, a voce più alta. Non reagii. Allora mi prese per le orecchie, mi sollevò come quel bambino aveva sollevato il mio Snoopy e gridò come fosse possibile che non ci sentissi viste le antenne paraboliche che mi ritrovavo. Tutti risero. Era come se questa volta, nel cesso, ci fossi finito io. Sentii le mani irrorarsi di sangue. E gli tirai un pugno nelle palle.
Neanche mi piaceva il calcio, a me. Ero stato costretto ad andarci dalla mamma, che non voleva stessi tutto il giorno chiuso in casa a leggere i libri che prendevo in prestito in biblioteca. Dopo quel giorno, quando mi espulsero dalla squadra, non insisté più per farmi fare attività fisica, e io potei finalmente dedicarmi alla lettura.
Avevo portato Lei proprio alla biblioteca dove avevo coltivato la mia passione per tutta l'adolescenza. Ci eravamo conosciuti in università. Io facevo il pendolare, Lei era fuorisede. Entrambi studiavamo Lettere Antiche. L'avevo conosciuta per caso, anche se fino al momento del nostro incontro avevo spesso fantasticato su di Lei. Alle lezioni di Filologia romanza c'era questa ragazza bellissima. Era sempre concentrata sulla spiegazione del professore, e quando si concentrava mordeva la penna con un sorriso, che le gonfiava le guance rubino. Mi innamorai di quelle guance, di quel sorriso, dell'amore per lo studio che leggevo nei suoi occhi. E passavo la lezione a pensare a una frase per presentarmi, ma i libri che avevo studiato non mi avevano preparato all'improvvisa aridità che provoca l'innamoramento, e al fatto che Lei, appena terminava la lezione, si affrettava fuori, e io non la rivedevo più fino alla settimana successiva.
In quel periodo ero anche alla ricerca di un manuale usato per il corso di Filologia romanza. Nuovo costava troppo, e potevo contare solo sul mio guadagno come insegnante di ripetizioni per le spese universitarie. Fu così che mi recai in copisteria, sperando che avessero una copia stampata, ma non ebbi fortuna. Allora mi recai alla biblioteca universitaria. I libri che erano materiale d'esame venivano tenuti a scaffale e potevano essere presi in prestito al massimo per una settimana. Era un tentativo disperato, ma anche la mia unica possibilità.
Il bibliotecario mi disse che il manuale che cercavo era attualmente in prestito, ma che la consegna era prevista entro quella sera stessa. Allora decisi di rimanere in zona e ritornare più tardi. Quando lo feci, al banco del bibliotecario c'era Lei. La gola si seccò. Mossi un passo indietro e aspettai a testa bassa. Mi ero fatto crescere i capelli: spostai due ciocche per coprire quelle protuberanze che mi crescevano ai lati del cranio. Poi, vidi il libro che Lei e il bibliotecario stavano tenendo tra le mani. Non potevo, nemmeno nel suo caso, lasciare che qualcuno mi fregasse il manuale di Letteratura latina!
"Quello è il libro che ho preso in prestito io!" Mi guardarono, frastornati. Lei rise.
Venne fuori che era stata Lei a prenderlo in prestito, per la stessa ragione per cui lo volevo io. Iniziammo a parlare, spinti dal comune disprezzo verso gli editori che caricavano così tanto il costo dei manuali universitari. Decidemmo che l'avremmo preso in prestito a settimane alternate Lei e io, in modo da poter studiare in modo continuativo sul manuale. Fu così che iniziammo a incontrarci in biblioteca, e poi fuori, e poi la invitai a visitare il mio paese, a solo 20 minuti di treno dalla città universitaria.
La prima tappa del nostro appuntamento era stata la biblioteca della mia infanzia e adolescenza. Volevo mostrarle la sala di lettura con i murales del T-Rex che rincorreva lo Stegosauro mentre un astronauta si calava in picchiata a cavallo di un asteroide e un esploratore si faceva strada nella giungla di felci. Quel murales colorato, sgargiante era stato lo sfondo delle mie letture, quando passavo i miei pomeriggi al tavolo da lettura difronte, in compagnia dei miei migliori amici: i libri. Avevamo passato lì dentro anche più tempo di quanto avessi preventivato, perché quel giorno pioveva e volevamo ripararci dall'acqua. Lei mi aveva chiesto per quale motivo il T-Rex rincorresse lo Stegosauro, e io risposi per mangiarselo. Mi invitò a essere più fantasioso. Mi riportò a quando era bambino, e immaginavo che il T-Rex volesse solo giocare, ma che lo Stegosauro scappasse da lui perché non voleva giocare con un dinosauro così strano, con delle braccine così corte. Lei rise. Le era piaciuta la storia. E riuscì a far ridere pure me. Aveva un risata così melodiosa. Avrei voluto sentirla per tutta la vita.
