Riconoscere non è conoscere

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Dal Writer’s Dream - [MIXL2] Traccia: Lo sconosciuto

Riconoscere non è conoscere

Il laccio

Avevo fatto un buon lavoro con i lacci, facilissimi da costruire utilizzando dei comuni cavi per i freni da bicicletta, per formare un cappio con un nodo scorsoio. Credevo di avere installato solo una trappola anti-faine nel mio terreno, per salvaguardare le galline, e invece si è dimostrata essere anche un valido antifurto.
Meno male che mi trovavo lì per il mio consueto passaggio serale. Lui gridava aiuto: aveva scavalcato il cancello, saltando direttamente nel laccio. Quindi, nel procedere verso l’albero di albicocche, la sua probabile meta, il nodo scorsoio l’aveva avvinto strettamente e non riusciva a liberarsene da solo.
Sono stato brusco e sarcastico, lo ammetto, quando ho avvicinato quell’estraneo incursore col tronchese che avevo con me: “Un bel taglio e zac. Non sentirà lo stacco.”
Il terrore che gli ho letto negli occhi mi ha placato l’ira e sono riuscito a farlo smettere di tremare prima di operare il taglio della corda.
“Certo” gli ho fatto notare“ non trovi ridicolo che non sia il ladro a tagliare la corda ma il derubato?”
Lui ha fatto una smorfia di sorriso, anche perché ha capito che sono un ex scout, e mi ha chiesto scusa, dispiaciutissimo.
Si era ripreso abbastanza quando è uscito con le sue gambe dal cancello che gli tenevo aperto, ma non prima di avere mangiato una dozzina delle mie albicocche, eh!

Che spreco!

Il bar del 26 maggio è sempre lo stesso.
Quello dell’ultimo tavolino libero di quel giorno lontano, dopo la lezione universitaria, che mi avevi offerto di occupare con te.
C’è ancora Oscar al banco, a chiedermi: Il solito, Ivo?
Incassa il dovuto, e mi serve la bottiglia di Whisky Ballantine’s 30 anni, presa sotto il bancone. Prima, però, ne inghiotte un sorso: “Alla tua salute!” e me la passa. Ne annuso il contenuto (fidarsi è bene, non fidarsi è meglio), alzo la bottiglia in risposta al suo brindisi, e esco dal locale. Vado a versare il mio carissimo whisky in un vicino tombino. Mi asciugo la bocca con il fazzolettone e torno nel bar a consegnare il vuoto, e nel mentre passo accanto a uno sbarbatello che non è certo il primo a sussurrarmi: “Che spreco!” e non sarà l’ultimo.
Perché bevevo? Perché lei non era mia, e quello che mi dava la bottiglia era un paradiso artificiale ma che non mi faceva soffrire. E il poco tempo che poteva dedicarmi, che mi ha dedicato, invece di appagarmi accresceva esponenzialmente il mio desiderio di lei. Ma il 26 maggio di dieci anni fa, il giorno della sua morte prematura, e del mio massimo dolore, ho capito che le dovevo almeno questo. Onorare la sua memoria con il dono della mia sobrietà. Non ho mai ceduto da allora. Ti amo, mia tenera Alma.
Ricordo le parole che lei citava, ma non faceva sue, della Dickinson:
Di' tutta la verità, ma dilla obliqua - la via curva vince….
il vero deve abbagliare per gradi o tutti sarebbero ciechi -

Asterix

È un carcere sperimentale, con a capo un direttore che crede nel recupero, specie dei soggetti più giovani, e in una sezione si trova rinchiuso mio nipote Giorgio.
Vengo a trovarlo circa una volta al mese, da sei mesi che è qui, e deve scontarne ancora quattro per quella mattana che ha fatto, da recidivo. Ma ha capito, e sta imparando un mestiere, il falegname; già mi ha mostrato, da WhatsApp, la foto della panca fatta da lui e di cui è fiero.
Inoltre, legge molto e, sapendo che la settimana scorsa era il suo compleanno, gli avevo portato la mia intera raccolta di venti Asterix, che so piacergli.
Lui ne è stato entusiasta, ma mi ha pregato di lasciargliene solo due, di libri, e di portargli gli altri man mano, ritirando i precedenti, così non rischiava che glieli rubassero. E, strizzandomi l’occhio:
“Ci metto una settimana a libro, a finirlo.”
Uscendo, ho visto passarmi davanti una coppia allacciata stretta, e lui, un bel Romeo, dall’alto della sua felicità mi ha guardato con un sorriso di incoraggiamento. Sì, davvero, potevo sembrare un detenuto in uscita, dopo una lunga pena, con la sacca- valigia dei miei averi. Magari un po’ eccentrico, col mio sgargiante fazzolettone.

