Quando tutto fu finito, e la vita era tornata a scorrere come un rigagnolo fangoso in una strada di periferia, l'ingegnere Emiliano R. prese la decisione di punirsi non solo smettendo di fumare – lui che da quando era ragazzino accendeva non meno di quindici sigarette al giorno –, ma anche eliminando per sempre dalla dieta gli ziti alla Norma che sua madre, siciliana, preparava ogni domenica da che era venuto al mondo.
Pensava che in questo modo, una volta morto, Dio gli avrebbe riservato una punizione meno severa. Che magari non lo avrebbe spedito dritto all'inferno, da cui pare non ci sia ritorno, bensì al purgatorio, e da qui, dopo un tempo indefinito che ai mortali non è dato comprendere, forse addirittura in paradiso, dove avrebbe potuto riabbracciare il padre e il nonno amatissimi.
Lui a queste cose ci credeva: ricordava bene la nonna materna fargli ripetere a memoria i dieci comandamenti mentre cuciva le calze bucate o attaccava qualche bottone saltato dai cappottini dei numerosi nipoti. E se sbagliava la sequenza esatta, poteva essere certo che si sarebbe preso uno schiaffo sulle mani.
Emiliano era andato dapprima a tastare il terreno con un prete – lui che a messa non ci andava mai, perché la domenica si rilassava giocando a tennis la mattina e il pomeriggio a biliardo –, e poi varie volte a confessarsi, fino a che il religioso gli aveva detto «basta! non può raccontarmi ogni settimana la stessa cosa: l'ho assolta, per la miseria, cos'altro vuole da me?», e allora aveva deciso di punirsi da solo, perché i padrenostro e gli avemaria che gli aveva prescritto il prete non gli sembravano sufficienti per il male che aveva fatto.
Nessuno, a parte chi lo aveva ascoltato in confessione, era venuto a conoscenza del putiferio interiore che aveva messo sottosopra la vita di Emiliano. Addirittura faticava a crederlo egli stesso: mai avrebbe pensato che gli sarebbe toccato in sorte di innamorarsi di un'altra, lui che credeva con forza nell'istituzione del matrimonio e aveva sempre rispettato la moglie; lui che in qualità di professionista serio e competente dirigeva uno studio associato famoso in tutta la regione e certo non aveva tempo da perdere in ridicolaggini sentimentali. Che vergogna, quanta tristezza.
Soltanto di rado il suo pensiero sostava su quei momenti di due anni addietro.
Gli capitava, di solito, la sera tardi, quando sedeva per pochi minuti sulla sedia di cucina, mentre beveva una camomilla zuccherata e Dora, la moglie, già dormiva da un pezzo.
Diceva a sé stesso che non c'era niente di male a ripensare a Livia. Tanto, ormai, le punizioni che si era imposto erano in atto e lo sarebbero state per sempre, e lui mai più nella vita avrebbe rischiato come quella volta.
Livia. Era entrata a casa sua in un giorno di festa, mentre i gemelli saltellavano dappertutto spintonandosi e gridando in attesa di spegnere le candeline e scartare i regali, e Dora era emozionatissima al pensiero di conoscere la fidanzata del fratello, quel fratello pieno di nevrosi che finalmente pareva aver trovato la pace.
Non gli era sembrata niente di speciale, e la sera, a letto, ricordava di averne parlato con Dora, che invece pareva esaltata e non faceva che ripetere «ah, se fosse ancora viva mamma, che gioia! vedere Angelo prossimo al matrimonio, che felicità sarebbe per lei!», e a lui che la interrompeva facendole notare che forse era troppo presto per pensare a una cosa seria, rispondeva dicendo «tu di sentimenti non ne capisci niente: limitati a fare l'ingegnere, che è meglio per tutti».
Col senno di poi, Dora non sbagliava: avrebbe dovuto limitarsi a fare il suo lavoro, e tenersi lontano da quel miscuglio incandescente che si chiama sentimento.
Già la seconda volta che Livia venne a casa, in occasione della vigilia di Natale, a Emiliano sembrò diversa, e la sera disse a Dora che era stata particolarmente tenera coi bambini quando facevano i capricci e lui non ne poteva più di stargli dietro.
