L’uomo giraffa

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Prologo

Di solito si è sempre molto duri con sé stessi, specie quando ci si ritrova a redigere una specie di bilancio del proprio tempo. Ma è quando non ne abbiamo più che riusciamo a guardare la nostra vita con maggiore indulgenza, ci riconosciamo per quello che siamo, ci perdoniamo per quello che non siamo stati. E il mio tempo era scaduto, stavo precipitando dal sesto piano.

Parte Prima: Rinascita

Due donne mi hanno voluto al mondo: mia madre, il cui desiderio superò le riluttanze di mio padre, al quale comunque nulla rimprovero, ed Elena, l’ostetrica di turno quando si ruppero le acque a mia madre. Le riuscì il miracolo di salvarmi dalla morte, che al primo vagito già mi avrebbe voluto con sé. Della mia nascita ne parlarono anche alla radio e papà raccontava sempre delle file di curiosi ammassate dietro le porte dell’ospedale: ero nato con quattordici vertebre cervicali, il doppio del normale. Alla malattia diedero il mio nome, la chiamarono Sindrome di Goffredo, ma nessun’altro, a parte me, ne avrebbe sofferto. Ero destinato ad essere il solo ed unico Uomo Giraffa.
Ad esclusione della nuca, ero fisiologicamente perfetto, sicché mi procurano un collare che sostenesse il peso del cranio ed evitasse quei movimenti inopportuni che potevano essermi fatali. Il mio collo era come un grissino di ventiquattro centimetri con una palla da biliardo incastrata sulla cima, bastava poco perché si frantumasse.

Date le premesse, potrete immaginare i travagli dell’infanzia prima e dell’adolescenza poi. Vivevo in un tranquillo paese di bassa montagna, poche anime e quasi tutte avevano volti familiari. Ricordo con affetto le festicciole di quartiere e quelle patronali, le strade poco asfaltate e il vecchio campanile sopravvissuto alle bombe. Era uno di quei posti che avrete sicuramente letto da qualche altra parte. Molti bambini del paese giocavano a nascondino per i vicoletti del borgo, o partivano con le biciclette per andare nelle zone circostanti, affollate di campi e alberi da frutto da saccheggiare con avarizia. Io non potevo seguirli, perché per me correre non era possibile, e neppure andare in bicicletta. Il rischio di cadere era troppo alto. Così, passai gran parte della mia infanzia accompagnando i miei nonni da questa o quell’altra parte, leggendo libri, ascoltando poca radio e giocando a briscola. Certe volte, per sentire un brivido, camminavo sopra un ciglione che dava sulle campagne brulle; mi seguivano al trotto lunghe file di formiche rosse e l’odore di legna bagnata.
L’attenzione dei media per il mio caso andò pian piano scemando, finché di me non rimase altro che un tizio strano col collo lungo. A dire il vero, più che strano ero sveglio e feci presto dell’autoironia la risposta alle cattiverie egoistiche degli altri bambini. Tuttavia, altrettanto in fretta capii che non sarei mai stato come loro; c’era una sottile campana di vetro che mi divideva dal resto e niente l’avrebbe mandata in pezzi. Diceva giusto mio padre, possiamo tollerare tutto quello che non può succederci, ma abituarci solo a quello che si vive o si è vissuto.
Venivo da una famiglia di ragionieri, fin dal mio omonimo trisavolo, funzionario della neonata monarchia, ma erano gli anni Settanta, si stava bene e si aveva la sensazione che le cose non sarebbero potute andare che meglio, e mi iscrissi al quarto ginnasio. Volevo diventare avvocato o medico o qualcosa del genere, ma quale giuria avrebbe preso sul serio un lampadario con la toga, quale paziente si sarebbe fatto toccare da un malato? Trascorsi quindi i primi due anni delle superiori prendendo coscienza del gigantesco errore che avevo fatto.
Il liceo, però, come tutti sanno, è un momento di passaggio, di cambiamento radicale. Il mio momento aveva nome e cognome, si chiamava Luca Schiamazzi, ed era stato bocciato per la seconda volta. Era uno strano gorilla alto due metri con la passione per il fitness e le serate in discoteca. Con quei capelli rasati e gli occhi spenti poi, pareva un militare di ritorno dal Vietnam col disturbo post-traumatico da stress. Di solito passavo l’intervallo nel cortile. C’erano un bel prato e diversi alberi di faggio, all’ombra dei quali mi trovavo una panchina libera per rilassarmi e guardare gli altri giocare e chiacchierare. Mia madre mi preparava sempre un panino burro e marmellata, mentre mio padre mi infilava qualche soldo di straforo nella giubba, che di solito usavo per comprare le sigarette. Il liceo si trovava in una cittadina a pochi chilometri dal mio paese, e sull’autobus del ritorno avevo sempre fame, così, se avevo sigarette a sufficienza, impiegavo quel denaro per riempirmi le tasche di salsicce essiccate.
Ad ogni modo, una mattina di ottobre, mentre mi rilassavo da solo nel cortile, vidi Luca Schiamazzi venirmi incontro, agitando il suo grosso braccio in segno di saluto.
«Ciao Giancarlo -esordì- ce l'hai una sigaretta?»
«Mi chiamo Goffredo» risposi porgendogli il pacchetto.
«Grazie. Giornata figa eh?»
«C'è il sole, sì…» dissi seccato.
Annuì come pacificato dalla mia risposta, quindi si sedette sul tavolo e iniziò a fumare, ma dopo poche boccate la spense con aria disgustata.
«Senti, io li conosco quelli come te» disse Luca.
«Ah sì?».
«Sì, siete tutti uguali voi che vivete scontenti, depressi e distratti, voi romantici, poeti, sognatori di mondi distanti, non illudetevi, avete già perso. Ma morirete tentando. Non credi neanche in Dio, vero figliolo? Certo che no, tu non lo leggi il Vangelo…».
«Figliolo?! Comunque non so, non credo» come potrete immaginare, la conversazione stava davvero prendendo una strana piega. In realtà, non credevo neppure che Luca conoscesse tutte quelle parole, di solito comunicava con monosillabi e alzate di mento.
«Ora mi toccherà spiegarti perché Gesù era un anarchico, così poi andrai a casa e potrai leggere le Scritture: innanzitutto, era un rivoluzionario, che grazie ad un’unica regola (o erano due non ricordo) ha reso obsolete tutte le altre; in secondo luogo ci ha preso tutti per il culo, e questo è importante».
Stupito dal fatto che il suo discorso avesse un briciolo di senso, decisi di continuare a dargli corda.
«Sono riflessioni profonde le tue -dissi- leggerai molto la Bibbia e andrai spesso in chiesa».
«A dire il vero no, leggere non mi piace e la chiesa puzza. Ma mi sono fatto queste idee un paio di giorni fa, al funerale di zio Bruno»
«Mi dispiace, condoglianze».
«Tranquillo figliolo, non era mio zio».
Luca tirò fuori dal taschino un pacchetto di Marlboro rosse, quindi ne accese una e iniziò ad intonare il ritornello di "Redemption Song". Disse che dovevo cantare anche io, e così feci, perché alle situazioni strane ci si affeziona in fretta. Luca cantò tutta la prima strofa, dandomi dolorose pacche sulla spalla finché non cedetti sul ritornello, arrendendomi a quell’improbabile duetto. Dapprima non ci feci caso, ma appena mi resi conto che Luca non mi stava seguendo più mi voltai verso di lui e vidi la sua espressione stupita: quello fu il secondo momento più importante della mia vita. Venne fuori che avevo una voce meravigliosa; il mio lungo collo creava una specie di effetto tromba: l'aria, dai polmoni, arrivava alle corde vocali con un percorso molto più lento, conferendomi un timbro caldo e un'estensione fuori dal normale. Avevo un dono ignorato troppo a lungo, un dono che mi avrebbe accompagnato nel cammino dell’artista. D'altronde avevo già un personaggio, anzi, ero nato personaggio. Ben presto case discografiche, giornalisti, fotografi, televisioni, tutti vennero a bussare. Ero tornato sulla cresta dell'onda, dove sarei rimasto sino all'apice della mia carriera, quando fui incoronato nuovo “Re del Soul”; tutto grazie a Luca Schiamazzi, il mio momento di svolta. Rimanemmo buoni amici fino al terzo liceo, poi, come spesso accade, le nostre strade si divisero. Anni dopo, durante una nostalgica cena di classe, mi raccontarono che si sposò tre volte, ebbe un figlio e morì ubriaco in un incidente stradale a ventisette anni; benché tutti ne piansero la dipartita, io non m’incupii molto: quella, in fondo, era la vita che aveva sempre sognato.

