Hi... hi ha mah... ah moh he

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Che bello se il giorno fosse tutto come queste ore del mattino, così limpide e fresche, pensò Lia aprendo le imposte della camera da letto.
Era estate, una bollente estate di periferia, di asfalto e cemento arroventati dalla vampa furibonda del sole.
Mentre versava nella tazza il latte freddo e su di esso il caffè del giorno prima, e posava tazza e piattino con sopra tre biscotti del discount sul minuscolo tavolo del terrazzino davanti alla cucina, Lia si convinse una volta per tutte che l'estate è stagione dei ricchi. Solo chi può accendere il condizionatore in tutte le stanze o, meglio ancora, scappare dalle città di fuoco, può affermare che l'estate sia una bella stagione.
Il vento del mare, l'acqua fresca in cui bagnarsi: questa è l'estate. O le passeggiate tra i boschi. Chi con i soldi che guadagna riesce con fatica a pagare l'affitto e la roba da mangiare, e nei lunghi mesi assolati ammonticchia soltanto qualche giornata di mare incastrata tra file asfissianti di auto, può forse amare l'idea dell'estate e l'intreccio di quelle tre sillabe plissettate, ma certo non ama la sua manifestazione nella realtà reale.
Lia fu sollevata: dopo tanti giorni, il suo rimuginare sull'estate era giunto a un punto fermo. Non ebbe modo di gioire fino in fondo per questa parentesi psichica che si chiudeva una volta per tutte perché udì strani suoni provenire dalla casa di fronte: alzò lo sguardo proprio mentre finiva di bere il caffelatte e vide un giovane uomo, magrissimo e dinoccolato, affacciato al balcone a pochi metri dal suo.
Quel pezzo di periferia era costituito da piccole abitazioni, tutte diverse tra loro, prive di un criterio estetico comune e non più alte di due piani. La casa della vicina di Lia era bifamiliare, e circondata da un giardinetto con un minuscolo orto e qualche albero da frutto.

«Mha mha! Mha mha! Acc oh tah mi! Mha mha... eh, bat ha, nooo!»
L'uomo affacciato gridava parole incomprensibili in direzione del giardino, dove Lia intravedeva la vicina che innaffiava le piante. La donna rispose che andava a fare la spesa. Che stesse tranquillo e ascoltasse la sua musica: lei sarebbe tornata presto.
Lia si affrettò a sparecchiare il tavolinetto: si era accorta di avere indosso solo la camicia da notte e non voleva essere vista così da quello sconosciuto. Si chiese perché mai parlasse in quel modo. Le si era stretto il cuore, a quei suoni: erano note doloranti, come una richiesta di aiuto.
Durante la doccia le venne in mente che la signora Pinuccia, la sua vicina, qualche settimana prima le aveva detto che a breve sarebbe venuto a trovarla il figlio più piccolo, quello che lavorava al nord e con cui non andava tanto d'accordo. In effetti, il primo rumore uscito da quella bocca poteva assomigliare alla parola "mamma".
Lia si vestì e andò a prendere l'autobus che l'avrebbe portata alla metro. Un'ora di viaggio, e poi pulizie nelle case del centro fino alle sei del pomeriggio: però in posti zeppi di condizionatori, spaziosi e pieni di marmi.

