Il messaggio dell'imperatore

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Il messaggio dell’imperatore


- Fatti avanti, generale.
Avanzai a capo chino e m’inginocchiai.
- Essendoti distinto nella campagna d’inverno, ti abbiamo scelto per un’importante missione di stato.
Alzai gli occhi, eccolo! Il Re del Mondo, per la prima volta ero al suo cospetto!
- Come sai, il nostro fratello minore regge le province dell’ovest, dove i popoli sono più simili alle fiere che agli uomini - era avvolto in sete azzurre, in apparenza esile, pallido, quasi diafano - e vanno dunque trattati a volte con rigore.
Lo guardai in volto, teneva gli occhi chiusi mentre parlava. Mi colse un dubbio: forse era cieco? Oppure non ero degno del suo sguardo?
- Tuttavia la giustizia va sempre temperata con la prudenza e pertanto riteniamo che egli abbia ancora bisogno del nostro consiglio. Abbiamo dunque deciso - in quel momento aprì gli occhi e i nostri sguardi s’incontrarono a metà strada - di inviargli un messaggio di vitale importanza per l’impero. Lo affideremo a te, con una scorta di mille uomini della nostra guardia personale, e dovrai consegnarlo nelle sue mani a costo di queste mille e una vita.
- Insieme al messaggio inviamo al nostro diletto fratello due doni, - il suo sguardo mi fissava, ma sembrava venire da lontano, da troppo lontano per afferrarlo del tutto, quasi fosse separato dal resto della sua persona - simboli tradizionali della nostra stirpe.
Si aprì una tenda alla sua sinistra: gli furono portati una corona e una sorta di cilindro dorato. Dietro la tenda c’era una gabbia con una meravigliosa tigre bianca striata, l’emblema imperiale, la grande madre delle nevi.
- Ecco i doni e il messaggio. - Un dignitario mi consegnò la corona e il cilindro, che era una sottile lamina d’oro arrotolata e fissata con un fermaglio.
La guardai dubbioso, l’imperatore ebbe un accenno di sorriso: - Puoi leggere il messaggio, generale.
Aprii il rotolo un po’ goffamente: il foglio d’oro era coperto di righe sfolgoranti, ognuna composta da piccole gemme: smeraldi, turchesi, granati, acquamarine, tagliate perfettamente e fissate al foglio con un minuto lavoro d’intarsio. Però, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a decifrare una sola parola di quelle righe.
L’imperatore stavolta sorrise apertamente: - Il messaggio è scritto nella più antica lingua dell’impero, all’inizio sembra incomprensibile, ma so che sei un uomo d’ingegno: rileggilo ogni sera e vedrai che entro la fine del viaggio riuscirai a impadronirtene, alla fine del viaggio capirai. Addio, generale, ti protegga la nostra mano.