Parte Seconda: Roma

Come dicevo pocanzi, sebbene in molti vollero credere al dono del cielo, sapevo che non c’entravano miracoli nella mia voce, solo una curiosa combinazione di riprovate leggi della fisica, anche piuttosto banali. Certo, era poetico prendersi un collo e mezza vita in cambio di un dono straordinario, ma sarebbe stato un trattamento ingiustamente equo, specie se si pensa a quello riservato a tanta umanità. Mi bastava pensare di essere fortunato, il protagonista di una fiaba per bambini coraggiosi, e se ripenso a quel lunedì di venticinque anni fa, la trama ne avrebbe guadagnato di spessore e romanticismo.
Avevo un’agente giapponese ai tempi, Haruka Matsumoto, una brava donna: capelli corti, occhi scuri, esile come un arbusto ma terribilmente efficiente nell’organizzarmi la vita. Era una di quelle persone costitutivamente infelici: la vedevi affannarsi, impegnarsi e finanche realizzarsi nelle cose della vita; come tutti rideva, talvolta per gusto, talvolta per circostanza, e c'erano giornate in cui sprizzava contagioso buonumore. Però, a guardar bene, c'era sempre una nota stonata nel vestiario, nell'espressione nel viso, nelle sfumature degli occhi. Un particolare le sfuggiva inevitabilmente. Non si trattava di pessimismo o tristezza, ma di quella strana passione per l'imperfezione che misurava la distanza fra ciò che sarebbe dovuta (o voluta) essere e quel che era. Viveva di fronte ad un'ipotesi di donna che doveva parerle tanto bella quanto remota. Dal punto di vista lavorativo era incredibile, sebbene avesse delle fisse cui dovetti abituarmi. In particolare, tutte le interviste erano combinate di lunedì, dalle dieci e dieci a mezzogiorno e tre quarti, nessuna eccezione. Quel lunedì avevo appuntamento con Calliope Giorgi. Mentre l’attendevo nel salotto della mia residenza romana, girovagavo da una finestra all’altra, mosso dalla curiosità di conoscere quella donna dal nome insolito, anticamente riferito alla musa protettrice dell’epica e del canto. Me l’ero dipinta elegante, regale, armoniosa ed è per questo che rimasi deluso quando la vidi entrare masticando una gomma americana, con la giacca di pelle, i capelli raccolti e l’aria di chi avrebbe voluto trovarsi in qualunque altro posto. Si fece strada senza troppi complimenti e, chiesto un Long Island a Iolanda -la mia governante-, m’invitò a fare in fretta per togliersi il pensiero. Fu così che, travestito da bionda spocchiosa, venne il momento più importante della mia vita.
Ci sedemmo l’uno di fronte all’altra; scrutandola più da vicino, potei accorgermi del suo naso piccolo e rotondo e delle guance lentigginose che, quando sorrideva, svelavano due piccole fossette. Aveva un sorriso sincero, occhi verdi come una foglia d’ulivo e due cerchi che le pendevano dai lobi. I suoi lineamenti sembravano quelli di un viso noto, di qualcuno cui eri affezionato. Poggiò la borsetta e un registratore Sony sul tavolino di castagno che divideva le nostre poltrone, quindi si sedette e per un attimo la vidi vagare con gli occhi fra le striature bianche del cielo. Era una bella giornata.
Aveva scritto tutte le domande su un taccuino in pelle ad anelli, ma non prese nota delle mie risposte, si limitò a controllare di tanto in tanto che il registratore funzionasse. Durante le interviste, gli altri giornalisti si sforzavano di sembrare il più interessati possibili, ma fingevano, lo percepivo. Calliope, invece, si mostrò nel suo genuino menefreghismo. Doveva aver fatto pace con la parte peggiore di sé da molto tempo ormai. Di sicuro eravamo due esclusi, anche se per motivi diversi: lei era sé stessa senza compromessi, lontana dal mondo per sua scelta; io ero un reietto tollerato.

Le chiesi di sposarmi la notte di Natale. A dirla tutta, non so perché scelsi proprio quel giorno, odiavo le feste, specialmente quelle invernali. Forse speravo che, caricando quel giorno di un significato più intimo, avrei avuto anche io un buon motivo per essere felice.
Cenammo affacciati sul Tevere e, poco prima di ordinare il dolce, dal cielo iniziarono a scendere spauriti fiocchi di neve, un evento raro nella città eterna, chi c’è vissuto lo sa. Calliope li guardava incantata mentre volteggiavano secondo curiose geometrie prima di sciogliersi sul vetro della finestra o sul marmo del davanzale. Dopo l’amaro, il maître chiamò il taxi che ci avrebbe riaccompagnato a casa. Varcata la soglia, Calliope scaraventò lungo il corridoio i tacchi a spillo (non nutriva un particolare amore per le scarpe scomode) e il cappottino sull’appendiabito; io mi svestii con molta più cura. Ci dirigemmo nel salotto, dove lei si mise seduta a gambe incrociate sul divano e mentre accendevo il fuoco nel camino fece una simpatica imitazione del maître, con tanto di accento francese. Quella sera indossava un abito con le balze rosse e un ciondolo a forma di stella intorno al collo, i biondi capelli li aveva raccolti in boccoli e acconciati in stile anni Trenta; era bellissima. Ridemmo ancora un poco del maître, poi semplicemente mi inginocchiai e, mostratole l’anello, le chiesi di passare il resto dei nostri giorni insieme. Ci furono alcuni istanti di silenzio, poi lei prese l’anello e scalza corse fuori. Non sapendo che fare, le andai dietro. La neve aveva smesso di cadere, ma sull’asfalto e sui tetti era rimasta una sottile coltre bianca, interrotta solo dalle impronte lasciate a piedi nudi da Calliope. Rideva felice e ogni tanto si esibiva in una piroetta, lasciando che le balze rosse del vestito le volteggiassero intorno. Mi tendeva la mano e mi guardava con una luce indescrivibile, brillava di tutto l’amore che una donna poteva provare. Dal canto mio, a mala pena riuscivo a starle dietro, anche perché dovevo fare molta attenzione, un semplice scivolone poteva spezzare il mio fragile collo da giraffa. E tanto ero preso dalla sua figura svolazzante, che non mi accorsi della città vuota, deserta. Senz’anima viva a vagare per le strade, c’eravamo solo io, lei e Roma, con tutti i suoi simboli immortali a circondarci: il Colosseo, San Pietro, il Foro… l’uno accanto all’altro, illuminati da una luce calda e innaturale, ingigantiti nei contorni, tutti così vicini che sembravano tenersi per mano. Roma l’ho sempre vista come una bella donna, che portava nel cuore il ricordo di una stupenda gioventù e sul viso la nostalgia del passato. Ma Calliope non sembrava curarsene, e in silenzio continuava a correre e saltare, sempre più piano, finché non le fui così vicino da vedere una ruga solcarle il viso e quella luce affievolirsi. Neanche mi accorsi che avevamo smesso di correre, che lei era al mio fianco tenendomi per mano. E quando mi voltai a guardarla i suoi capelli avevano il colore della neve, la schiena era inarcata e lei stessa a stento si reggeva al mio braccio, guardandomi con gli occhi vacui e sinceri, senza fiamme ad illuminarli. Quando poi ci fermammo un istante, vedemmo che la città era rifiorita ed ogni mattone aveva perso i segni del tempo, tornando al suo splendore originale, fino a stagliarsi immensa nel cielo, contornata di stelle come fiaccole.
Rientrammo e Calliope corse di nuovo in salotto, balzò sulla poltrona e mi mostrò l’anello che portava al dito. «Per tutta la vita», disse.