In treno la chiamò la sua amica Milagros, e le fece la testa come un pallone perché il giorno prima, alle tre del pomeriggio, il suo ragazzo aveva litigato alla stazione con un mezzo delinquente con le corde vocali rotte che pare volesse rubargli il marsupio con dentro soldi e documenti e che, quando lui lo aveva afferrato per un braccio, aveva tirato fuori il coltello. Poi le cose si erano calmate, perché in realtà il marsupio gli si era slacciato (la chiusura era difettosa) e un vecchio lo aveva trovato su un sedile della sala d'aspetto. Quindi era stato tutto un equivoco. Però la questione preoccupante, continuava Milagros, era che il suo ragazzo aveva saputo che quel delinquente col coltello era il figlio di Pinuccia. Quindi Lia stesse attenta, perché se lo sarebbe ritrovato nella casa di fronte, e non aveva importanza che non fosse colpevole di furto.
Non fece in tempo ad attaccare che già il telefono squillava di nuovo: Raul, il suo fidanzato. Era stato avvertito dal ragazzo di Milagros del pasticcio con quel farabutto criminale mai visto prima, sceso da chissà dove solo a portare guai, ma non era tutto: sua sorella, passando verso le sette di sera del giorno precedente proprio davanti al giardino della signora Pinuccia mentre tornava dal parco giochi coi bambini, aveva assistito a una scena disgustosa che gli aveva raccontato piangendo e sputando. Aveva visto un uomo molto magro e molto abbronzato, con la schiena tutta tatuata di teschi dai cui fori uscivano serpenti rossi e oro che si intrecciavano tra loro, il quale abbracciava con ferocia il tronco dell'albicocco e ne leccava la corteccia con tale foga che la lingua si spaccava e sanguinava, e intanto emetteva suoni orrendi che avevano fatto piangere i bambini di paura.
Raul concluse la telefonata dicendo che secondo lui era il caso che Lia andasse per qualche giorno a dormire a casa della madre. E comunque che non avesse nessun contatto con quel mascalzone, perché era pure pazzo. Lia gli rispose che sì, lo aveva veduto proprio quella mattina e sarebbe stata attenta, ma che gli era sembrato un povero cristo dalla voce triste. Attaccò e si mise ad ascoltare, come tutte le mattine in metropolitana, Bohemian Rhapsody. Voleva imparare l'inglese, e si dava da fare.

Alle otto di sera Lia camminava verso casa, lungo la strada carica degli odori ripugnanti dei sacchi della spazzatura lasciati da giorni a macerare al sole. Ma la luce era così bella, così bionda, che le bastò turarsi il naso per sorriderle.
Poco prima del cancelletto di casa sentì le imprecazioni dei ragazzini del quartiere: correvano avanti e indietro sulle bici cercando di investire i gatti, che schizzavano furibondi miagolando come indemoniati. Lia si accorse subito che le parolacce e le urla non erano rivolte solo alle bestie. L'uomo del balcone, l'uomo del coltellaccio e della lingua spaccata stava dritto in piedi davanti al cancello di casa della madre e in braccio custodiva un cucciolo di cane. Fissava immobile i ragazzini e intanto carezzava la testa della bestiola.
Lia sentì un brivido allo stomaco. Gli passò davanti, di fretta e con gli occhi bassi, ma non le sfuggì che nel soggiorno di Pinuccia Freddie Mercury stava cantando la sua canzone. Non poté trattenersi dal voltarsi, perché era innamorata di Freddy, e incontrò lo sguardo dell'uomo. Aveva occhi castani e lucenti, e fissi nei suoi.
La ragazza aprì la porta di casa con la mano che tremava e si chiuse dentro col paletto.

«Io te lo avevo detto, scema! Non uscire per nessuna ragione, solo per andare a lavoro. E se intanto chiamassimo la polizia?»
«Ma non dire idiozie, sulla base di cosa chiamiamo la polizia? Oddio, Milagros, quello guardava quei ragazzini come se li volesse scuoiare, e intanto ascoltava la canzone dove uno ha ammazzato un uomo. Ormai la so a memoria, è la mia canzone preferita. Che coincidenza assurda, però, che sentiamo le stesse canzoni. E poi quegli occhi buoni. Te l'ho detto come mi guardava?»
«Sì, me lo hai detto. Ora calmati e vai a dormire, domani parliamo con Pinuccia. Lo saprà, spero, se il figlio è un assassino. Oppure no, magari lui faceva finta di lavorare e intanto stava a San Vittore.»
«Non dire niente a Raul, ti prego, non voglio scenate. Ciao, buonanotte.»
Lia chiuse il telefono e andò a lavarsi i denti. Nell'aria calda, ancora piena degli umori del giorno e appena rischiarata dalla luce dell'unico lampione funzionante, sentì un suono roco, ma dolce come uno zufolo. Scostò di poco un'imposta e vide l'uomo sul balcone. Stava spazzando il minuscolo pavimento, e intanto cercava di modulare la voce imitando il tono di Freddie. Le parole non si capivano, ma il suono che usciva da quella bocca ferita era lento e mite. Lia notò che si muoveva rapidamente, come uno abituato al lavoro. Poggiò la ramazza in un angolo del terrazzo e con un piccolo innaffiatoio bagnò i gerani appesi alla ringhiera. Le parve che dicesse qualcosa ai fiori: con le dita sfiorava le corolle e poi avvicinava le labbra, quasi a volerle baciare.
Lo fissò troppo lungo perché lui non se ne accorgesse. Alzò lo sguardo e incrociò gli occhi di Lia, che col cuore in gola chiuse rumorosamente la finestra.