Quella stessa risata ora era una lametta conficcata e ritorta nei miei timpani. Stringevo ancora l'ombrello, che si piegava sempre più nel mio pugno. Lei, a pochi passi alla mia sinistra, ridacchiava divertita coprendosi la bocca, «Mi sa che l'hai proprio rotto.»
Perché rideva? Che cos'era che la faceva così tanto ridere? Come i bambini che si erano presi gioco di me. Come i ragazzini che mi avevano chiamato scarso. Rideva come...
Mi voltai di scatto, mi sporsi verso di Lei, Le premetti il puntale dell'ombrello contro il mento, «Si può sapere che cazzo ridi, eh? Nessuno ride così tanto per un ombrello rotto.» lo spezzai con una ginocchiata. «Ti sembro un imbranato? È per le orecchie? È perché mi piace leggere? Eh? Che cazzo ridi!»
Lanciai l'ombrello nel piazzale oltre il portico. Cadde con uno schiocco: la rottura definitiva. Lei mi guardò come se quello schiocco fosse avvenuto nel Suo cuore. Corse via. Mi lasciò davanti alla biblioteca dove mi ero fatto compagnia da solo per tutta la vita. Il mio riflesso alla vetrata aveva gli occhi spenti. Tremavo, non per il freddo ma per la paura. Avevo rovinato tutto. Non ero più neanche sicuro che stesse ridendo sguaiatamente come mi era sembrato. Forse ridacchiava per sdrammatizzare.
Camminai verso il piazzale. La pioggia mi rigava le guance, il Sole faceva brillare le gocce sul mio viso. Da qualche parte c'era l'arcobaleno, ma non lo vedevo. Mi chinai, raccolsi l'ombrello, e tornai a casa. Da solo.
Da solo.
Da allora avevo condotto il resto della mia esistenza in solitudine. Alla festa di laurea non venne nemmeno mamma. Solo papà. Dopo, iniziò un lungo periodo di precariato. Ogni anno mi mandavano a fare il supplente in qualche scuola sperduta lungo gli Appenini, o nella nebbia padana. Dopo dieci anni finalmente passai di ruolo nella scuola del mio paese. Le mattine a insegnare ai ragazzi, i pomeriggi a preparare le lezioni. Era difficile per un insegnante di italiano non frequentare la biblioteca, ma io la evitavo a ogni costo. Andarci significava rivivere quell'errore. Se chiudevo gli occhi, riuscivo ancora a sentire la Sua risata. Il ricordo del volto era sbiadito, e comunque non l'avrei riconosciuta dopo tutti questi anni, ma quello della Sua risata no. Ogni volta, quel suono melodioso veniva bruscamente interrotto da uno schiocco metallico. Era a quel punto che riaprivo gli occhi con una lacrima lucida come le gocce di pioggia sul mio viso quel giorno. Poi andai in pensione. Ora uscivo di casa solo per fare la spesa, ed evitavo di farlo nei giorni di pioggia col Sole.
Quel giorno pioveva col Sole. Rimanevo alla finestra di camera mia, a cercare l'arcobaleno da qualche parte. Non l'avevo più rivisto. Ero assorto nell'osservazione del cielo, quando udii uno schiocco. Sussultai. Non era uno schiocco: qualcuno stava bussando.
Sull'uscio di casa c'era un bambino. La pioggia gli schiacciava i capelli bruni a scodella. Aveva un viso tondo, le guance rubiconde e un paio di prorompenti orecchie a sventola. Sgranai gli occhi. Era come star fissando una foto di me da piccolo.
«Tu sei...»
Mi interruppe con un gesto brusco della mano. «Oggi piove di nuovo. Vuoi tornare indietro e parlare con Lei?»
Il tonfo del mio cuore fu un tuono. «Che cosa?»
«Oggi piove di nuovo. Vuoi tornare indietro e parlare con Lei?» allungò la sua manina paffuta.
