[MI188] Gino il Selvaggio
Posted: Thu Oct 16, 2025 9:50 am
Traccia contest
1. Perché?
Commento a racconto
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Gino il Selvaggio
«Perché? Tu chiedi a me perché ti tocca lavorare di domenica? E' lo schifoso sistema capitalistico, ecco perché. Ci avete sguazzato in tanti mentre noi prendevamo le botte. Marx vi aveva avvertito duecento anni fa, mo' vi attaccate al cazzo. Piuttosto, chiama un altro giro».
Gino il Selvaggio era così, una via di mezzo fra un filosofo e l'ubriacone del villaggio di un romanzo irlandese, per dirla alla Hunter Thompson. Lo chiamavano in quel modo perché da giovane era stato protagonista della stagione NoGlobal; in quegli anni non era raro incrociarlo a urlare slogan e pogare dietro ai mega amplificatori dei camioncini distribuiti lungo i cortei. Spesso a fine manifestazione lo potevi trovare totalmente rincoglionito da quel mix di stanchezza, alcol e marijuana che solo un corteo fatto bene riusciva a darti, sopra qualche panchina con la maglia arrotolata a mo' di cuscino sotto la testa. Leggende più smaliziate narravano di come il soprannome gli fosse stato affibbiato una sera in cui, dopo un Concertone del 1° Maggio a Roma, si era addormentato sul lercio pavimento di un autobus e una signora in pellicciotto, con sguardo disgustato, aveva esclamato «che razza di selvaggio!». In quel momento tutti gli altri si erano lasciati andare a risate irrefrenabili e così da quella sera Gino era diventato "il Selvaggio" mentre Forza Italia aveva probabilmente acquisito una nuova elettrice.
Io e Gino avevamo frequentato tutta la filiera della scuola dell'obbligo in sinergia, anche perché vivendo in provincia una sola era la scuola elementare, una sola la media, uno solo il liceo più vicino da raggiungere con l'autobus o col treno svegliandosi all'alba e rientrando al tramonto. Poi, all'inizio del nuovo millennio, ci eravamo avviati con il diploma in una mano e una valigia nell'altra verso quell'orizzonte carico di aspettative che per un provinciale si chiama Università, soprattutto se sei un fuorisede e sai che da lì in poi andrai a vivere da solo e saranno cazzi tuoi. Niente più madre che ti urla nelle orecchie, niente broccoletti a cena, niente più fumare di nascosto. Fu allora che Gino scoprì la politica universitaria, le feste al centro sociale, le bevute serali e, dopo poco, anche quelle pomeridiane. Non che fosse un semplice dissoluto, intendiamoci; Gino era un appassionato di politica, seppur uno di quelli convinti che il movimentismo avesse molte più chance dei partiti di rivoluzionare la società visto come si stavano mettendo le cose. Tenete conto del fatto che iniziavano gli anni duemila e una popolazione che ancora tremava per la paura del Millennium Bug si apprestava, anche se ancora non lo sapeva, ad entrare in una delle fasi più calanti della sua breve storia repubblicana. "Caro duemila, quanto tempo è già passato dal lontano zero" cantava Elio con le sue Storie Tese eppure le porte di quella spalancata modernità, il futuro che pareva si potesse da lì in poi assaggiare a cucchiaiate piene, non sembravano aver messo da parte il fermento politico delle nuove generazioni che erano state solo in minima parte sfiorate da Tangentopoli e dalle monetine volate davanti all'Hotel Raphael di Milano. Troppo giovani per aver vissuto appieno i giorni dei Pertini e delle notti magiche dell'Italia di Azeglio Vicini ma troppo anziani per rientrare nella generazione dei nativi digitali, eravamo cresciuti con i Nirvana e i Green Day nelle cuffie attaccate ai mangianastri, i cartoni animati sulle reti commerciali e i pomeriggi nelle sale giochi. Una generazione cui era toccato diventare adulta al cambio di millennio non poteva non pensarsi predestinata ma, come accadde al povero giudice cantato da De André, il seguito prova che aveva torto. Torto marcio. Essere lì, in quel preciso istante, al sorgere di quel nuovo millennio, voleva dire essere parte integrante della prima generazione post-bellica capace di stare peggio di quella che l'aveva preceduta. Una botta di culo che capita ad ogni millennio. In quel momento storico si stava sviluppando al di là dell'oceano un nuovo movimento giovanile che aveva messo nel mirino la globalizzazione capitalistica: il cosiddetto popolo di Seattle che lasciò sul terreno feriti e morti e che dopo grandi ondate terminò con una risacca e pochissimi danni alla battigia.