All’alba ero in testa alla colonna della guardia imperiale, con quella gioia mattutina delle grandi imprese che si tentano nella piena giovinezza: davanti a me migliaia di leghe da attraversare insieme a soldati senza eguali, per portare la parola dell’imperatore sana e salva all’altro capo del mondo.
Superammo le regioni orientali con accoglienze festose in ogni città ed entrammo nei deserti centrali, tra le nebbie e le strane voci notturne che disperdono le carovane.
Nel mezzo di quell’oceano apparve tra i labirinti delle dune una lunga fila di uomini a dorso di cammello: sembravano anch’essi di sabbia, vere creature del deserto. Ne erano coperti, quasi impastati, dagli abiti ai capelli, alle pieghe intorno agli occhi, tanto che all’inizio quasi mi stupii di sentirli parlare, come se una statua si risvegliasse dal suo lungo sonno e vi rivolgesse la parola.
Erano mercanti veneziani: entrati dalla porta settentrionale del deserto durante l’ultima grande tempesta, nessuna pattuglia di confine li aveva intercettati, spettava a noi porre rimedio.
La nostra legge prescrive che nessun idolatra possa risiedere nell’impero se non abiura la propria fede e abbraccia la nostra. Si tratta solo di un atto formale, all’uscita potrà tornare alla sua religione, però se rifiuta di abiurare mentre è sul nostro suolo viene giustiziato. Ad alcuni sembra una sanzione eccessiva, ma ha lo scopo di troncare ogni tentativo di proselitismo; la tolleranza di altri popoli si è rivelata fatale, noi abbiamo imparato la lezione.
I mercanti erano gente navigata e non fecero storie, ma tra loro c’era un monaco che si rifiutava, malgrado le insistenze dei compagni. Ordinai di condurmelo.
- Dunque, idolatra: sei davvero deciso a morire pur di non rinunciare al tuo Dio per qualche mese?
- Sì, generale, se tua moglie ti tradisse cambierebbe qualcosa se fosse solo per qualche mese?
- Ma questo non è un vero tradimento, è un fatto esteriore; in cuor tuo potrai continuare a pensare quel che vuoi, come i tuoi compagni.
- Per loro è diverso, non li biasimo. Ma io ho il dovere di testimoniare, oltre che di credere.
- Quello è il tuo idolo? - indicai qualcosa che portava sul petto - Posso vederlo?
Se lo sfilò dal collo e me lo passò: erano due pezzi di legno grezzo incrociati, con la statuetta di un uomo inchiodata sopra; un’antica forma di supplizio, a quanto mi pareva di ricordare.
- Chi è quest’uomo?
- Il nostro Dio, morto per noi in croce.
- Morto? Come può un Dio morire? Ah, forse lo aveva ordinato un Dio più potente di lui?
- Sì, in un certo senso è così.
- Capisco, anche nella nostra religione ci sono dèi litigiosi. Voi quanti ne avete?
- Uno solo.
- Cosa? Se hai appena detto...
- Sì, lo so, non è facile spiegarlo così, in due parole. Vedi, il nostro Dio decise di sacrificarsi per noi, di offrire se stesso per il nostro smisurato peccato di orgoglio.
- Sacrificarsi in che modo?
- Diventando uno di noi e facendosi uccidere da noi.
- Ma se è uno solo ed è morto, il vostro cielo è vuoto; come può andare avanti il mondo senza neanche un dio? Chi guida le stelle, chi fa brillare il sole?
- In effetti il sole si spense mentre Lui moriva, ma la sua morte fu solo temporanea, risorse subito dopo.
- Allora che senso ha? Sembra quasi una presa in giro.
- No, non lo è: per un atto di infinita superbia ne era necessario uno di suprema umiliazione, questo era l’unico modo perché il perdono fosse equo, pareggiasse i conti.
- Mah, mi sembra un’assurdità, monaco.
- Anche stavolta in un certo senso hai ragione, noi crediamo anche perché è assurdo.
- E sei disposto a morire per questa assurdità? Speri che il tuo gesto sia premiato con una vita più alta nella Grande Ruota?
- No, non crediamo nella Ruota. La morte è per noi la porta di un mondo invisibile, molto più bello e potente di questo, almeno per chi lo ha meritato. Sarà come un risveglio, ci desteremo da questo lungo incubo per vivere la vera vita nel vero mondo.
- Secondo te questo mondo non è reale?
- Tutto è reale, anche gli incubi, ma questo è un mondo inferiore, su cui quello invisibile comanda a suo piacimento. Guarda quel soldato, sta delirando nelle febbri. Lo ha colpito qualcuno, che tu abbia visto? No, eppure qualcosa d’invisibile lo possiede.
- Mah, sì, invisibile ma di questo mondo, forse esalazioni sprigionatesi dal terreno.
- Può essere, chissà. Vedi questa pietra? - raccolse un sasso, lo sollevò e poi aprì la mano. - Hai visto cos’è accaduto?
- L’hai lasciata cadere, e con questo?
- No, ti sbagli: io l’ho lasciata e basta, poi è successo qualcosa che né tu né alcun altro sapiente sapreste spiegare con certezza. Può darsi che la pietra abbia deciso da sé di scendere a terra, o forse è il mondo intero che si è avventato su quella pietra, oppure può essere che una forza misteriosa l’abbia afferrata e scaraventata a terra. In ogni caso una volontà per noi misteriosa ha agito: il mondo invisibile ha dato un ordine e quest’ordine è stato eseguito.
- Non so, amico mio, sono un uomo d’armi e non sono bravo a speculare in astratto; credo nei fatti concreti, nella loro salubre forza, e ho un ordine ben preciso da questo nostro mondo visibile: devi abiurare o verrai messo a morte e devi darmi la tua risposta adesso, perché tra poco dovremo rimetterci in marcia.
- Sai già cosa ho deciso.
- Ma cerca di ragionare: che senso ha farti uccidere per un ipotetico mondo invisibile, per qualcosa che potrebbe non esistere?
- Sei un brav’uomo, generale, ma hai attraversato ancora troppo poco il mondo e il tempo, e sono il mondo e il tempo le due grandi mole che affilano gli uomini. Un giorno capirai che spesso quello che vedi non è la realtà, anzi, a volte è proprio l’opposto della realtà.
- Tieni, questa è la formula di abiura: venti parole e sarai...
- Addio, generale, salutiamoci in pace. Tra poco mi sveglierò dal mio incubo, spero che quel che resta del tuo non ti faccia soffrire troppo.
A malincuore, dovetti dare corso alla sentenza: la testa mozzata del monaco fu infissa a un palo, il resto del corpo finì sotto le sabbie, senza un segnale di pietà o di memoria.