Strinsi quelle dita, «Che cosa sai di Lei, tu?»
«Tutto»
«Come?»
Mi strinse la mano a sua volta. Con dolcezza mi attrasse a sé, si mise al mio fianco, mi guidò fuori dal cortile di casa, oltre il cancello, in strada. Provai a resistere, dissi che avevo dimenticato la porta aperta, ma la sua presa morbida era solida e, quando mi voltai, vidi che la porta era chiusa. Lo guardai. Mi stava guardando. I suoi – i miei – occhioni verdi erano rigati dalla pioggia, mentre il Sole illuminava le gocce sul suo viso.
«Fu per la mamma, vero?»
«Che cosa?»
«Fu per la mamma.»
Mia mamma era una donna bella, un po' in carne, con due bellissime orecchie di cui andava molto fiera. Sua madre, mia nonna, aveva due larghe orecchie a sventola, che lei detestava. Per questo, quando nacqui, lei inorridì.
Da piccolo, mi fasciava la testa con una benda e la stringeva fino a quando il cervello mi schizzava fuori dal cranio. Quando, ore dopo, mi liberava da quella tortura, prendeva il righello e misurava di quanti millimetri si erano compresse le orecchie. Ogni volta, stizzita, colpiva con il righello il bordo della scrivania a cui mi faceva sedere. Certe volte, inavvertitamente, colpiva anche le dita che mi faceva appoggiare sul tavolo durante quell'ispezione.
Col tempo si era arresa all'incorreggibilità di quel difetto fisico, come si era arresa al fatto di avere un figlio impedito per qualsiasi attività fisica e capace solo di immagazzinare le nozioni che leggeva sui libri che tanto amava. Ma il colpo di grazia calò quando le dissi della mia intenzione di iscrivermi a Lettere antiche per diventare insegnante. I miei genitori erano commessa e operaio, gente semplice, che grazie al patrimonio di famiglia era proprietaria di un paio di case. Avevano sempre espresso per me la volontà di mandarmi all'università. Forse si aspettavano Medicina, o Giurisprudenza. Papà, in ogni caso, disse che l'insegnante era un mestiere pieno di dignità, e approvava la mia scelta. Mamma mi rise in faccia.
"L'insegnante vuoi fare?" sghignazzava, "Ma non ti rendi conto? Ti sei mai reso conto? Dovevi sceglierti un mestiere dove guadagnare un po' di grana, non uno dove fare la fame! Ma non hai mai capito per quale motivo volevo correggerti quelle schifose orecchie da elefante? Non ti vorrà mai nessuna, nessuna vuole avere dei bambini che assomiglino a un elefante, e se non farai un po' di grana nessuna vorrà nemmeno mai sposarti! Ridicolo."
Ero corso in biblioteca piangendo.
Senza accorgermene, il bambino – me stesso da bambino – si era fermato sotto il portico della biblioteca. Sul mio arido volto di vecchio, lungo i canyon delle rughe, scorrevano le lacrime. Il bambino mi strinse le mani. Nella sua presa calda, carnosa sentii quanto fiacca e rattrappita era la mia. Lo guardai, addolorato. Il bambino sorrideva con determinazione.
«Vuoi tornare indietro da Lei?»
«...» quelle parole mi costarono ogni sforzo. Non lo avevo mai ammesso ad alta voce «Sì.»
Il mondo prese a vorticare. Fu come stare su un veliero durante una tempesta. Chiusi gli occhi.
Quando li riaprii, davanti a me non c'era più il mio riflesso imberbe – c'era Lei. Era giovane come quando l'avevo conosciuta. Sentii una forza nuova nei muscoli ritornati quelli di un ragazzo, e non più quelli di un vecchio pieno di rimorsi. Tra le mie mani, puntato contro di Lei, c'era l'ombrello rotto. Mi scoprii a sorridere.
«Nessuno ride di me.» Le feci l'occhiolino, «In guardia, signorina.»
Lei rise. Con la coda dell'occhio, alle Sue spalle, vidi l'inizio di un arcobaleno.
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IN UN GIORNO DI PIOGGIA
Oggi piove, come allora. Come allora il cielo è terso e mi domando da dove cadano queste gocce, se non c'è nessuna nuvola a portarle. Mi ricorda la Sua risata. Era un suono limpido, scrosciante, e io mi domandavo che cosa la facesse ridere, dal momento che non stavo facendo nulla per provocarla. Ero, anzi, molto impacciato. Continuavo a maneggiare l'ombrello: una folata di vento aveva rovesciato le asticelle di metallo, e una non ne voleva sapere di tornare alla posizione originale. Ci eravamo riparati sotto la tettoia della biblioteca di paese. E Lei rideva.
