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Tratti di pioggia sopra Auschwitz
La bandiera rossa apparve avanzare assieme la lunga coda di mezzi militari. Non vi era polvere dietro di sé, solo il fumo nero dei motori surriscaldati, confuso tra il bianco vapore dei respiri dei soldati. Era il giorno ventisette del gennaio del 45; il più sconcertante che la storia abbia mai conosciuto.
Lo sterrato fu indifferente al pesante passaggio dei camion, tanto il gelo aveva reso quella nuda terra rigida e insensibile. Era stata la lunga serie di caseggiati inseriti all'interno della enorme linea di recinti, che aveva spinto il comandante Kurockin a inviare quattro dei suoi a cavallo in avanscoperta. Dopo aver tagliato le catene del cancello, sotto gli increduli e spauriti sguardi, di quelli che apparvero come dei fantasmi, Palev spalancò la porta dell'inferno al mondo intero.
“ Siete stati liberati dalla Armata Rossa! Dai valorosi soldati della patria Russia! Che ha sconfitto il demonio nazista per sempre! Siatene grati!”
Il discorso fiero e solenne fu tenuto dall'ufficiale sullo stesso tavolato sopraelevato dello stabile; che era stato usato come il centro di comando tedesco del campo: adesso erano cambiate le uniformi, le bandiere.
Ma molti di quelli che avevano ascoltato il proclamo della disfatta nazista e della ritrovata libertà parvero non capire; ancora la paura non li aveva abbandonati. Solo nei giorni seguenti capirono che qualcosa di importante era avvenuto. Era cambiato il via vai delle persone. Si cercava di raccogliere i morti, rinsecchiti e vuoti dopo giorni all'aria. Gli sguardi compassionevoli avevano sostituito quelli duri, crudeli, arcigni, terrorizzanti, con i quali erano stati soggiogati.
Molti di loro avrebbero continuato per giorni a vagare per il campo liberato come se niente fosse successo e come se ancora aspettassero la morte. Camminare, muoversi, non stare fermi, immobili, inermi. Fare qualcosa per metabolizzare l'esperienza e pian piano riprendere le redini della vita.
“ Vuoi parlarmi di te? Ti va?”, chiese Aleksey a Itzac.
Un tavolo di legno li univa, uno di fronte all'altro; il silenzio e la flebile luce del giorno li teneva compagnia.
“ Capisco che sia difficile per te parlare... mi è stato dato l'incarico di raccogliere notizie sull'accaduto...e dato che tu conosci la mia lingua, chi meglio di te può essere utile... queste carogne non la devono passare liscia ” , annuì ancora Aleksey.
“ Io- io- io non so che dirti; ancora non mi rendo conto”, esclamò Itzak.
“ Dimmi quello che senti, comincia da dove vuoi; ti farà bene liberarti”.
“ Liberarmi? Magari potessi!”, rispose con una punta di ironia e con un allargare di braccia come a mettere in evidenza la sua persona, e come la divisa a righe che nascondeva ciò che rimaneva di lui fosse oramai quasi una seconda pelle.
“ Io sono Itzak Hirsh, ho ventisette anni, mio padre era Avraham Hirsh, mia madre Ariela Rosemberg. I miei nonni si chiamavano Natan e Malka Hirsh per la parte di mio padre”... “
Aleksey lo fermò dall'elencare la sua famiglia: “ capisco l'importanza delle tue origini: credimi. Conosco bene cosa sia per voi la memoria dei vostri cari; ti prego vai oltre”.
“ Sono oramai nomi che possono vivere solo nella mia mente, dato che so dove oggi stanno, e di certo, non su questa terra. “
Itzak fece una pausa di qualche secondo e riprese il racconto. Le sue parole distese lo riportarono indietro nei ricordi.
“ Lontani e sicuri stanno i giorni di quando arrivai qui. Non ricordo bene a chi stringevo la mano,
e chi mi si aggrappò con forza quando fummo fatti scendere dal carro. Ricordo la confusione, la gente che chiama – Zlata ! Zlata! Uri! Uri!- . E poi l'abbaiare dei cani, il sibilo delle fruste, gli ordini di chi ci divise: rauss! Schnell ! beeil dich, beweg dich, du bist hier und du bist frei!