Parte Terza: Girato di spalle

È bene effettuare una distinzione di rilievo: la metafora è un’espressione, o una condizione, che rimanda, anche se sarebbe più corretto dire richiama, ad un concetto ulteriore variamente identificabile; un significante, invece, è uno stato, una forma che invia al contenuto, univoco e decifrabile. Così, ad esempio, un vaso di terracotta, inserito nel corretto contesto, può divenire metafora di cose assai complesse, come l’anima o il corpo, o come concetti astratti quali la malinconia, la noia eccetera; mentre la morte è, sempre a titolo esemplificativo, il significante della vita. Distinguerle è complesso, specie nelle questioni quotidiane e di ordine pratico, perché è necessario avere un’informazione completa e a posteriori. Ma che si sappia: se esiste un’arte di vivere, allora il talento è distinguere fra significanti e metafore.

Vi siete mai fermati a pensare al numero di persone che avete incontrato da che ne avete memoria? Con quanti di loro avete interagito? Per quanto tempo? Chissà per quanti di loro avete avuto un ruolo, un senso fondamentale e non ne sapete nulla, o siete stati semplicemente di passaggio, nuvole biancastre appena percettibili. Luca, Haruka, Valentin erano tutte persone di cui avevo sottovalutato il ruolo, ma che ora riconosco come essenziali nello svolgimento della trama. Quest’ultimo, ed è qui che riprende la narrazione, era un famoso nuotatore spagnolo, nato a Siviglia ma cresciuto a Malaga, che lasciò l’Andalusia solo per partecipare alle olimpiadi e ai mondiali di nuoto. Specialista dei cento metri rana, vinse sei medaglie d’oro in questo particolare stile e altrettante d’argento nei duecento dorso. Già ricco di famiglia, decise di donare in beneficenza i proventi derivanti dall’attività agonistica, creò pertanto una fondazione allo scopo e gli diede il suo nome. Dietro le apparenze era in verità un uomo gretto e meschino, bramoso di ostentazione. Non so dirvi se così era nato o se le folle acclamanti lo avessero reso tale, ad ogni modo, quando lo conobbi alla fine degli Anni Novanta era già stato corrotto dalla fama. Da allora fui praticamente un ospite fisso dei suoi party. Cantavo, ovviamente. Evidentemente davo quel tocco di bizzarria in più, indispensabile per far risaltare al meglio il galante piattume degli invitati. Valentin era la vera star delle serate: i suoi lunghissimi discorsi catalizzavano spesso l’attenzione, aveva carisma e teneva meglio lui il palco in quelle occasioni di quanto io avessi mai fatto in tutta la mia carriera. “Il mio sogno -raccontava sempre- è quello di esibirmi nel più bel tuffo che sia mai stato eseguito, lasciare che l’acqua mi scorra fresca su ogni parte del corpo per poi spingermi verso l’alto e in una sola braccia riemergere alla fine della vasca”. E lo realizzò, almeno in parte. Una sera decise che avrebbe tentato l’impresa davanti a tutti gli invitati, nell’enorme piscina della sua villa a Malaga. L’attesa era snervante, come se tutti aspettassimo il verificarsi di qualche miracolo; Valentin non si era fatto vedere, non era lì per accogliere gli invitati come suo solito e le luci erano stranamente soffuse. I camerieri giravano con le guantiere piene di viveri e bevande, serpeggiando fra tavolini e poltrone da esterni, circumnavigando la piscina attenti a soddisfare le esigenze di tutti gli ospiti. Ogni tanto veniva annunciato qualche acrobata o prestigiatore, negli intervalli suonavo con la band e cantavo pezzi miei o di altri. Il clima era ottimo, il cielo terso e la luna piena si specchiava limpida nell’acqua della piscina. Eravamo tutti in giardino sorseggiando champagne, discorrendo amabilmente nei nostri leggeri abiti da sera, ma era palpabile la suspence per il momento clou. Tutt’ad un tratto le luci si spensero e Valentin comparve sul trampolino della piscina, seguito prima dai mormorii della gente e poi da un fragoroso applauso. Indossava solo un costume dorato e un’espressione seria sul viso. Ci furono lunghi attimi di silenzio prima del grande tuffo: credetemi, il miglior salto che sia mai stato fatto nella storia, elegante, perfetto, armonioso: un carpiato seguito da un mezzo avvitamento, completato da un sontuosissimo ingresso in acqua di gambe. Le luci si accesero di nuovo e tutti ci voltammo per vederlo riemergere all’altro capo della vasca, con le mani già pronte ad applaudirlo. Ma non riemerse mai, scomparve nelle acque della piscina e di lui non si seppe più nulla.
Se ne parlò per mesi interi, nacquero innumerabili teorie complottistiche sulla fine del grande campione, tutti i presenti furono interrogati dalla polizia diverse volte, ma nessuno di noi seppe dare informazioni utili e, infine, il caso fu archiviato. Di certo si trattò di un gran finale per la miglior festa di sempre, cui posso dire di aver preso parte.
Curiosamente, proprio quella sera, Calliope decise di accompagnarmi. Di solito detestava questo genere di party -per non parlare degli invitati- ma la fantasia non le mancava, e riusciva sempre ad evitarsi lo strazio con elegante disinvoltura. Forse si sentiva esclusa dalla mia vita o forse voleva prendersi una pausa dal lavoro al giornale, comunque sia, quella volta decise di non glissare e accettò l’invito di Valentin.
Ad un certo punto, sul finire della serata, prima del grande tuffo, ma dopo la mia ultima esibizione, la persi completamente di vista. Vagavo alla sua ricerca con un calice di champagne tra le dita, raccattato su un tavolino a casaccio, giusto per avere quel tocco di nonchalance che non guasta mai. Cotanta disinvoltura, però, dovette far credere al baronetto Anastasio Giulio Maria degli Ulivi che ero in cerca di conversazione e compagnia. Si trattava di un erudito signore sulla settantina con la faccia da talpa, perennemente in frac e cilindro, ultimo esponente di una decaduta nobiltà senese, che di tanto in tanto incontravo a questa o quella cerimonia. Non ci scambiammo mai nient’altro che i convenevoli, ma la sua loquace compagnia era rinomata.
«Esimio Goffredo, compagno di lungo corso -esordì- anche lei gozzoviglia fra codesta bella gente? Lei che è un portento canoro, un usignolo di bosco, la ritrovo ad intonare melodie per noi? Quale fortuna».
«Una fortuna è incontrarla Barone» risposi.
«Pocanzi la vidi in compagnia della sua meravigliosa signora, ma or ora non riesco ad intravederla…».
«La vado giusto cercando Barone. Non è che tante volte ha visto dove andava? ».
«Oh, no no, questo non lo so -rispose agitando la testa-. Mi rincresce immensamente non poterla aiutare. Sebbene le suggerirei di ricordare alla sua signora che non si lascia mai il braccio del consorte. Ah, la mia povera Concetta Anna Sofia, lei era tanto brava, sempre con me. Ne provo nostalgia ogni giorno».
«Posso solo immaginare Barone» dissi.
«Negli ultimi tempi era cambiata… Ma mai avrei creduto che sarebbe giunta ad un tanto estremo gesto. Ohibò, gettarsi dal balcone… Così giovane, così bella. Mai le feci mancare un solo secondo del mio amore e della mia presenza. Non ne fanno più di gatti così sa? Era un dono unico e immacolato di Dio».
Evidentemente sul mio viso si dipinse un’espressione particolarmente comunicativa, ed il baronetto intuì cosa pensavo di lui e del tempo entusiasmante trascorso insieme. Aggrottò la faccia da talpa, mi rivolse un freddo saluto ed una stoccata prima di allontanarsi, lentamente ma in modo signorile: «Lei è cambiato esimio Goffredo. Arrivederla». Chinai il capo in segno di saluto e rimasi a pensare. Da un po’ di tempo erano in molti a dirmi "sei cambiato, sai", ed ogni volta rivedevo quel ragazzino con il collo lungo andare verso la grande città. Mi guardavo l'anima, girato di spalle che partivo senza riuscirmi a ricordare davvero, senza riconoscermi in quel calore, in quella rivoluzione che cercavo. Era venuto a piovere, e non sapevo quando né come. E d’altronde, vivere in tutta la sua tragicità una vita fittizia, pur sapendo che non t’appartiene, è a suo modo una tragedia.
Immerso nei miei pensieri, venni raggiunto alle spalle da Calliope, col fiatone e l’entusiasmo da scoop.