«Possiamo anche fare senza» Lei indicò il cielo oltre il soffitto del portico con un cenno del mento. «Non piove troppo. E poi, ho il cappuccio!»
Disse quell'ultima frase con un ampio sorriso, le mani affossate nelle tasche del k-way, il bacino spostato in avanti che ondeggiava giocoso. Si stava annoiando. La stavo annoiando. Che cos'altro poteva significare quel movimento, e quello sguardo sporto oltre a noi, noncurante dei miei sforzi. Ma io non volevo lasciar perdere. Non doveva pensare che ero più debole di un pezzo di metallo.
Crac.
Rimasi immobile, l'asticella in mano, piegata in modo innaturale come una gamba spezzata.
Lei si coprì la bocca, «Mi sa che l'hai rotto.»
E rideva. Lei rideva. Rideva di me.
Rideva con la stessa voce stridula e pungente dei bambini della sezione Giraffe della scuola materna Maria Ausiliatrice. Anche quel giorno pioveva col Sole e, nonostante i raggi splendenti, le maestre decisero di non farci uscire in giardino. A me importava poco: mi piaceva starmene in aula, a giocare al maestro con il mio peluche di Snoopy. Lo facevo sedere al banco, gli insegnavo a pronunciare le lettere e lo bacchettavo con il righello quando sbagliava. Gli altri bambini non c'erano mai, troppo impegnati a cacciare i lombrichi e a lanciarsi la terra in cortile. Ma quel giorno non fu loro permesso di dedicarsi alle loro attività preferite. E, impossibilitati a guerreggiare tra di loro, si allearono contro di me.
Ero un bersaglio facile: timido, imbranato, e con due larghe orecchie a sventola che sbucavano dal cranio quadrato come un fungo da un ceppo di legno. All'inizio, i bambini erano andati in salone, dove c'erano le cucine giocattolo e le piste delle macchinine. Poi, uno di loro era tornato in aula, a nascondere nello zainetto la HotWheels viola che voleva portarsi a casa. Io stavo parlando con Snoopy, seduto al mio banco, e indicavo con il righello la lettera S che avevo scritto sulla lavagna. Davo le spalle alla porta d'entrata. Quando lo sentii armeggiare con la cerniera dello zaino era ormai troppo tardi: i nostri occhi si incrociarono, divenni tutto rosso, lui sorrise da un orecchio all'altro.
Fu più veloce di me. Chiuse la cerniera poi, continuando a fissarmi, si avvicinò a Snoopy. Pensai che fosse interessato alla mia lezione... ma lui agguantò il peluche per le orecchie nere e corse fuori. Il righello tintinnò quando mi cadde di mano. Corsi fuori anch'io. Il bambino aveva raggiunto i suoi amichetti. Io giunsi senza fiato, più per la paura che per la corsa. Il gruppetto di teppisti mi fissava. Poi, il bambino che aveva rubato Snoopy lo sollevò per una zampa e urlò qualcosa. Tutti risero. Io mi gettai ai suoi piedi, implorando di non farlo. Risero ancora più forte. E corsero tutti insieme al bagno.
E ora guardavo Lei come guardavo quei bulli che tenevano la testa del mio Snoopy nella tavoletta. Con rabbia. Sentii il sangue affluire ai pugni. Strinsi l'ombrello che si incrinò con un cigolio. E Lei rideva. Ma presto avrebbe capito che cosa succedeva a chi rideva di me.
Lo avevano capito i ragazzi dello spogliatoio di calcio. Era un sabato pomeriggio, dopo una partita che si era giocata in una giornata piovosa e soleggiata come questa. Io facevo il difensore, ma mi ero distratto a osservare l'arcobaleno lontano nel cielo, e non avevo sentito i compagni che mi chiamavano per marcare l'attaccante con la maglia numero 8. Gli avversari batterono il calcio d'angolo, e il numero 8 segnò. Perdemmo 1-0.