Lontani sono quei giorni. Lontana è la paura, il terrore. Ho perso il contatto con il mondo, sono entrato come dentro ad una gabbia. La gente si gettava sul filo spinato in tensione scegliendo la morte più dolce. Io ho fatto l'abitudine alla paura; non so in quanto tempo mi sono estraniato al terrore. Non so come abbia fatto a non provare più pena, ne paura nel vedere la gente morire. Quanti di noi messi in fila fuori nella notte, nudi al gelo e alla vergogna, bagnati con gli idranti, e io a guardare senza provare niente. Li vedevo andar giù uno alla volta; senza dire una parola, dopo un momento di brivido, mentre il gelo silenzioso li assaliva. Gli ho visto mettere le sue gelide mani dentro al loro cuore, stringendotelo forte sino a farlo smettere di battere. Li portavano via la mattina duri come la pietra, qualcuno con le braccia tese e in posa come manichini.
Cosa sono diventato io? Un mostro che non sente dolore per nessuno! Come se la morte mi fosse diventata fraterna e compagna di giochi!“
Itzak apparve bloccarsi nel suo vaneggiare; Aleksey approfittò della pausa per cambiare discorso e uscire da quel racconto di morte: „ dimmi, ma come passavi le giornate? „
- guardavo morire la gente mentre la pioggia scendeva! Hai mai notato che i tratti di pioggia sono perfetti e dritti come se fossero disegnati col righello? Sono linee sottili come lame, che segnano lo sfondo tra terra e cielo; appaiono dritte e seguire i contorni del filo spinato. Si accompagnano fedeli alle sbarre, alle recinzioni; come le righe che abbiamo cucite addosso, cornice di corpi di sole ossa. Tratti di pioggia cadente dal color graffite, grigia e pregna di cenere, in questo gioco di sfumature che abile matita può disegnare e far risaltare dalla neve con due linee, i gelidi binari morti con i quali sono arrivato. Dritti come lame che segnano la fine nella spietata geometria del dolore, dove nessuna curva resiste dal deviare da giorni di noia, dove l'unica sorpresa è solo una breve tangenziale verso quella libera polvere che è stata a noi destinata, ma cui io non appartengo, non essendomi mischiato alle altre ceneri. Non faccio parte di quel colorante con cui questi tratti di pioggia tutto ha disegnato; non faccio parte di questo dipinto dalle tinte sbiadite“.
Itzak ancora si fermò dal parlare, e nello stesso istante una porta si aprì con grande sollievo di Aleksey che si mise in piedi e andò incontro al compagno Antonov: “ questo qui è andato fuori di testa, non lo possiamo utilizzare come testimone. Farfuglia cose senza avere nessuna lucidità.”
“ compagno Aleksey! Ho saputo delle cose terribili. Quest'uomo è Itzak Hirsh, professore di lettere a Varsavia, figlio di famiglia di letterati e poeti “.
“ Sì! Sono io, Itzak Hirsh, figlio di Avraham Hirsh, mia madre Ariela Rosemberg. I miei nonni si chiamavano Natan e Malka Hirsh per la parte di mio padre...”
“ Sì lo so Itzak, se vuoi puoi andare a fare una passeggiata, ci siamo detti tutto “ .
Itzak uscì dalla baracca e prese i suoi passi lentamente unendosi a chi davanti a lui percorreva gli abituali viali privi di alberi e di foglie a terra. Viali prospettici disegnati da filo e reti, dritti pali, e dove le sagome dei sopravvissuti si disegnarono nel centro della scena.
Antonov lo guardò perdersi tra i filari, scosse la testa dicendo: “ Come avrebbe potuto reggere a ciò che ha visto? Da quel che si racconta, appena sceso dal treno, la moglie prese a gridare e in preda al terrore si attaccò al suo braccio e inutili furono le sue suppliche di staccarsi per andare con le altre.. neanche i tedeschi riuscirono a staccarla e alla fine le spararono in testa. Da quel momento non è stato più lui, poveraccio. Questa guerra rimarrà scritta nella storia per molto tempo.
Tratti di pioggia sopra Auschwtiz.
Adesso cade copiosa,
sbattuta dal vento di marzo,
pulita dalla cenere e dall'onta.
Ritornare limpida e pura
annunciare la fine della peste.
I corpi ha reso alla terra,
perché possano dimenticare e riposare.
[Caronte] Tratti di pioggia sopra Auschwitz
1Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio