La cadenza di Tito
Posted: Sun Jan 17, 2021 6:22 pm
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Due legionari romani scendevano lungo le scale della fortezza Antonia, entrando da un lato nel piazzale del Tempio di Gerusalemme, gremito di persone per la festività di Pesach.
– Cos’hai? Mi sembri debole – diceva Adrio, il più anziano, al giovane Tito che dopo un breve periodo a Cesarea marittima era stato assegnato alla fortezza del procuratore della Palestina.
– No, è il caldo. Mi fa male la testa.
– Hai messo foglie di cavolo sotto l’elmo?
– No.
– Te lo avevo di farlo ieri notte. Stavi bevendo come un vecchio ubriacone, scommetto che senti acido in gola e in pancia…
– Sì.
Adrio si mise a ridere. – La posca è buona appena per togliere la sete e curare una ferita superficiale ma dammi retta: vino greco resinato è il migliore. Ti farò conoscere.
Adrio si fermò sugli ultimi scalini, voltandosi verso Tito.
– Qui siamo ancora nella fortezza Antonia, non ci può succedere nulla. Per quelli… – e indicò con una smorfia la folla, – questo è territorio impuro, perché ci siamo noi. Non osano entrare per paura di contaminarsi. Dopo l’ultimo scalino siamo nella loro terra consacrata, bisogna stare attenti e guardarsi intorno. – Sorrise. – All’inizio credi che sia impossibile vivere qui, ma ti assicuro che anche a Gerusalemme si può vivere.
Strizzò l’occhio a Tito, che si guardava intorno respirando a fatica. Avrebbe preferito continuare a restare a Cesarea, almeno lì c’era il mare, faceva più fresco e sembrava di essere in una città romana, con tutte le comodità. Era stato trasferito alla fortezza Antonia per rinforzare il presidio durante le festività ebraiche. Annuiva senza entusiasmo seguendo Adrio nel grande piazzale immerso nella luce accecante del sole, pieno di uomini barbuti con il capo coperto che non li degnavano di uno sguardo, pur facendo largo al loro passaggio.
Usciti dal Tempio si inoltrarono in una strada stretta e in discesa, mentre il sudore scendeva copioso dalla testa rasa di Tito chiusa nell’elmo che si scaldava rapido sotto il sole.
– Senti caldo, eh? – diceva Adrio con calma e un mezzo sorriso divertito e crudele, mentre salutava affabile altri commilitoni che incontravano di pattuglia. Inveiva in greco o aramaico contro i passanti che bloccavano la strada: una processione interminabile di persone, talvolta famiglie intere, carri con ceste piene di merci, giare di vino, verdure, gabbie con colombe da vendere per i sacrifici al Tempio, greggi di pecore. La gente andava e veniva da tutte le direzioni, sollevando una coltre di polvere che si infilava dappertutto, toglieva il respiro. Tito guardava il suo commilitone con reverenza e timore; era più anziano di lui, quando parlava aramaico sembrava assumere anche i tratti di quella gente, lo sguardo, le movenze, l’odore. Si era integrato davvero bene, stava da tanti anni in Palestina con la X Legio Fretensis.
Sbucarono in una piccola piazza dove c’era un mercato; banchi di legno coperti da tende, alcune con tessuti a strisce chiare e scure. Polvere, fumo, odore penetrante di agnello arrosto, spezie, tanfo di marcio umido che proveniva dagli usci aperti e bui delle case, rigagnoli e pozze d’acqua sporca sopra i quali saltavano i bambini. Un vociare continuo in svariate lingue e dialetti, specialmente in prossimità dei banchi di vendita e delle taverne. E quel sole che non dava tregua.
– È sempre così, ma in questi giorni anche di più: è la loro festa di Pèsach – disse Adrio. Molta gente veniva dai paesi intorno, distanti giornate di cammino.
– Sembrano buoni, ma certo non ci amano. Guardati sempre intorno, possono esserci zeloti; pugnalano a tradimento chi offende il loro Dio, cioè tutti quelli che non sono zeloti, immagina noi. Se potessero ci ucciderebbero tutti. Sono più scuri di pelle, vivono nel deserto. Ma è da un po’ che non ci sono disordini.