Come vi dicevo, le feste di Valentin erano molto gettonate, piene di persone provenienti dagli alti bordi della società. Un invitato fisso era Scott R. O’Brien, ex capo di gabinetto alla Casa Bianca durante il secondo, disastroso mandato del Presidente John Fitzgerald Kennedy. Nonostante gli svariati procedimenti giudiziari intentati nei confronti di molti funzionari, O’Brien se la cavò sempre, uscendone sistematicamente pulito. Quindici anni dopo, gran parte della stampa statunitense e internazionale continuava a pedinare O’Brien, convinti che egli avesse contatti con la malavita organizzata e trattasse ancora informazioni rilevanti, grazie alla rete intrecciata durante la sua permanenza al governo degli Stati Uniti.
Poche settimane dopo gli eventi occorsi quella notte a Malaga, Calliope fece uscire un articolo in cui accusava direttamente O’Brien di corruzione internazionale e di avere legami con figure di spicco dell’ambiente mafioso europeo. Calliope, infatti, era riuscita, pedinando O’Brien durante la festa, a fotografarlo mentre conversava e scambiava documenti con alcuni membri della cupola mafiosa andalusa. Non so molto di come si svolsero precisamente gli eventi, ma c’entravano una Polaroid borseggiata al fotografo della serata, un’oca fatta evadere dalla cucina e un lenzuolo di seta bianco. Ad ogni modo, dopo la pubblicazione dell’articolo e delle foto, venne montato un gigantesco processo contro O’Brien che culminò con la sua condanna e successiva fuga. Gli vennero confiscati tutti i beni e gran parte dei suoi collaboratori e contatti furono arrestati. Tuttavia, data la pericolosità del soggetto, Calliope ed io fummo inseriti in un programma di protezione testimoni. Il processo e il successivo periodo di scorta furono tempi duri per me, anche perché le mie condizioni di salute continuavano a peggiorare. Ero stato messo in guardia dai medici sin da adolescente: a causa della malformazione, la mia speranza di vita era decisamente più bassa; in quel periodo iniziai a soffrire di lancinanti dolori articolari e di frequenti infezioni alle vie respiratorie. Ma sopportai tutto di buon grado grazie a Calliope: non la vedevo così viva da molto tempo. Mi sentivo in colpa, perché con la mia malattia stavo rubando il tempo della sua vita, come se la rallentassi; inoltre, era giusto sacrificarmi per la sua carriera, come lei si era sacrificata prima per la mia. In fondo, ho anche sperato che quel periodo di vicinanza forzata potesse essere d’aiuto alla nostra relazione, ma mentre lei sembrava aver ritrovato quella scintilla, io seguitavo ad appassire nel fisico e nello spirito. Chiacchieravamo come sempre, ci stringevamo la mano con lo stesso affetto, lei mi stava accanto, mi aiutava nel momento del bisogno ma era evidente che oramai vivevamo su due pianeti diversi, accomunati solo dal centro di gravità che un tempo condivisero con smisurato amore. Ed è così che si apprestava a finire la mia vita.

Da quanto ci disse il capo della scorta, O’Brien, grazie ad alcuni contatti, riuscii a trovarci. Ci pedinava da giorni e stava solo aspettando l’occasione migliore per tenderci un agguato. Se non siete mai stati inseriti in un programma di protezione vi spiego brevemente come funziona: solitamente venite assegnati a due, massimo tre agenti addestrati, i quali non devono destare troppo nell’occhio, e sembrare quindi vecchi amici, o parenti intimi (nel mio caso, essendo piuttosto famoso, il fatto che andassi in giro con qualche armadio a muro in completo sembrava normale di suo); in secondo luogo, sarete forniti di assistenza sanitaria e documenti nuovi, i vostri fondi bancari trasferiti e userete conti appositamente creati, così da nascondere le tracce dei pagamenti; telefonate e corrispondenza arriveranno ad un centralino che, dopo averle controllate, ve le farà arrivare per vie secondarie; in ultimo, cambierete auto e/o mezzo di trasporto ogni sette giorni per muovervi principalmente da un hotel all’altro, ma potreste anche trovarvi a fare soggiorni più lunghi in appartamenti pre-selezionati. A dire il vero, la nostra esperienza sotto scorta non durò molto. O’Brien, rimasto solo e disperato, senza più nulla da offrire, trasformò Calliope nel suo capro espiatorio. Quella bislacca vendetta era tutto ciò che aveva per andare avanti. E del modo in cui questa naufragò miseramente se ne sarebbe certamente vergognato. Intorno alle cinque del pomeriggio, infatti, fummo catturati dal suono delle ambulanze che si precipitarono in strada. O’Brien stava controllando il perimetro del nostro hotel -probabilmente alla ricerca di un ingresso secondario- quando incontrò un vaso di petunie, che di lì passava perché poggiato da una donna distratta. I medici si limitarono ad attestare il decesso.
Quel vaso di terracotta non avrebbe ucciso nessuno in condizioni normali, era piuttosto piccolo e le petunie appena fiorite. Il vero problema fu l’altezza. Vedete, il vaso cadde da un’altezza di circa quindici metri, impiegando uno virgola settantantasei secondi per raggiungere terra ed impattare sulla povera testa di O’Brien, colpendolo quando viaggiava ad una velocità prossima ai sessanta chilometri orari, sufficiente a fracassare il cranio di un essere umano. Era stata tutta questione di fisica.

Dopo aver appreso della dipartita di O’Brien, Calliope ed io ci sentimmo incredibilmente sollevati. Eravamo di nuovo liberi. Conservavo un sigaro toscano di eccellente fattura, e non so dirvi perché, ma sentii che quello era il momento giusto. Presi l’ascensore e arrivai fino all’ultimo piano. C’era uno stupendo terrazzino lassù, con delle piccole palme ai quattro angoli e robuste panche di ferro sparse qui e là. Avevano piastrellato il pavimento con dei listoni che sembravano di vero pino e piazzato un gazebo color crema proprio al centro del verone. Il sole tramontava malinconico dietro i palazzi, e mentre tutto veniva avvolto da quella luce calda e soffusa, mi accesi quell’ottimo sigaro toscano, inseguendo con lo sguardo il fumo che si perdeva all’orizzonte. Mi vennero in mente i vecchi mezzadri del mio paese che tornavano al calar del sole carichi come barrocciai, dopo aver passato il giorno a far lo scasso. I palazzi mi parvero uguali a loro: stanchi in quelle canotte infeltrite, coperti di una polvere scura, che al crepuscolo sembrava indossassero un’ombra.
Guardare in lontananza è sempre stata una delle mie attività preferite, ma proprio in quel momento, appoggiato sul parapetto in marmo bianco che cingeva il terrazzino, mi resi conto che mai nella vita avevo guardato in basso. So che può sembrare assurdo, ma fin da piccolo, per via del collare, mi era praticamente impossibile abbassare la testa, e così ci avevo fatto l’abitudine a non chinarla mai, anche quando avrei potuto (cioè da un qualunque posto sopraelevato). Feci, così, la fine delle petunie. Per chi non lo sapesse, la testa pesa più dei piedi, e il mio lungo collo da giraffa era una leva poderosa, utile ad amplificare l’effetto spinta. Per farla breve, appena provai a chinare la testa per guardare giù iniziai a precipitare. Come cercavo di dirvi, la vita è un racconto scritto male, dove anche i personaggi migliori lasciano la storia non diversamente dal modo in cui la lascia un vaso di fiori. E a dirla tutta, poteva andar peggio.