Poi la rivide il giorno dopo, a Natale, e si divertì moltissimo a batterla a poker e teresina, sorridendo a tutte le smorfiette corrucciate che notava sul suo viso lentigginoso.
Quella sera, ricordava bene, non aveva parlato di Livia con Dora, anzi: da allora in poi cercò di non nominarla mai e di non entrare in nessun discorso che la riguardasse, perché aveva notato che solo a sentire le sillabe dolci di quel nome pieno di vocali provava un forte brivido allo stomaco. Il guaio era che i discorsi che la riguardavano erano diventati sempre più frequenti, perché Angelo le si legava ogni giorno di più e si cominciava davvero a parlare di matrimonio.
In un pomeriggio di marzo, poco prima del compleanno di Dora, la incontrò per caso al supermercato vicino casa. Scherzarono sul fatto che Emiliano non conosceva i prezzi di nessun prodotto e decisero di prendere un aperitivo al bar lì davanti, così avrebbero potuto parlare della scelta del regalo.
L'aiutò a sfilarsi il soprabito e si sedettero a un tavolo d'angolo. Nessuno venne a chiedere cosa ordinassero e loro non sollecitarono, tutti presi dal cercare di capire cosa fosse meglio per Dora, se un profumo d'alta classe o un altro gioiello.
Quando la cameriera prese l'ordine, Emiliano osservò come fosse cosa mai vista prima il movimento morbido delle labbra di Livia mentre pronunciava «mi porti per piacere una bibita a sua scelta, basta che non sia alcolica né frizzante» e sentì incontenibile nel ventre il desiderio di premere le proprie labbra su quella bocca umida, ora intenta a sorridergli scoprendo i denti bianchi e regolari. E sopra la bocca che gli stava raccontando della visita recente al museo egizio di Torino Emiliano notò gli occhi nerissimi e limpidi, e sotto gli occhi e la bocca il collo liscio e, sotto ancora, il seno pieno; e mentre Livia parlava delle mummie lui la vedeva nuda, lì sul pavimento del bar, nuda e allegra, e solo per lui.
Quella sera la salutò con un bacetto sulle guance, cosa che mai gli sarebbe venuta in mente nelle altre occasioni, e ne percepì l'odore magnifico, fatto di talco e mughetto; poi le strinse le mani finché lei, interdetta, non si sciolse dalla presa e se ne andò, ringraziandolo per l'aperitivo.
Il giorno del compleanno di Dora notò che Livia cercava di evitarlo, e ciò lo rese rabbioso al punto che davanti a tutti, durante la cena, disse che l'arrosto era insipido e pure bruciaticcio e che le candele sul tavolo puzzavano da morire.
Al momento del brindisi, Dora rifiutò di incrociare il calice col marito e per giorni non gli rivolse la parola.
Emiliano neppure si accorse che la moglie non gli parlava. Negli occhi, nella testa e nello stomaco aveva solo il corpo nudo di Livia: Livia che faceva colazione; Livia che rincorreva l'autobus o si pettinava; Livia mentre faceva la spesa o redigeva il report settimanale: sempre senza vestiti addosso e con lo sguardo vivido rivolto a lui.
Neppure si accorse che Angelo aveva ripreso a bere, e quando veniva a trovarli non era più in compagnia di Livia.
Non vide le lacrime di Dora né la disperazione del cognato, lasciato dalla fidanzata all'improvviso, senza un perché.
I due comandamenti scelti per il racconto sono il nono, "Non desiderare la donna d'altri", e il sesto, "Non commettere atti impuri".
Preciso, ai fini della correttezza della traccia, che con l'espressione "non commettere atti impuri" viene di solito tradotta la frase che suona letteralmente "non commettere adulterio".
A quest'ultima ho ricollegato le parole del Vangelo, secondo cui "chi desidera in cuor suo la donna d'altri, già commette adulterio".
Preciso, ai fini della correttezza della traccia, che con l'espressione "non commettere atti impuri" viene di solito tradotta la frase che suona letteralmente "non commettere adulterio".
A quest'ultima ho ricollegato le parole del Vangelo, secondo cui "chi desidera in cuor suo la donna d'altri, già commette adulterio".