All’estremità occidentale del deserto si entra nelle province più isolate dell’impero, lontanissime da ogni altra zona abitata, tra valli e montagne inesplorate di cui si raccontano leggende contraddittorie.
Dopo foreste e paludi che ci fecero rimpiangere il deserto, approdammo in una regione di piccole valli verdeggianti separate da colline fiorite. In ogni valle un villaggio, in ogni villaggio la gente più bella e gentile che si possa immaginare. Ci ospitarono entusiasti, aprendoci le loro case e trattandoci con umanità e generosità commoventi.
Alloggiai nella casa del capo, che viveva con una sola moglie, figli e nipoti. Mi colpì un fatto curioso: tutti i suoi familiari si somigliavano in maniera straordinaria, e anche gli altri abitanti del villaggio erano molto simili.
- Vivete in un autentico paradiso, ma dimmi - gli chiesi - noto una forte somiglianza tra voi tutti, come mai?
- Non c’è da sorprendersi, discendiamo dallo stesso ceppo.
- Sì, posso immaginarlo, ma questo avviene anche altrove e non ho mai visto niente di simile.
- Questo dipende dall’impurità di costumi degli altri popoli, ma noi siamo puri.
- Che intendi per puri?
- Che osserviamo la legge dei padri. Ogni villaggio discende da un solo ceppo, letteralmente, da una sola persona; in questo villaggio tutti quelli che vedi sono miei fratelli, sorelle, figli o nipoti. Ognuno sposa rigidamente la propria sorella o il proprio fratello, i figli si sposano tra loro e così via; solo in caso di morte del coniuge c’è una deroga e ci si può risposare con una figlia o un figlio.
Ascoltavo quel campionario di orrori senza credere alle mie orecchie: dietro quella facciata di bontà, in quello che sembrava un Eden si nascondeva il più turpe dei popoli.
Inutile dire che non ascoltai suppliche: i miei soldati percorsero le valli una per una, incendiando quei covi incestuosi, uccidendo e disperdendo sui monti gli abitanti finché fu possibile trovarne. Mi rincrebbe di non poterli sterminare completamente, ma a tempo debito avrei informato l’imperatore per organizzare una spedizione e cancellarli per sempre dal creato.

Scavalcammo un’onda di pietra dopo l’altra, fino a una regione di laghi rotondi: vulcani pieni d’acqua, disse un ufficiale che diceva di aver studiato. Mi parve una scemenza, si è mai visto un vulcano d’acqua?
Il paese era abitato, avvistammo un villaggio sulla riva di uno dei laghi. Sembrava giorno di festa: la musica riempiva l’aria, gente adorna di fiori affollava i bordi del lago, fra tavole imbandite e ragazzini indiavolati.
Il borgomastro ci accolse con giubilo: un giorno storico, la prima visita di inviati dell’imperatore, proprio in coincidenza con la loro maggior solennità annuale.
Dopo un altro po’ di discorsi si venne al rito, che riguardava i primogeniti nati nell’ultimo anno. Il primo di essi venne posto in una bacinella d’argento e un sacerdote lo portò sulla riva del lago; un battesimo, dunque.
Il sacerdote immerse il bimbo pian piano, fino al petto, al collo, poi per intero, poi... poi quel pazzo continuava a tenerlo sott’acqua, mentre il poveretto si dibatteva disperato.
- Ma che fa? Fermatelo! - Mi precipitai in acqua e gli strappai il bambino dalle mani.
La folla ebbe un moto di sdegno:
- Che hai fatto? Questo è un sacrilegio, hai interrotto il rito - mi fece il borgomastro.
- Il rito? Stava per annegare! Quel vostro prete dev’essere impazzito.
- Certo che stava per annegare, è questo il rito.
- Mi stai dicendo che il rito consiste nell’ammazzare i vostri figli?
- Sì, o meglio, non tutti; quest’onore spetta solo ai primogeniti.
- Onore, e lo chiami onore, scellerato?
- È il supremo sacrificio che tributiamo ai nostri figli più cari: rinunciamo al loro amore e al loro lavoro pur di salvarli da una vita d’infelicità e di tribolazioni su questo terribile mondo. Il prete stava per sottrarre in pochi attimi quel bimbo a decenni e decenni di fatica, noia, sofferenza, e tu l’hai fermato.
Per un istante quel diabolico individuo mi fece quasi sentire in colpa, ma riacquistai subito il mio sangue freddo e riunii gli ufficiali: che fare? Un massacro generale degli adulti rischiava di non avere alcuna utilità, i bambini andavano risparmiati e se avessimo ucciso i genitori chi si sarebbe preso cura di loro?
Mi limitai a una punizione simbolica: feci torturare e mutilare lo sciagurato prete, perché la vista quotidiana del suo corpo straziato servisse di monito.
Anche di questo avrei parlato all’imperatore, quei cani avrebbero avuto il giusto castigo.