Epilogo

Insomma, così si conclude la mia strana storia, la mia strana, insospettabile vita di uomo distratto. Un violinista di strada sta allietando dei passanti mentre l'asfalto mi sfiora i capelli; ma negli occhi signori, nei miei occhi c'è un ragazzino col collo lungo che finalmente si volta e sorride.

Re: L’uomo giraffa

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Wow, semplicemente magistrale, nello stile, nel contenuto, nella sensibilità. Stile accattivante, magnetico, agile, carismatico, tagliente. I momenti poetici, di bellezza, come la serata in cui Goffredo chiede a Calliope di sposarlo, sono descritti con una sensibilità dolcissima. La morale della favola, che gli uomini grandi o piccoli che siano escono dai giochi allo stesso modo, che la vita è caso, mi ha fatto percepire al contempo una profonda malinconia e un senso di libertà come una ventata d'aria fresca.

Le uniche cose a cui darei un'aggiustata sono:
1. Punteggiatura: alcune virgole le sostituirei con i due punti; credo che tu abbia scelto le virgole in contesti in cui normalmente si usano i due punti per dare maggiore agilità al testo, ed è un uso che piace anche a me, ma qui ho sentito bisogno di una pausa più forte in due o tre punti. Inoltre, metti i trattini attaccati alla parola successiva o precedente, a seconda dei casi: è una stupidata, ma un pochino mi ha dato visivamente fastidio perciò mi pare giusto segnalartelo.
2. La frase, a inizio della parte terza: "la morte è il significante della vita" è molto incisiva, ma anche un po' poco immediata, almeno per me, che pure studio Lettere e con metafore, significante e significato ho un po' di dimestichezza. Secondo me basterebbe renderla un po' più plastica e comprensibile facendola seguire da una spiegazione, o che so, da qualche tipo di esempio (quale non so dirti e non ho purtroppo tempo di pensarci ora, ma lo scrittore sei tu e hai pure molta fantasia secondo, sono sicuro che qualcosa puoi tirare fuori dal cilindro). E accosterei qualche esempio plastico anche alla sentenza "se c'è un'arte di vivere, il talento è quello di distinguere tra metafore e significanti" (cito a memoria), anche questa molto incisiva, molto bella.
3. La più importante delle mie 3 critiche: il finale. Troppo sbrigativo, a mio parere, il tuo. Mi piace l'indirizzo, ma avrei indugiato un pelo di più (forse seguendo stereotipi del cinema, ma in questo caso mi paiono stereotipi ottimi) sul fermo immagine dell'istante estremo, sulla descrizione della strada in cui sta precipitando. Oppure, in alternativa, se l'effetto che vuoi ottenere è quello di un'uscita di scena rapida e randomica di un esperimento buffo della vita, potresti anzi togliere spazio alla descrizione di tale scena di strada, non concedendole un'intera frase autonoma, tipo (butto lì): "guardando distrattamente la folla raccolta intorno ad un violinista di strada, aspirai un'ultima boccata di quell'ottimo sigaro toscano". Ricapitolando: o indugi bene sul fermo immagine per ottenere la dilatazione temporale del momento estremo della morte, oppure dai solo una rapida descrizione, en passant, della scena di contorno, per facilitarne l'immaginazione da parte del lettore, ma poi passi rapidamente avanti, alla fine di questa storia strana. Il modo che hai usato tu, di soffermarti sulla scena di strada con una frase intera, ma descrivendo una sola immagine, è una via di mezzo che non mi convince. Allo stesso modo, darei una lievissima rimpolpata all'immagine di lui che sorride nel salutare il mondo, non so, anche solo con un paio di parole renderei conto un pochino più approfonditamente del suo stato d'animo.

Detto ciò, racconto bellissimo, magistrale, ripeto, complimenti vivissimi!

Re: L’uomo giraffa

3
AquilaGialla ha scritto: mar gen 26, 2021 2:42 pm Wow, semplicemente magistrale, nello stile, nel contenuto, nella sensibilità. Stile accattivante, magnetico, agile, carismatico, tagliente. I momenti poetici, di bellezza, come la serata in cui Goffredo chiede a Calliope di sposarlo, sono descritti con una sensibilità dolcissima. La morale della favola, che gli uomini grandi o piccoli che siano escono dai giochi allo stesso modo, che la vita è caso, mi ha fatto percepire al contempo una profonda malinconia e un senso di libertà come una ventata d'aria fresca.

Le uniche cose a cui darei un'aggiustata sono:
1. Punteggiatura: alcune virgole le sostituirei con i due punti; credo che tu abbia scelto le virgole in contesti in cui normalmente si usano i due punti per dare maggiore agilità al testo, ed è un uso che piace anche a me, ma qui ho sentito bisogno di una pausa più forte in due o tre punti. Inoltre, metti i trattini attaccati alla parola successiva o precedente, a seconda dei casi: è una stupidata, ma un pochino mi ha dato visivamente fastidio perciò mi pare giusto segnalartelo.
2. La frase, a inizio della parte terza: "la morte è il significante della vita" è molto incisiva, ma anche un po' poco immediata, almeno per me, che pure studio Lettere e con metafore, significante e significato ho un po' di dimestichezza. Secondo me basterebbe renderla un po' più plastica e comprensibile facendola seguire da una spiegazione, o che so, da qualche tipo di esempio (quale non so dirti e non ho purtroppo tempo di pensarci ora, ma lo scrittore sei tu e hai pure molta fantasia secondo, sono sicuro che qualcosa puoi tirare fuori dal cilindro). E accosterei qualche esempio plastico anche alla sentenza "se c'è un'arte di vivere, il talento è quello di distinguere tra metafore e significanti" (cito a memoria), anche questa molto incisiva, molto bella.
3. La più importante delle mie 3 critiche: il finale. Troppo sbrigativo, a mio parere, il tuo. Mi piace l'indirizzo, ma avrei indugiato un pelo di più (forse seguendo stereotipi del cinema, ma in questo caso mi paiono stereotipi ottimi) sul fermo immagine dell'istante estremo, sulla descrizione della strada in cui sta precipitando. Oppure, in alternativa, se l'effetto che vuoi ottenere è quello di un'uscita di scena rapida e randomica di un esperimento buffo della vita, potresti anzi togliere spazio alla descrizione di tale scena di strada, non concedendole un'intera frase autonoma, tipo (butto lì): "guardando distrattamente la folla raccolta intorno ad un violinista di strada, aspirai un'ultima boccata di quell'ottimo sigaro toscano". Ricapitolando: o indugi bene sul fermo immagine per ottenere la dilatazione temporale del momento estremo della morte, oppure dai solo una rapida descrizione, en passant, della scena di contorno, per facilitarne l'immaginazione da parte del lettore, ma poi passi rapidamente avanti, alla fine di questa storia strana. Il modo che hai usato tu, di soffermarti sulla scena di strada con una frase intera, ma descrivendo una sola immagine, è una via di mezzo che non mi convince. Allo stesso modo, darei una lievissima rimpolpata all'immagine di lui che sorride nel salutare il mondo, non so, anche solo con un paio di parole renderei conto un pochino più approfonditamente del suo stato d'animo.

Detto ciò, racconto bellissimo, magistrale, ripeto, complimenti vivissimi!
Perdonami ma non ho ancora ben capito come si taggano le persone. Ad ogni modo, grazie per i complimenti e sono contento che il racconto ti sia piaciuto. I tuoi consigli mi sembrano molto validi, specie quelli sul finale. Ci lavorerò su. Penso opterò per una rapida descrizione, per dare al lettore un effetto straniante. Quanto agli esempi, mi hai dato una bella gatta da pelare, perché credo tu abbia ragione ma non sarà facile farsene venire in mente qualcuno :asd: .
Grazie ancora.