Un vecchio di bassa statura, piegato in due dentro una tunica sporca passava seduto sopra un asino carico di ceste, salutando tutti con un sorriso beante e sdentato. Quando vide i due legionari sollevò le braccia ossute prorompendo in un effluvio gioioso di parole incomprensibili rivolto verso Adrio, che gli rispose nella stessa lingua mostrando sempre più familiarità con quell’idioma aspro, confidenza e allegria che a Tito sembrarono eccessivi, se non addirittura inopportuni. Rimase perciò in disparte guardandosi intorno, sentendo la mano madida di sudore scivolare sopra la sua lancia poggiata a terra.
– Questo vecchio pazzo vende un buon vino greco, meglio della nostra posca che a te piace tanto… cos’hai, stai male?
Tito ansimava reggendosi alla lancia, apriva la bocca, sollevava la testa in alto, come a cercare aria.
– È il caldo, lo so. Tranquillo. Vieni qui all’ombra.
Si avvicinarono a una tenda sotto la quale erano esposti pani, dolci e frutta sormontati da nugoli di mosche, allontanate con fare indolente da un vecchio con uno straccio in mano. Un uomo con una tunica scura, il capo avvolto in una kefiah chiara e una lunga barba nera camminava verso di loro. La gente si scostava al suo passaggio senza guardarlo. Arrivato vicino ai legionari il suo sguardo si fissò su Tito, separato dall’altro. Si diresse verso di lui, sorrise, alzò un braccio, gridò qualcosa, come stesse chiamando qualcuno oltre il legionario, affrettando al contempo il passo, come a raggiungere un punto che aveva individuato. Urtò Tito, continuando ad andare avanti con passo veloce. Tito si aggrappò alla tenda del banco trascinandola a terra. Il vecchio continuava a scacciare le mosche.
– Adrio… guarda… – disse Tito, mostrando con spavento la mano sporca di sangue. Sotto il suo braccio destro una chiazza scura si stava espandendo, fuoriuscendo sopra la lorica segmentata. Lo avevano pugnalato in un punto scoperto sotto l’ascella.
Adrio impugnò la sua lancia con la sinistra e sguainò il gladio guardandosi intorno. La gente ostentava indifferenza. In lontananza un uomo si muoveva velocemente, inoltrandosi verso una delle tante stradine laterali che circondavano il mercato.
– Zelota! – urlò con rabbia Adrio.
Una pattuglia di legionari stava in fondo alla strada.
– Zelota! Ha colpito! – urlò di nuovo, attirando la loro attenzione, indicando col gladio la parte dove il sicario stava scappando il quale, vedendosi scoperto, si mise a correre inseguito dai soldati.
Tito si era nel frattempo inginocchiato, con una mano sulla ferita. Adrio gli tolse l’elmo, tagliò rapido i legacci di cuoio che legavano la lorica al petto, osservò la ferita. Gli stracciò parte della tunica e fece un impacco premendo sotto l’ascella. Tito emise un sospiro di dolore.
– Ora ci voleva la posca… – disse Adrio guardandosi intorno. Vide che Tito non poteva muovere il braccio; la pugnalata aveva reciso qualche nervo, il sangue usciva abbondante adesso, il volto del giovane era sbiancato; tossì sputando un rivolo di sangue. Brutto segno, forse il pugnale era arrivato al polmone.
– Stringi la ferita, non fare uscire il sangue! Siediti. Ti porto del vino; qui vicino c’e una taverna…
– Non lasciarmi…
– Non ti lascio. Va bene. Non ti lascio.
Adrio lanciò rabbiosamente alcune monete verso un gruppo di ragazzini cenciosi che li stavano osservando.
– Andate alla taverna di Efìas! Fatevi dare una brocca di vino! Vi darò altre monete! Correte!
Uno dei ragazzi raccattò le monete e corse via, accompagnato da un altro.
Adrio sistemò meglio Tito, facendolo sedere appoggiato a una pietra. Si mise davanti a lui a gambe larghe, con la spada sguainata, ma senza puntarla sulla folla che a distanza li fissava in silenzio.
Tito sputò ancora sangue, vedeva appannato, perdeva le forze. Aveva sfoderato anche lui il gladio, piantandolo rabbiosamente a terra, in mezzo alle sue gambe. L’aria era calda come un forno, il petto bruciava, il cuore batteva forte, la luce del sole lo accecava picchiando sulla testa come un martello sull’incudine. La folla intorno sbiadiva, sfumava dentro la luce e la polvere che Tito respirava e sputava assieme al sangue. Chiuse gli occhi; aveva l’impressione di galleggiare nel vuoto, di allontanarsi dalla terra.