Gino fu a Genova, mancando la macelleria cilena della Diaz per poco, a Roma, a Firenze. Lo sentivo via sms o con brevi chiamate, quando era tornato lucido, e mi raccontava tutto. Dormiva a casa dei tanti compaesani sparpagliati in tutta Italia o dove capitava, creava reti e conoscenze grazie al solo passaggio di una bottiglia o di una canna. C'era un senso di invincibilità in chi ha vissuto quegli anni nei cortei e nelle assemblee, sembrava quasi di poter toccare con mano quel cambiamento che avrebbe spazzato via le disuguaglianze e le politiche basate solo sul denaro e sul profitto. Ma, nonostante l'attesa e le aspettative, non è cambiato nulla. Nei successivi venticinque anni ci siamo sentiti spiegare che una soluzione c'era, anche a livello globale: il mercato, panacea di tutti i mali, essere mitologico metà profitto metà incentivo pubblico che era talmente in grado di autoregolarsi da portare anno dopo anno gli industriali a piangere dal governo quando le cose andavano male. In tal modo l'industriale poteva continuare a comprare macchine e case in montagna mentre i dipendenti andavano in cassa integrazione e lo Stato ci metteva i soldi, tagliando ovviamente i servizi. «Sai cosa è divertente?" - ripetevo spesso a Gino facendolo incazzare - "quelle teste di cazzo che all'epoca tifavano per le manganellate oggi passano le loro giornate ad inveire sui social contro i danni che la globalizzazione capitalistica ha fatto ai loro portafogli».
Rientrammo dall'università con tempistiche diverse, io pronto a prendere il posto di mio padre nello studio legale di famiglia, Gino dopo qualche anno senza nessun pezzo di carta in tasca e con la disillusione che solo chi ha vissuto l'onda lunga di Seattle può capire. Iniziò a lavorare in una fabbrica di laminati, ci vedevamo all'aperitivo il venerdì sera nel baretto in cui quasi ogni giorno Gino stazionava con il suo fido cane Boston George sotto al tavolo e il suo fido campari gin sopra al tavolo a disquisire di politica e di attualità con chiunque gli capitasse a tiro. L'ultima volta che lo avevo incontrato mi ero accorto che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Mi sedetti con lui e indugiai sul suo viso il tempo necessario per registrare due occhiaie nerastre sotto le palpebre arrossate e un colore giallognolo che non lo aveva mai contraddistinto. Le prime striature di grigio erano comparse fra i lunghi capelli raccolti nel perenne crocchio. Sembrava invecchiato di dieci anni, un po' troppo anche per un operaio dal bicchiere facile come era lui. Dopo aver chiacchierato del più e del meno gli chiesi come se la stesse passando e mi rispose che era in attesa di una chiamata importante. «Donne?» chiesi ridendo.
«Istituto Regina Elena» rispose lui con un sorriso talmente mesto da lasciarmi muto e in silenzio per almeno cinque minuti. «Ti ricordi l'università?» - disse allora con improvviso trasporto - «quante cazzate abbiamo fatto». Annuii con la testa, gli occhi velati dalle lacrime.
«Volevamo fare la rivoluzione» - aggiunse accendendosi una sigaretta - «guarda invece che fine di merda che abbiamo fatto. Tu con sta giacca che pari un cameriere, io a spostare lamiere per quattro soldi. Le cose non cambiano. Hanno vinto loro».
Vuotò il bicchiere e si alzò, seguito da Boston George. Riuscii a malapena ad allungare una mano verso di lui a mo' di saluto e rimasi a fissare il vuoto come inebetito.
Il mattino dopo non si presentò a lavoro. Lo trovarono steso sopra una panchina del parco, con la maglia arrotolata sotto la testa e un sorriso stanco.
Era come se fosse tornato ai tempi d'oro, ma senza più un corteo da seguire.