Un saluto,
Johnny P.

Re: L’uomo giraffa

5
Johnny P ha scritto: mar gen 19, 2021 4:02 pm Prologo

Di solito si è sempre molto duri con sé stessi, specie quando ci si ritrova a redigere una specie di bilancio del proprio tempo. Ma è quando non ne abbiamo più che riusciamo a guardare la nostra vita con maggiore indulgenza, ci riconosciamo per quello che siamo, ci perdoniamo per quello che non siamo stati. E il mio tempo era scaduto, stavo precipitando dal sesto piano.

Da questo incipit, che cattura il lettore, inizia a valanga una vicenda surreale e fantastica sulla vita dell'Uomo-giraffa, dall'incredibile voce, scritta da uno scrittore talentuoso.

Intervallate, ti fornisco qualche nota, che spero ti sia utile.

Era uno di quei posti che avrete sicuramente letto

di cui avrete sicuramente letto...

da qualche altra parte.

Come dicevo pocanzi, sebbene in molti vollero credere al dono del cielo,

volessero credere

sapevo che non c’entravano miracoli nella mia voce, solo una curiosa combinazione di riprovate leggi della fisica, anche piuttosto banali.

Parte Terza: Girato di spalle

È bene effettuare una distinzione di rilievo: la metafora è un’espressione, o una condizione, che rimanda, anche se sarebbe più corretto dire richiama, ad un concetto ulteriore variamente identificabile; un significante, invece, è uno stato, una forma che invia al contenuto, univoco e decifrabile. Così, ad esempio, un vaso di terracotta, inserito nel corretto contesto, può divenire metafora di cose assai complesse, come l’anima o il corpo, o come concetti astratti quali la malinconia, la noia eccetera; mentre la morte è, sempre a titolo esemplificativo, il significante della vita. Distinguerle è complesso, specie nelle questioni quotidiane e di ordine pratico, perché è necessario avere un’informazione completa e a posteriori. Ma che si sappia: se esiste un’arte di vivere, allora il talento è distinguere fra significanti e metafore.


Una gran bella digressione che, secondo me, ci sta bene nel contesto. Bravo!

è quello di esibirmi nel più bel tuffo che sia mai stato eseguito, lasciare che l’acqua mi scorra fresca su ogni parte del corpo per poi spingermi verso l’alto e in una sola braccia
bracciata


Eravamo tutti in giardino sorseggiando champagne, discorrendo amabilmente nei nostri leggeri abiti da sera, ma era palpabile la suspence
suspense

per il momento clou. Tutt’ad un tratto le luci si spensero e Valentin comparve sul trampolino della piscina, seguito prima dai mormorii della gente e poi da un fragoroso applauso. Indossava solo un costume dorato e un’espressione seria sul viso.


«Esimio Goffredo, compagno di lungo corso -esordì- anche lei gozzoviglia fra codesta bella gente? Lei che è un portento canoro, un usignolo di bosco, la ritrovo ad intonare melodie per noi? Quale fortuna».
«Una fortuna è incontrarla Barone» risposi.

Una fortuna è incontrare Lei, Barone


«Pocanzi la vidi in compagnia della sua meravigliosa signora, ma or ora non riesco ad intravederla…».
«La vado giusto cercando

virgola

«Posso solo immaginare
virgola

Barone» dissi.



Da quanto ci disse il capo della scorta, O’Brien, grazie ad alcuni contatti, riuscii a trovarci.

riuscì


Quel vaso di terracotta non avrebbe ucciso nessuno in condizioni normali, era piuttosto piccolo e le petunie appena fiorite.

meglio due punti dopo "normali"

Il vero problema fu l’altezza. Vedete, il vaso cadde da un’altezza di circa quindici metri, impiegando uno virgola settantantasei secondi
settantasei

per raggiungere terra ed impattare sulla povera testa di O’Brien, colpendolo quando viaggiava ad una velocità prossima ai sessanta chilometri orari, sufficiente a fracassare il cranio di un essere umano. Era stata tutta questione di fisica.

Come cercavo di dirvi, la vita è un racconto scritto male, dove anche i personaggi migliori lasciano la storia non diversamente dal modo in cui la lascia un vaso di fiori. E a dirla tutta, poteva andar peggio.

Epilogo

Insomma, così si conclude la mia strana storia, la mia strana, insospettabile vita di uomo distratto. Un violinista di strada sta allietando dei passanti mentre l'asfalto mi sfiora i capelli; ma negli occhi signori, nei miei occhi c'è un ragazzino col collo lungo che finalmente si volta e sorride.

Mi permetto un'osservazione: l'uomo-giraffa non si vede, è il violinista che vede lui. Quindi, la frase andrebbe riscritta così:
nei miei suoi occhi c'è un ragazzino col collo lungo che finalmente si volta e sorride.



Davvero, @Johnny P , hai del talento in prosa come in poesia! Grande (y)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: L’uomo giraffa

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Bravo, bello. Soprattutto un protagonista ben costruito. Data questa base positiva ti faccio alcune osservazioni.
centimetri con una palla da biliardo
Forse meglio una palla da bowling.? Ok che messa su un grissino una biglia da biliardo è in effetti sproporzionata, ma se la visualizzo vedo in fondo una sfera abbastanza piccola, che questa sproporzione non la trasmette a sufficienza. Una palla da bowling invece trasmette pesantezza, rumore di cose che crollano quando abbatte i birilli, il rumore pesante quando impatta il legno.
Era uno di quei posti che avrete sicuramente letto
Non che, ma "di cui".
Molti bambini del paese giocavano a nascondino per i vicoletti del borgo,
---> "Molti bambini giocavano a nascondino per i vicoletti del borgo,"
da saccheggiare con avarizia
Io toglierei "con avarizia". Se saccheggi è difficile che tu lo faccia con moderazione.
Diceva giusto mio padre, possiamo tollerare tutto quello che non può succederci, ma abituarci solo a quello che si vive o si è vissuto.
Non so bene cosa dire di questa fra. Da un parte mi piace, dall'altra ammetto di non averla capita molto bene. Mi verrebbe però da modificarla in questo senso: "Diceva giusto mio padre, possiamo tollerare tutto quello che non può succederci, ma solo abituarci a quello che si vive o si è vissuto". Però ripeto, temo che possa essermene sfuggito il senso.
Con quei capelli rasati e gli occhi spenti poi, pareva un militare di ritorno dal Vietnam
Qui leverei "quei", limitandomi a "i", e metterei anche un'altra virgola prima del "poi".
diversi alberi di faggio
Faggi nel cortile di una scuola? Vado a senso, ma non credo che siano alberi usati in funzione ornamentale.
benché tutti ne piansero la dipartita,
Mi sembra che non torni. Credo che sarebbe meglio "piangessero", no? L'idea che la sua vita ideale però finisca in quel modo è molto bella, mi ha colpito.
Avevo un’agente giapponese ai tempi
Io cambierei in "Avevo, ai tempi, un'agente giapponese.
città eterna
È un modo di dire preconfezionato che io di solito tendo ad evitare, non mi piace.
"(non nutriva un particolare amore per le scarpe scomode)"
Io questa frase la toglierei del tutto, per due motivi: Se getta via le scarpe a quel modo si capisce già che non le piacciono. Inoltre dici che sono scomode. A chi è che piace tenere delle scarpe scomode?
"i biondi capelli li aveva raccolti"
Questa frase proprio non mi piace, troppo forzatamente aulica. "Teneva i capelli biondi raccolti" va molto meglio, secondo me.
"lasciando che le balze rosse"
Che le balze del vestito sono rosse lo hai già detto, eviterei di ripeterlo.
Senz’anima viva a vagare per le strade, c’eravamo solo io, lei e Roma, con tutti i suoi simboli immortali a circondarci: il Colosseo, San Pietro, il Foro… l’uno accanto all’altro, illuminati da una luce calda e innaturale, ingigantiti nei contorni, tutti così vicini che sembravano tenersi per mano. Roma l’ho sempre vista come una bella donna, che portava nel cuore il ricordo di una stupenda gioventù e sul viso la nostalgia del passato. Ma Calliope non sembrava curarsene, e in silenzio continuava a correre e saltare, sempre più piano, finché non le fui così vicino da vedere una ruga solcarle il viso e quella luce affievolirsi. Neanche mi accorsi che avevamo smesso di correre, che lei era al mio fianco tenendomi per mano. E quando mi voltai a guardarla i suoi capelli avevano il colore della neve, la schiena era inarcata e lei stessa a stento si reggeva al mio braccio, guardandomi con gli occhi vacui e sinceri, senza fiamme ad illuminarli. Quando poi ci fermammo un istante, vedemmo che la città era rifiorita ed ogni mattone aveva perso i segni del tempo, tornando al suo splendore originale, fino a stagliarsi immensa nel cielo, contornata di stelle come fiaccole.
Di questo passaggio mi piace l'idea, ma forse va un po' asciugato. Non saprei bene cosa togliere, ma cercherei di dare più risalto alla metafora di Roma come donna (classica ma qui usata bene), quindi lasciandole lo spazio che merita.
Quest’ultimo, ed è qui che riprende la narrazione,
Lo capiamo che stai riprendendo la narrazione, io eviterei di dirlo.