La ragazza non riuscì a dormire neppure mezz'ora in tutta la notte. Alle cinque si alzò e andò a fare colazione.
L'idea di un'intera giornata di lavoro la massacrava. Avrebbe regalato volentieri qualche anno della propria vita se solo qualcuno le avesse concesso in cambio di riposare tutto il giorno. Con i rumori della strada, in mezzo alla gente che si muoveva e alle donne che sfaccendavano, non avrebbe avuto paura dello sguardo fosforescente di quello sconosciuto: avrebbe lasciato le finestre aperte e il ventilatore acceso, mangiato cose dolci e dormito il più possibile. Preparò il caffè con gli occhi chiusi e il torpore nelle braccia, prese una fetta di pane in cassetta e ci spalmò un po' di burro; poi ci aggiunse la marmellata che aveva fatto con le albicocche della signora Pinuccia. Davanti al barattolo avvertì una stretta allo stomaco: erano i frutti dello stesso albero che quel pazzo aveva leccato fino a farsi male. Così aveva detto, schifata, la sorella di Raul. Osservò i bagliori arancioni dei frutti schiacciati e li sfiorò con la lingua, lentamente; aiutandosi con le sole labbra, afferrò dalla fetta piccoli bocconi di marmellata e li lasciò sciogliere in bocca. Poi aprì la finestra della cucina, come tutte le mattine. Non le venne in mente che l'uomo potesse essere ancora – o già – sul balcone, quindi, appena lo vide, ebbe un sussulto e non seppe come muoversi.
Lui era appoggiato alla ringhiera con le braccia incrociate e fumava una sigaretta. Il piccolo cane gli leccava le caviglie.

«Ha oh, ho noh... Dh ah ui he» disse fissandola negli occhi.
Lia comprese subito il senso di quei suoni sparsi. Aveva capito, e non sapeva perché. Ciao, sono Davide. Questo aveva detto. Forse Pinuccia un giorno le aveva parlato di sfuggita dei nomi dei figli? Può darsi, pensò la ragazza.
«Ciao, io sono Lia» rispose sedendosi al piccolo tavolino. Era calma, lo stomaco disteso. Sentiva intorno un vento fresco e odore di pane buono. Li aveva percepiti anche la sera prima, passandogli frettolosamente davanti, ma solo adesso ci faceva caso.
«He hn ho? Uh hoi?»
«Sì, scendi, va bene, voglio.»
Davide scomparve dalla finestra e si presentò al cancello di Lia con una corolla di geranio in una mano e il cucciolo di cane nell'altra. Glieli porse entrambi, ed entrò con passi delicati, sussurrando parole di Freddie.
Lia gli osservò la schiena nuda, piena di serpi e teschi.
«Sei stato alla finestra tutta la notte?»
«He tto. Phe n ha uo... a he.»
«Pensavi a me. Certo. Non mi hai mai vista prima, e te ne stai tutta la notte al balcone a pensare a me.»
«Hi... hi ha mah... ah moh he.»
Lia respirò l'aria profumata di pane, e lascio che quel vento improvviso le scompigliasse i capelli. Si avvicinò allo sconosciuto, gli sfiorò le braccia magre con le dita e lasciò sul suo petto tanti piccoli baci, come fiori sparsi sulla terra scura. Egli la strinse a sé, la baciò a lungo sulla bocca, le pose il capo su una spalla.

Si chiama amore.


Ringrazio il nostro Andrea Candeloro, noto come Andc, per i preziosi consigli di cui ho fatto tesoro.
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Re: Hi... hi ha mah... ah moh he

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Che bello questo racconto @Ippolita, ha una freschezza e una leggerezza che me lo hanno fatto immaginare tutto come un susseguirsi di illustrazioni coloratissime, viene voglia di disegnarlo! L'avevo letto anche sul Wd e già mi era piaciuto molto; la frase di incredulità della ragazza
«Pensavi a me. Certo. Non mi hai mai vista prima, e te ne stai tutta la notte al balcone a pensare a me.»
dà un tocco in più di pratico realismo alla vicenda, prima del finale così delicato e sognante, e in effetti ci sta benissimo.
Grazie a te per questa lettura! A rileggerti presto! :romance-heartstiny:
https://lapoesianonsimangia.myblog.it/c ... i-sono-io/
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