1. Perché?
Commento a racconto
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Gino il Selvaggio
«Perché? Tu chiedi a me perché ti tocca lavorare di domenica? E' lo schifoso sistema capitalistico, ecco perché. Ci avete sguazzato in tanti mentre noi prendevamo le botte. Marx vi aveva avvertito duecento anni fa, mo' vi attaccate al cazzo. Piuttosto, chiama un altro giro».
Gino il Selvaggio era così, una via di mezzo fra un filosofo e l'ubriacone del villaggio di un romanzo irlandese, per dirla alla Hunter Thompson. Lo chiamavano in quel modo perché da giovane era stato protagonista della stagione NoGlobal; in quegli anni non era raro incrociarlo a urlare slogan e pogare dietro ai mega amplificatori dei camioncini distribuiti lungo i cortei. Spesso a fine manifestazione lo potevi trovare totalmente rincoglionito da quel mix di stanchezza, alcol e marijuana che solo un corteo fatto bene riusciva a darti, sopra qualche panchina con la maglia arrotolata a mo' di cuscino sotto la testa. Leggende più smaliziate narravano di come il soprannome gli fosse stato affibbiato una sera in cui, dopo un Concertone del 1° Maggio a Roma, si era addormentato sul lercio pavimento di un autobus e una signora in pellicciotto, con sguardo disgustato, aveva esclamato «che razza di selvaggio!». In quel momento tutti gli altri si erano lasciati andare a risate irrefrenabili e così da quella sera Gino era diventato "il Selvaggio" mentre Forza Italia aveva probabilmente acquisito una nuova elettrice.
Io e Gino avevamo frequentato tutta la filiera della scuola dell'obbligo in sinergia, anche perché vivendo in provincia una sola era la scuola elementare, una sola la media, uno solo il liceo più vicino da raggiungere con l'autobus o col treno svegliandosi all'alba e rientrando al tramonto. Poi, all'inizio del nuovo millennio, ci eravamo avviati con il diploma in una mano e una valigia nell'altra verso quell'orizzonte carico di aspettative che per un provinciale si chiama Università, soprattutto se sei un fuorisede e sai che da lì in poi andrai a vivere da solo e saranno cazzi tuoi. Niente più madre che ti urla nelle orecchie, niente broccoletti a cena, niente più fumare di nascosto. Fu allora che Gino scoprì la politica universitaria, le feste al centro sociale, le bevute serali e, dopo poco, anche quelle pomeridiane. Non che fosse un semplice dissoluto, intendiamoci; Gino era un appassionato di politica, seppur uno di quelli convinti che il movimentismo avesse molte più chance dei partiti di rivoluzionare la società visto come si stavano mettendo le cose. Tenete conto del fatto che iniziavano gli anni duemila e una popolazione che ancora tremava per la paura del Millennium Bug si apprestava, anche se ancora non lo sapeva, ad entrare in una delle fasi più calanti della sua breve storia repubblicana. "Caro duemila, quanto tempo è già passato dal lontano zero" cantava Elio con le sue Storie Tese eppure le porte di quella spalancata modernità, il futuro che pareva si potesse da lì in poi assaggiare a cucchiaiate piene, non sembravano aver messo da parte il fermento politico delle nuove generazioni che erano state solo in minima parte sfiorate da Tangentopoli e dalle monetine volate davanti all'Hotel Raphael di Milano. Troppo giovani per aver vissuto appieno i giorni dei Pertini e delle notti magiche dell'Italia di Azeglio Vicini ma troppo anziani per rientrare nella generazione dei nativi digitali, eravamo cresciuti con i Nirvana e i Green Day nelle cuffie attaccate ai mangianastri, i cartoni animati sulle reti commerciali e i pomeriggi nelle sale giochi. Una generazione cui era toccato diventare adulta al cambio di millennio non poteva non pensarsi predestinata ma, come accadde al povero giudice cantato da De André, il seguito prova che aveva torto. Torto marcio. Essere lì, in quel preciso istante, al sorgere di quel nuovo millennio, voleva dire essere parte integrante della prima generazione post-bellica capace di stare peggio di quella che l'aveva preceduta. Una botta di culo che capita ad ogni millennio. In quel momento storico si stava sviluppando al di là dell'oceano un nuovo movimento giovanile che aveva messo nel mirino la globalizzazione capitalistica: il cosiddetto popolo di Seattle che lasciò sul terreno feriti e morti e che dopo grandi ondate terminò con una risacca e pochissimi danni alla battigia.