«Negli ultimi tempi era cambiata… Ma mai avrei creduto che sarebbe giunta ad un tanto estremo gesto. Ohibò, gettarsi dal balcone… Così giovane, così bella. Mai le feci mancare un solo secondo del mio amore e della mia presenza. Non ne fanno più di gatti così sa? Era un dono unico e immacolato di Dio».
Evidentemente sul mio viso si dipinse un’espressione particolarmente comunicativa, ed il baronetto intuì cosa pensavo di lui e del tempo entusiasmante trascorso insieme. Aggrottò la faccia da talpa, mi rivolse un freddo saluto ed una stoccata prima di allontanarsi, lentamente ma in modo signorile: «Lei è cambiato esimio Goffredo. Arrivederla». Chinai il capo in segno di saluto e rimasi a pensare. Da un po’ di tempo erano in molti a dirmi "sei cambiato, sai", ed ogni volta rivedevo quel ragazzino con il collo lungo andare verso la grande città. Mi guardavo l'anima, girato di spalle che partivo senza riuscirmi a ricordare davvero, senza riconoscermi in quel calore, in quella rivoluzione che cercavo. Era venuto a piovere, e non sapevo quando né come. E d’altronde, vivere in tutta la sua tragicità una vita fittizia, pur sapendo che non t’appartiene, è a suo modo una tragedia.
La parlata del barone è funzionale alla virata comica al termine del racconto del barone stesso, che funziona, ma io la trovo comunque un po' eccessiva, macchiettistica, e quindi la normalizzerei un po'.
Come vi dicevo, le feste di Valentin erano molto gettonate, piene di persone provenienti dagli alti bordi della società. Un invitato fisso era Scott R. O’Brien, ex capo di gabinetto alla Casa Bianca durante il secondo, disastroso mandato del Presidente John Fitzgerald Kennedy.
Questo accenno ucronico mi sembra che stoni un po', non è un tema presente nel resto del racconto, piove un po' dal cielo. E in generale è un po' una sensazione che mi rimanda tutta questa parte finale del racconto. Forse troverei una via diversa per arrivare al finale "accidentale" che mi piace molto. Questa storia di gangster e spionaggio la trovo un po' scollegata dal resto, eccessiva per il contesto che hai costruito precedentemente.
Ed è così che si apprestava a finire la mia vita.
Io eviterei questa anticipazione. Ci aspettiamo che la vita del protagonista finisca in maniera comica e tragica al tempo stesso, ma se ce lo dici così secondo me depotenzi troppo il finale.

Re: L’uomo giraffa

8
Ben trovato @Johnny P :) spero che stai bene. Commento questo racconto perchè ha un titolo originale e davvero curioso. Inizio a leggere :libro:

Di solito si è sempre molto duri con sé stessi, specie quando ci si ritrova a redigere una specie di bilancio del proprio tempo. Ma è quando non ne abbiamo più che riusciamo a guardare la nostra vita con maggiore indulgenza, ci riconosciamo per quello che siamo, ci perdoniamo per quello che non siamo stati. E il mio tempo era scaduto, stavo precipitando dal sesto piano.

Incipit curioso e scorrevole

Alla malattia diedero il mio nome, la chiamarono Sindrome di Goffredo, ma nessun’altro, a parte me, ne avrebbe sofferto.
Eliminerei: ma . Stona secondo me

Ad esclusione della nuca, ero fisiologicamente perfetto, sicché mi procurano un collare che sostenesse il peso del cranio ed evitasse quei movimenti inopportuni che potevano essermi fatali. Il mio collo era come un grissino di ventiquattro centimetri con una palla da biliardo incastrata sulla cima, bastava poco perché si frantumasse.
:love3: Bellissima descrizione: scorrevole con un efficacie struttura di narrazione

Così, passai gran parte della mia infanzia accompagnando i miei nonni da questa o quell’altra parte, leggendo libri, ascoltando poca radio e giocando a briscola.
Modificherei perchè non mi piace: da questa o quell’altra parte

Era uno strano gorilla alto due metri con la passione per il fitness e le serate in discoteca.
Qui preferirei iniziare così: Era uno gorilla alto due metri, specie strana

Ad ogni modo, una mattina di ottobre, mentre mi rilassavo da solo nel cortile, vidi Luca Schiamazzi venirmi incontro, agitando il suo grosso braccio in segno di saluto.
da solo è sottinteso, quindi lo cancellerei.

«Ciao Giancarlo -esordì- ce l'hai una sigaretta?» Metterei esordì alla fine
«Mi chiamo Goffredo» risposi porgendogli il pacchetto.
«Grazie. Giornata figa eh?»
«C'è il sole, sì…» dissi seccato.
Mini dialogo ben strutturato e diretto


In realtà, non credevo neppure che Luca conoscesse tutte quelle parole, di solito comunicava con monosillabi e alzate di mento.
Questa frase non mi convince

Stupito dal fatto che il suo discorso avesse un briciolo di senso, decisi di continuare a dargli corda.
Scriverei: decisi di dargli corda

«Sono riflessioni profonde le tue -dissi- leggerai molto la Bibbia e andrai spesso in chiesa». Anche qui, metterei dissi alla fine

«A dire il vero no, leggere non mi piace e la chiesa puzza. Ma mi sono fatto queste idee un paio di giorni fa, al funerale di zio Bruno»
Rivedrei ciò che ti ho sottolineato

quello fu il secondo momento più importante della mia vita. Venne fuori che avevo una voce meravigliosa; il mio lungo collo creava una specie di effetto tromba: l'aria, dai polmoni, arrivava alle corde vocali con un percorso molto più lento, conferendomi un timbro caldo e un'estensione fuori dal normale.
Questo pezzo è molto interessante

Ben presto case discografiche, giornalisti, fotografi, televisioni, tutti vennero a bussare.
Qui, eliminerei: tutti


Cancellerei la seguente frase
benché tutti ne piansero la dipartita, io non m’incupii molto: quella, in fondo, era la vita che aveva sempre sognato.