In spogliatoio, volevo andarmene il prima possibile. Il mister era entrato e aveva sbraitato che era ingiusto perdere così per l'incapacità di uno, e se n'era uscito sbattendo la porta. Il capitano aveva lanciato il suo borsone a terra e detto che forse era meglio che ripensassi alla mia scelta di iscrivermi in quella squadra. Ma il nostro attaccante, che era stato incapace di segnare e rimediare così al mio errore, si avvicinò battendo i tacchetti degli scarpini e mi urlò in faccia che ero uno scarso. Non alzai gli occhi. Lui ripetè, a voce più alta. Non reagii. Allora mi prese per le orecchie, mi sollevò come quel bambino aveva sollevato il mio Snoopy e gridò come fosse possibile che non ci sentissi viste le antenne paraboliche che mi ritrovavo. Tutti risero. Era come se questa volta, nel cesso, ci fossi finito io. Sentii le mani irrorarsi di sangue. E gli tirai un pugno nelle palle.
Neanche mi piaceva il calcio, a me. Ero stato costretto ad andarci dalla mamma, che non voleva stessi tutto il giorno chiuso in casa a leggere i libri che prendevo in prestito in biblioteca. Dopo quel giorno, quando mi espulsero dalla squadra, non insisté più per farmi fare attività fisica, e io potei finalmente dedicarmi alla lettura.
Avevo portato Lei proprio alla biblioteca dove avevo coltivato la mia passione per tutta l'adolescenza. Ci eravamo conosciuti in università. Io facevo il pendolare, Lei era fuorisede. Entrambi studiavamo Lettere Antiche. L'avevo conosciuta per caso, anche se fino al momento del nostro incontro avevo spesso fantasticato su di Lei. Alle lezioni di Filologia romanza c'era questa ragazza bellissima. Era sempre concentrata sulla spiegazione del professore, e quando si concentrava mordeva la penna con un sorriso, che le gonfiava le guance rubino. Mi innamorai di quelle guance, di quel sorriso, dell'amore per lo studio che leggevo nei suoi occhi. E passavo la lezione a pensare a una frase per presentarmi, ma i libri che avevo studiato non mi avevano preparato all'improvvisa aridità che provoca l'innamoramento, e al fatto che Lei, appena terminava la lezione, si affrettava fuori, e io non la rivedevo più fino alla settimana successiva.
In quel periodo ero anche alla ricerca di un manuale usato per il corso di Filologia romanza. Nuovo costava troppo, e potevo contare solo sul mio guadagno come insegnante di ripetizioni per le spese universitarie. Fu così che mi recai in copisteria, sperando che avessero una copia stampata, ma non ebbi fortuna. Allora mi recai alla biblioteca universitaria. I libri che erano materiale d'esame venivano tenuti a scaffale e potevano essere presi in prestito al massimo per una settimana. Era un tentativo disperato, ma anche la mia unica possibilità.
Il bibliotecario mi disse che il manuale che cercavo era attualmente in prestito, ma che la consegna era prevista entro quella sera stessa. Allora decisi di rimanere in zona e ritornare più tardi. Quando lo feci, al banco del bibliotecario c'era Lei. La gola si seccò. Mossi un passo indietro e aspettai a testa bassa. Mi ero fatto crescere i capelli: spostai due ciocche per coprire quelle protuberanze che mi crescevano ai lati del cranio. Poi, vidi il libro che Lei e il bibliotecario stavano tenendo tra le mani. Non potevo, nemmeno nel suo caso, lasciare che qualcuno mi fregasse il manuale di Letteratura latina!
"Quello è il libro che ho preso in prestito io!" Mi guardarono, frastornati. Lei rise.
Venne fuori che era stata Lei a prenderlo in prestito, per la stessa ragione per cui lo volevo io. Iniziammo a parlare, spinti dal comune disprezzo verso gli editori che caricavano così tanto il costo dei manuali universitari. Decidemmo che l'avremmo preso in prestito a settimane alternate Lei e io, in modo da poter studiare in modo continuativo sul manuale. Fu così che iniziammo a incontrarci in biblioteca, e poi fuori, e poi la invitai a visitare il mio paese, a solo 20 minuti di treno dalla città universitaria.
La prima tappa del nostro appuntamento era stata la biblioteca della mia infanzia e adolescenza. Volevo mostrarle la sala di lettura con i murales del T-Rex che rincorreva lo Stegosauro mentre un astronauta si calava in picchiata a cavallo di un asteroide e un esploratore si faceva strada nella giungla di felci. Quel murales colorato, sgargiante era stato lo sfondo delle mie letture, quando passavo i miei pomeriggi al tavolo da lettura difronte, in compagnia dei miei migliori amici: i libri. Avevamo passato lì dentro anche più tempo di quanto avessi preventivato, perché quel giorno pioveva e volevamo ripararci dall'acqua. Lei mi aveva chiesto per quale motivo il T-Rex rincorresse lo Stegosauro, e io risposi per mangiarselo. Mi invitò a essere più fantasioso. Mi riportò a quando era bambino, e immaginavo che il T-Rex volesse solo giocare, ma che lo Stegosauro scappasse da lui perché non voleva giocare con un dinosauro così strano, con delle braccine così corte. Lei rise. Le era piaciuta la storia. E riuscì a far ridere pure me. Aveva un risata così melodiosa. Avrei voluto sentirla per tutta la vita.
Quella stessa risata ora era una lametta conficcata e ritorta nei miei timpani. Stringevo ancora l'ombrello, che si piegava sempre più nel mio pugno. Lei, a pochi passi alla mia sinistra, ridacchiava divertita coprendosi la bocca, «Mi sa che l'hai proprio rotto.»
Perché rideva? Che cos'era che la faceva così tanto ridere? Come i bambini che si erano presi gioco di me. Come i ragazzini che mi avevano chiamato scarso. Rideva come...
Mi voltai di scatto, mi sporsi verso di Lei, Le premetti il puntale dell'ombrello contro il mento, «Si può sapere che cazzo ridi, eh? Nessuno ride così tanto per un ombrello rotto.» lo spezzai con una ginocchiata. «Ti sembro un imbranato? È per le orecchie? È perché mi piace leggere? Eh? Che cazzo ridi!»
Lanciai l'ombrello nel piazzale oltre il portico. Cadde con uno schiocco: la rottura definitiva. Lei mi guardò come se quello schiocco fosse avvenuto nel Suo cuore. Corse via. Mi lasciò davanti alla biblioteca dove mi ero fatto compagnia da solo per tutta la vita. Il mio riflesso alla vetrata aveva gli occhi spenti. Tremavo, non per il freddo ma per la paura. Avevo rovinato tutto. Non ero più neanche sicuro che stesse ridendo sguaiatamente come mi era sembrato. Forse ridacchiava per sdrammatizzare.
Camminai verso il piazzale. La pioggia mi rigava le guance, il Sole faceva brillare le gocce sul mio viso. Da qualche parte c'era l'arcobaleno, ma non lo vedevo. Mi chinai, raccolsi l'ombrello, e tornai a casa. Da solo.
Da solo.
Da allora avevo condotto il resto della mia esistenza in solitudine. Alla festa di laurea non venne nemmeno mamma. Solo papà. Dopo, iniziò un lungo periodo di precariato. Ogni anno mi mandavano a fare il supplente in qualche scuola sperduta lungo gli Appenini, o nella nebbia padana. Dopo dieci anni finalmente passai di ruolo nella scuola del mio paese. Le mattine a insegnare ai ragazzi, i pomeriggi a preparare le lezioni. Era difficile per un insegnante di italiano non frequentare la biblioteca, ma io la evitavo a ogni costo. Andarci significava rivivere quell'errore. Se chiudevo gli occhi, riuscivo ancora a sentire la Sua risata. Il ricordo del volto era sbiadito, e comunque non l'avrei riconosciuta dopo tutti questi anni, ma quello della Sua risata no. Ogni volta, quel suono melodioso veniva bruscamente interrotto da uno schiocco metallico. Era a quel punto che riaprivo gli occhi con una lacrima lucida come le gocce di pioggia sul mio viso quel giorno. Poi andai in pensione. Ora uscivo di casa solo per fare la spesa, ed evitavo di farlo nei giorni di pioggia col Sole.
Quel giorno pioveva col Sole. Rimanevo alla finestra di camera mia, a cercare l'arcobaleno da qualche parte. Non l'avevo più rivisto. Ero assorto nell'osservazione del cielo, quando udii uno schiocco. Sussultai. Non era uno schiocco: qualcuno stava bussando.
Sull'uscio di casa c'era un bambino. La pioggia gli schiacciava i capelli bruni a scodella. Aveva un viso tondo, le guance rubiconde e un paio di prorompenti orecchie a sventola. Sgranai gli occhi. Era come star fissando una foto di me da piccolo.