Partii amareggiato, attraversando in fretta quella regione barbara, e mi tornarono in mente le parole del monaco: davvero tutto sembrava girare al contrario, davvero non bisogna giudicare in fretta da quel che si vede, chissà, forse perfino il mio ufficiale aveva ragione e quei laghi erano vulcani che sputavano acqua anziché fuoco.
Entrammo nelle province dell’ovest e infine dall’orizzonte sbucarono le torri della capitale, che rigarono il tramonto come sbarre. Ci fermammo per l’ultimo bivacco.
La tensione per l’indomani, la fatica del lungo viaggio mi piombarono addosso in quella notte, trascinandomi in una giostra di sogni grotteschi: la testa mozzata dell’ostinato monaco, quei degenerati nelle verdi valli, gli assassini dei loro figli appena nati, tutto s’inseguiva e si accavallava; e tra una scena e l’altra tornava ossessivo il messaggio: le righe di gemme che sfolgoravano imperscrutabili, brillavano fino ad accecarmi e poi sembravano spegnersi all’improvviso.
E poi di nuovo il monaco che mi porgeva l’idolo con l’uomo inchiodato nel legno, il suo strano Dio morente sotto il sole nero, e le parole lente e scandite, come i colpi d’un tamburo: “quello che vedi non è vero... è l’opposto del vero...” e di nuovo il messaggio e le righe con il loro bagliore insopportabile che si spegnevano di colpo, strisce nere contro il foglio d’oro, e gli occhi lontani dell’imperatore, che sembravano di un altro mondo, di un remoto mondo invisibile che inviava i suoi ordini: “alla fine capirai, generale, alla fine del viaggio capirai”.
E alla fine capii, nell’ultimo sogno dell’alba tutto mi fu chiaro.

A mezzogiorno sfilammo sotto l’arco delle mura tra i soldati e la folla. Entrai a corte con i miei ufficiali e m’inchinai al re.
- Sire, eccoti il messaggio e i doni di cui ti ho fatto preavvisare dalle avanguardie.
Lui prese la corona del viceregno, la guardò con disprezzo e la gettò ai piedi del trono. Poi srotolò il foglio d’oro e lesse attentamente per minuti, finché esplose di rabbia:
- Maiale d’un soldato, che scherzo è questo? Questo messaggio è incomprensibile, hai fatto migliaia di leghe per una stupida burla?
- Nobile sovrano, perdona, c’è un malinteso: quel foglio è uno dei doni, il messaggio imperiale è questo.
Feci scattare la molla d’apertura della gabbia e un istante dopo la tigre attraversò l’aria senza un suono e artigliò il re nella sua morsa.
Inciso nelle ondulate righe nere vergate in una lingua misteriosa su quella candida pergamena, il messaggio era arrivato a destinazione.
Per generazioni aveva viaggiato di manto in manto, a prezzo d’infinito sangue di prede innocenti versato nelle nevi, negli infiniti amori di belve inconsapevoli, per essere lì quel giorno a comunicare la volontà dell’imperatore al suo regale fratello, che ora giaceva stupito, in mano un ridicolo foglietto giallo cosparso di sassolini senza alcun significato.

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