Come dicevo pocanzi, sebbene in molti vollero credere al dono del cielo, sapevo che non c’entravano miracoli nella mia voce, solo una curiosa combinazione di riprovate leggi della fisica, anche piuttosto banali.
Come dicevo pocanzi secondo me non va bene in una narrazione

Avevo un’agente giapponese ai tempi, Haruka Matsumoto, una brava donna: capelli corti, occhi scuri, esile come un arbusto ma terribilmente efficiente nell’organizzarmi la vita. Era una di quelle persone costitutivamente infelici: la vedevi affannarsi, impegnarsi e finanche realizzarsi nelle cose della vita; come tutti rideva, talvolta per gusto, talvolta per circostanza, e c'erano giornate in cui sprizzava contagioso buonumore.
Descrizione perfetta del personaggio ma modificherei: un contagioso buonumore

Viveva di fronte ad un'ipotesi di donna che doveva parerle tanto bella quanto remota.
Semplificherei questa frase. Personalmente non la capisco

Me l’ero dipinta elegante, regale, armoniosa ed è per questo che rimasi deluso quando la vidi entrare masticando una gomma americana, con la giacca di pelle, i capelli raccolti e l’aria di chi avrebbe voluto trovarsi in qualunque altro posto. Si fece strada senza troppi complimenti e, chiesto un Long Island a Iolanda -la mia governante-, m’invitò a fare in fretta per togliersi il pensiero. Fu così che, travestito da bionda spocchiosa, venne il momento più importante della mia vita.
Qui mi confondo. Descrivi in modo scorrevole ma se non fosse per i capelli raccolti, non si comprende bene a chi ti riferisce

quindi si sedette e per un attimo la vidi vagare con gli occhi fra le striature bianche del cielo.
Spiega meglio l'ultima parte

avrei avuto anche io un buon motivo per essere felice.
Scriverei così: anch'io

Calliope li guardava incantata mentre volteggiavano secondo curiose geometrie prima di sciogliersi sul vetro della finestra o sul marmo del davanzale. Dopo l’amaro, il maître chiamò il taxi che ci avrebbe riaccompagnato a casa. Varcata la soglia,
:love3: Bellissima immagine!

Ridemmo ancora un poco del maître, poi semplicemente mi inginocchiai e, mostratole l’anello, le chiesi di passare il resto dei nostri giorni insieme.
Descrizione top: con poche parole, trasmetti tanto :love3:

Dal canto mio, a mala pena riuscivo a starle dietro, anche perché dovevo fare molta attenzione, un semplice scivolone poteva spezzare il mio fragile collo da giraffa.
:) mi ero dimenticata del suo problema


È bene effettuare una distinzione di rilievo: la metafora è un’espressione, o una condizione, che rimanda, anche se sarebbe più corretto dire richiama, ad un concetto ulteriore variamente identificabile; un significante, invece, è uno stato, una forma che invia al contenuto, univoco e decifrabile. Così, ad esempio, un vaso di terracotta, inserito nel corretto contesto, può divenire metafora di cose assai complesse, come l’anima o il corpo, o come concetti astratti quali la malinconia, la noia eccetera; mentre la morte è, sempre a titolo esemplificativo, il significante della vita. Distinguerle è complesso, specie nelle questioni quotidiane e di ordine pratico, perché è necessario avere un’informazione completa e a posteriori. Ma che si sappia: se esiste un’arte di vivere, allora il talento è distinguere fra significanti e metafore.
Questa paragrafo non mi convice

Vi siete mai fermati a pensare al numero di persone che avete incontrato da che ne avete memoria? Con quanti di loro avete interagito? Per quanto tempo? Chissà per quanti di loro avete avuto un ruolo, un senso fondamentale e non ne sapete nulla, o siete stati semplicemente di passaggio, nuvole biancastre appena percettibili. Luca, Haruka, Valentin erano tutte persone di cui avevo sottovalutato il ruolo, ma che ora riconosco come essenziali nello svolgimento della trama.
Paragrafo interessante e curioso.Complimenti

Da allora fui praticamente un ospite fisso dei suoi party. Cantavo, ovviamente.
Frase geniale ad effetto

Tutt’ad un tratto le luci si spensero e Valentin comparve sul trampolino della piscina, seguito prima dai mormorii della gente e poi da un fragoroso applauso. Indossava solo un costume dorato e un’espressione seria sul viso. Ci furono lunghi attimi di silenzio prima del grande tuffo: credetemi, il miglior salto che sia mai stato fatto nella storia, elegante, perfetto, armonioso: un carpiato seguito da un mezzo avvitamento, completato da un sontuosissimo ingresso in acqua di gambe.
Descrizione davvero perfetta

Di certo virgola si trattò di un gran finale per la miglior festa di sempre, cui posso dire di aver preso parte.

Cotanta disinvoltura, però, dovette far credere al baronetto Anastasio Giulio Maria degli Ulivi che ero in cerca di conversazione e compagnia.
Refuso: Con tanta

«Una fortuna è incontrarla Barone» risposi.
«Pocanzi la vidi in compagnia della sua meravigliosa signora, ma or ora non riesco ad intravederla…».
«La vado giusto cercando Barone. Non è che tante volte ha visto dove andava? ».
«Oh, no no, questo non lo so -rispose agitando la testa-. Mi rincresce immensamente non poterla aiutare. Sebbene le suggerirei di ricordare alla sua signora che non si lascia mai il braccio del consorte. Ah, la mia povera Concetta Anna Sofia, lei era tanto brava, sempre con me. Ne provo nostalgia ogni giorno».
:love3: Dialogo di un'eleganza indiscutibile

E d’altronde, vivere in tutta la sua tragicità una vita fittizia, pur sapendo che non t’appartiene, è a suo modo una tragedia.
Non amo leggere una frase che inizi con E

ma mentre lei sembrava aver ritrovato quella scintilla, io seguitavo ad appassire nel fisico e nello spirito.
Pensiero bellissimo

O’Brien stava controllando il perimetro del nostro hotel -probabilmente alla ricerca di un ingresso secondario- quando incontrò un vaso di petunie, che di lì passava perché poggiato da una donna distratta. I medici si limitarono ad attestare il decesso.
Domanda chi è stato ad ucciderlo?

Era stata tutta questione di fisica.
:D Che fondo schiena

Per farla breve, appena provai a chinare la testa per guardare giù iniziai a precipitare. Come cercavo di dirvi, la vita è un racconto scritto male, dove anche i personaggi migliori lasciano la storia non diversamente dal modo in cui la lascia un vaso di fiori. E a dirla tutta, poteva andar peggio.
Povero!

Insomma, così si conclude la mia strana storia, la mia strana, insospettabile vita di uomo distratto. Un violinista di strada sta allietando dei passanti mentre l'asfalto mi sfiora i capelli; ma negli occhi signori, nei miei occhi c'è un ragazzino col collo lungo che finalmente si volta e sorride.
[/quote]
Bellissimo e drammatico finale

Concludo dicendo che il racconto mi piace, ha una straordinaria capacità di tener incollato il lettore con una raffinata e curiosa narrazione. Dalla struttura elegante e centrata sull'argomento. Ci si dimentica del "collo lungo" ed è un bene. I dialoghi sono chiari e immediati. Il testo evidenzia in modo efficacie i vari caratteri dei personaggi. Personalmente trovo noiosa la parte storica dove parli di Scott O'brien.
Buona serata
:laughing-lettersrofl: :happy-smileyflower:

Re: L’uomo giraffa

9
@Tracker grazie per essere passato, per il commento e per i consigli.

[E in generale è un po' una sensazione che mi rimanda tutta questa parte finale del racconto. Forse troverei una via diversa per arrivare al finale "accidentale" che mi piace molto. Questa storia di gangster e spionaggio la trovo un po' scollegata dal resto, eccessiva per il contesto che hai costruito precedentemente.]
Non hai tutti i torti. Quando l'ho scritto volevo che ogni parte richiamasse a un genere diverso, però effettivamente con l'ultima mi sono scollegato troppo dal clima del racconto in generale.

@Floriana grazie anche a te per essere passata e per il commento, felice di ritrovarti. Ho deciso che mi rimetterò a rivedere il racconto e i tuoi consigli saranno preziosissimi per risistemarlo e aggiustarlo nelle parti che mi convincono meno, e soprattutto per rendere più scorrevole la lettura.

Ho letto con attenzione i vostri commenti e vi ringrazio nuovamente, estremamente utili.
Un saluto,
Johnny P.
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