Gino fu a Genova, mancando la macelleria cilena della Diaz per poco, a Roma, a Firenze. Lo sentivo via sms o con brevi chiamate, quando era tornato lucido, e mi raccontava tutto. Dormiva a casa dei tanti compaesani sparpagliati in tutta Italia o dove capitava, creava reti e conoscenze grazie al solo passaggio di una bottiglia o di una canna. C'era un senso di invincibilità in chi ha vissuto quegli anni nei cortei e nelle assemblee, sembrava quasi di poter toccare con mano quel cambiamento che avrebbe spazzato via le disuguaglianze e le politiche basate solo sul denaro e sul profitto. Ma, nonostante l'attesa e le aspettative, non è cambiato nulla. Nei successivi venticinque anni ci siamo sentiti spiegare che una soluzione c'era, anche a livello globale: il mercato, panacea di tutti i mali, essere mitologico metà profitto metà incentivo pubblico che era talmente in grado di autoregolarsi da portare anno dopo anno gli industriali a piangere dal governo quando le cose andavano male. In tal modo l'industriale poteva continuare a comprare macchine e case in montagna mentre i dipendenti andavano in cassa integrazione e lo Stato ci metteva i soldi, tagliando ovviamente i servizi. «Sai cosa è divertente?" - ripetevo spesso a Gino facendolo incazzare - "quelle teste di cazzo che all'epoca tifavano per le manganellate oggi passano le loro giornate ad inveire sui social contro i danni che la globalizzazione capitalistica ha fatto ai loro portafogli».
Rientrammo dall'università con tempistiche diverse, io pronto a prendere il posto di mio padre nello studio legale di famiglia, Gino dopo qualche anno senza nessun pezzo di carta in tasca e con la disillusione che solo chi ha vissuto l'onda lunga di Seattle può capire. Iniziò a lavorare in una fabbrica di laminati, ci vedevamo all'aperitivo il venerdì sera nel baretto in cui quasi ogni giorno Gino stazionava con il suo fido cane Boston George sotto al tavolo e il suo fido campari gin sopra al tavolo a disquisire di politica e di attualità con chiunque gli capitasse a tiro. L'ultima volta che lo avevo incontrato mi ero accorto che qualcosa non stava andando per il verso giusto. Mi sedetti con lui e indugiai sul suo viso il tempo necessario per registrare due occhiaie nerastre sotto le palpebre arrossate e un colore giallognolo che non lo aveva mai contraddistinto. Le prime striature di grigio erano comparse fra i lunghi capelli raccolti nel perenne crocchio. Sembrava invecchiato di dieci anni, un po' troppo anche per un operaio dal bicchiere facile come era lui. Dopo aver chiacchierato del più e del meno gli chiesi come se la stesse passando e mi rispose che era in attesa di una chiamata importante. «Donne?» chiesi ridendo.
«Istituto Regina Elena» rispose lui con un sorriso talmente mesto da lasciarmi muto e in silenzio per almeno cinque minuti. «Ti ricordi l'università?» - disse allora con improvviso trasporto - «quante cazzate abbiamo fatto». Annuii con la testa, gli occhi velati dalle lacrime.
«Volevamo fare la rivoluzione» - aggiunse accendendosi una sigaretta - «guarda invece che fine di merda che abbiamo fatto. Tu con sta giacca che pari un cameriere, io a spostare lamiere per quattro soldi. Le cose non cambiano. Hanno vinto loro».
Vuotò il bicchiere e si alzò, seguito da Boston George. Riuscii a malapena ad allungare una mano verso di lui a mo' di saluto e rimasi a fissare il vuoto come inebetito.
Il mattino dopo non si presentò a lavoro. Lo trovarono steso sopra una panchina del parco, con la maglia arrotolata sotto la testa e un sorriso stanco.
Era come se fosse tornato ai tempi d'oro, ma senza più un corteo da seguire.