Lo scout sacrista

“Da solo tu devi guidar la tua canoa. Questo era davvero un buon consiglio per la vita. Nel disegno che ho fatto, sei tu che stai spingendo con la pagaia la canoa, non stai remando in una barca. La differenza è che nel primo caso tu guardi dinnanzi a te, e vai sempre avanti, mentre nel secondo non puoi guardare dove vai e ti affidi al timone tenuto da altri e perciò puoi cozzare contro qualche scoglio, prima di rendertene conto. Molta gente tenta di remare attraverso la vita in questo modo. Altri ancora preferiscono imbarcarsi passivamente, veleggiando trasportati dal vento della fortuna o dalla corrente del caso: è più facile che remare, ma egualmente pericoloso. Preferisco uno che guardi innanzi a sé e sappia condurre la sua canoa, cioè si apra da solo la propria strada.
Guida tu la tua canoa."
(Sir Robert Baden-Powell)

Siamo sulla stessa barca è una frase fatta che si può leggere anche in senso negativo, quando al timone della barca c’è qualcuno che ti dirige nelle procelle verso gli scogli, e hai un bel remare e darti da fare, ma se la direzione è sbagliata sono guai!
A me piace meditare sul pensiero della canoa di Baden Powell. E ascoltare le prediche del mio amico Don Pippo, collegate al Vangelo della domenica, perché ci trovo tanto buon senso e similitudine con una dottrina che di base esclude risolutamente l'egoismo e spalanca la porta alla buona volontà ed al servizio verso il prossimo. E quando esci dalla chiesa stai ancora meditando sulle sue parole, mai sterili, mai vane spesso sferzanti, ché quando ci vuole ci vuole!
Porto sempre al collo il mio fazzoletto-scout giallo e viola. Ne ho diversi, e sono riconoscibile per questo. Dovessi fare una mala azione, i testimoni sarebbero concordi su questa parte del vestiario.
C’è chi mi trova ridicolo, lo so. Alla mia età, avere una mania del genere... Ma chi se ne frega!
La chiesa è piccola e ben tenuta con il contributo di una manciata di volontari.
Oggi passo io con la saccoccia a manico per la questua. In seconda fila, una faccia di tolla mi mostra il rovescio delle tasche: vuote. Anch’io, per un attimo, rivolto la fodera della saccoccia, ritirandola a me.

Al semaforo

Una variante degli scherzi di “Amici miei”, che mi è capitato di fare ancora due settimane fa, con il mio compagno di scuola delle medie con cui siamo sempre rimasti in contatto e che era passato a trovarmi.
Quando si è fermi in doppia colonna al rosso per entrambi i mezzi che girano a sinistra o devono andare dritti, mentre a destra vanno, è d’uso comune girarsi a guardare chi ci affianca. Ebbene, a volte si incontra un viso conosciuto, anche se in modo superficiale, un semplice conoscente, ed è automatico e gentile il cenno di avvenuto riconoscimento, eseguito con un movimento affermativo del capo, e un sorriso più o meno accennato. In genere, non sopravviene l’imbarazzo di non sapere quando è il momento di distogliere lo sguardo perché il verde scatta e vai.
Diverso è se tu saluti, fingendo di riconoscerlo, uno che non conosci affatto: un perfetto sconosciuto.
Assumi l‘atteggiamento di cui sopra, e il tuo divertimento (ovviamente dissimulato) è assistere alle emozioni che via via si palesano sulla faccia ignara dell’altro:
confusione, imbarazzo, tentativo di associare le tue fattezze a un nome, e infine (visto che tu continui ad annuire e a sorridere) cedere e rispondere pari pari al tuo saluto.
Il meglio succede quando tu ti volti verso il tuo “compare” che ti siede accanto, per il tempo di sembrare dirgli: “Visto chi c’è?” e ti tiri indietro sul sedile e lui si affaccia, osserva il vicino di strada
e comincia, all’unisono con te, ad annuire e sorridere al malcapitato che si sente riconosciuto ma non si raccapezza.

Riconoscere non è conoscere

Intuisco che siete un gruppetto di amici, intenti a parlare del più e del meno sul muretto del lungomare. So che state parlando di me, agevolati nel riconoscermi dal mio sgargiante fazzolettone.
Io ho una memoria visiva ben sviluppata: metto sempre una faccia sopra un ricordo prima ancora che lo diventi, quando è appena un passaggio della giornata.

Tu che mi indichi col dito, sorpreso di vedermi nelle vesti di nonno (invece sono il prozio…) che spinge una carrozzella, sei lo sfigato del laccio.
Tu con la bocca dimenticata aperta sei la faccia di tolla che si rovesciava le tasche in chiesa.
Tu che te la ridi allegramente sei lo sbarbatello che mi criticava lo spreco di ottimo whisky.
E ti riconosco, bel Romeo delle carceri, col pollice alzato e un largo sorriso.
E tu, ti ricordi, aggrappato al volante due settimane fa, mentre mi guardavi chiedendoti: "Ma chi è?"

E allora? Avete riconosciuto uno sconosciuto me come mille altri che vi attraversano per un attimo la strada e che vi è rimasto impresso per una stranezza nei modi, nel contesto, nelle decisioni bizzarre.
Ma io sono molte più immagini delle poche istantanee, diversamente distanti tra di loro, che avete scattato su di me.
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


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