«Tu sei...»
Mi interruppe con un gesto brusco della mano. «Oggi piove di nuovo. Vuoi tornare indietro e parlare con Lei?»
Il tonfo del mio cuore fu un tuono. «Che cosa?»
«Oggi piove di nuovo. Vuoi tornare indietro e parlare con Lei?» allungò la sua manina paffuta.
Strinsi quelle dita, «Che cosa sai di Lei, tu?»
«Tutto»
«Come?»
Mi strinse la mano a sua volta. Con dolcezza mi attrasse a sé, si mise al mio fianco, mi guidò fuori dal cortile di casa, oltre il cancello, in strada. Provai a resistere, dissi che avevo dimenticato la porta aperta, ma la sua presa morbida era solida e, quando mi voltai, vidi che la porta era chiusa. Lo guardai. Mi stava guardando. I suoi – i miei – occhioni verdi erano rigati dalla pioggia, mentre il Sole illuminava le gocce sul suo viso.
«Fu per la mamma, vero?»
«Che cosa?»
«Fu per la mamma.»
Mia mamma era una donna bella, un po' in carne, con due bellissime orecchie di cui andava molto fiera. Sua madre, mia nonna, aveva due larghe orecchie a sventola, che lei detestava. Per questo, quando nacqui, lei inorridì.
Da piccolo, mi fasciava la testa con una benda e la stringeva fino a quando il cervello mi schizzava fuori dal cranio. Quando, ore dopo, mi liberava da quella tortura, prendeva il righello e misurava di quanti millimetri si erano compresse le orecchie. Ogni volta, stizzita, colpiva con il righello il bordo della scrivania a cui mi faceva sedere. Certe volte, inavvertitamente, colpiva anche le dita che mi faceva appoggiare sul tavolo durante quell'ispezione.
Col tempo si era arresa all'incorreggibilità di quel difetto fisico, come si era arresa al fatto di avere un figlio impedito per qualsiasi attività fisica e capace solo di immagazzinare le nozioni che leggeva sui libri che tanto amava. Ma il colpo di grazia calò quando le dissi della mia intenzione di iscrivermi a Lettere antiche per diventare insegnante. I miei genitori erano commessa e operaio, gente semplice, che grazie al patrimonio di famiglia era proprietaria di un paio di case. Avevano sempre espresso per me la volontà di mandarmi all'università. Forse si aspettavano Medicina, o Giurisprudenza. Papà, in ogni caso, disse che l'insegnante era un mestiere pieno di dignità, e approvava la mia scelta. Mamma mi rise in faccia.
"L'insegnante vuoi fare?" sghignazzava, "Ma non ti rendi conto? Ti sei mai reso conto? Dovevi sceglierti un mestiere dove guadagnare un po' di grana, non uno dove fare la fame! Ma non hai mai capito per quale motivo volevo correggerti quelle schifose orecchie da elefante? Non ti vorrà mai nessuna, nessuna vuole avere dei bambini che assomiglino a un elefante, e se non farai un po' di grana nessuna vorrà nemmeno mai sposarti! Ridicolo."
Ero corso in biblioteca piangendo.
Senza accorgermene, il bambino – me stesso da bambino – si era fermato sotto il portico della biblioteca. Sul mio arido volto di vecchio, lungo i canyon delle rughe, scorrevano le lacrime. Il bambino mi strinse le mani. Nella sua presa calda, carnosa sentii quanto fiacca e rattrappita era la mia. Lo guardai, addolorato. Il bambino sorrideva con determinazione.
«Vuoi tornare indietro da Lei?»
«...» quelle parole mi costarono ogni sforzo. Non lo avevo mai ammesso ad alta voce «Sì.»
Il mondo prese a vorticare. Fu come stare su un veliero durante una tempesta. Chiusi gli occhi.
Quando li riaprii, davanti a me non c'era più il mio riflesso imberbe – c'era Lei. Era giovane come quando l'avevo conosciuta. Sentii una forza nuova nei muscoli ritornati quelli di un ragazzo, e non più quelli di un vecchio pieno di rimorsi. Tra le mie mani, puntato contro di Lei, c'era l'ombrello rotto. Mi scoprii a sorridere.
«Nessuno ride di me.» Le feci l'occhiolino, «In guardia, signorina.»
Lei rise. Con la coda dell'occhio, alle Sue spalle, vidi l'inizio di un arcobaleno.