Un ragazzino si staccò dal gruppo di uomini silenziosi che guardavano. Indossava una tunica di lana grezza chiara, stretta ai fianchi da una fune consunta. Una kefiah bianca e azzurra avvolgeva la sua testa; i piedi sporchi di polvere calzavano sandali consumati. Mangiava lentamente un pezzo di carne di agnello arrosto avvolto in foglie di vite.
– Vattene! – gli urlò Adrio.
Il ragazzino non se ne andava. Continuava a mangiare e guardava.
– Vattene! – ripeté Adrio, facendo la mossa di sollevare il gladio.
– Quel legionario sta male – disse il ragazzo fissando Adrio negli occhi.
Adrio si sentì mancare il fiato dallo stupore. Come faceva quel pezzente di ragazzino ebreo a parlare il latino della Suburra?
– E allora? Cosa vuoi? Tra poco qui sarà pieno di soldati! Vattene!
Il ragazzino scuoteva la testa serio, continuando a mangiare, masticando con calma. Si avvicinò ad Adrio, talmente vicino che il soldato sentì il suo alito caldo che odorava di agnello.
– Fammi passare legionario – disse il ragazzo accennando un sorriso che illuminò il suo volto abbronzato. Adrio non sapeva cosa fare. Perché quel ragazzo ebreo parlava latino? Guardò la piccola folla che si era formata intorno a loro; un velo di polvere gialla avvolgeva tutti come una nebbia. Sembrava essere calato un silenzio innaturale, nessuno parlava, nessuno si muoveva. Adrio si sentiva a disagio sotto lo sguardo del ragazzo, gli guardò le mani: erano sporche e tagliuzzate, aveva i calli, erano le mani di uno che lavorava, forse con un padrone, oppure a casa sua. Non era certo uno zelota, nemmeno dall’aspetto. Era ancora un bambino. Voleva velocemente frugarlo nelle vesti, per vedere se aveva un pugnale. Allungò una mano verso di lui.
– Io non porto armi – disse il ragazzo severo. Non voleva essere toccato.
Adrio quasi non osava respirare. Non sapeva perché.
– Passa. Ma ti sto guardando.
– Sì, lo so. Guardami.
Si avvicinò a Tito, che sollevò faticosamente la testa.
– Stai male legionario – disse il ragazzo sempre parlando latino, ma con una cadenza diversa. La cadenza di Tito.
Il soldato ferito sorrise debolmente riconoscendo il suo idioma. Attraverso lo sguardo appannato vedeva un fanciullo vestito di bianco che gli sorrideva.
C’era pace, fresco, silenzio. Non c'era odio.
– Sei venuto… per portarmi a casa? Chi sei tu?
– Non ancora… Non ancora.– Il ragazzo impose una mano sulla sua testa. Il buio e il silenzio calarono su Tito.
Tito riaprì gli occhi. La luce all’inizio lo accecò. Il mondo era uguale, ma non era più come prima. Sentiva voci lontane che aumentavano di tono, come stessero avvicinandosi. Poi vide e sentì chiaro. Le caligae calzate dai legionari andavano e venivano davanti alla sua testa sollevando la polvere, lui era sdraiato a terra su un fianco. Cercò di alzarsi puntellandosi sul suo gladio e tutti lo guardarono. Adrio, che stava parlando concitatamente con altri soldati s’interruppe e lo guardò stralunato. Ma cosa avevano tutti da guardare? Non sentiva nessun dolore, per quanto… Si tastò dov’era stato pugnalato. Sangue secco, come di una vecchia ferita rimarginata da tempo. Ma non sanguinava e… con timore si toccò a fondo: nessuna ferita! La sensazione di non sentire più dolore. Non era una sensazione. Non sentiva dolore! In bocca aveva il sapore ferroso del sangue, ma stava svanendo, non lo sputava più.
L’aria era fresca, respirava come in un giardino; la folla intorno a lui si muoveva in un turbine silenzioso che risuonava in lontananza, avvicinandosi a tratti con moto gradevole. Adesso la polvere dei loro passi turbinava come una danza. Non era sgradevole: sentiva gli odori del mondo, era una festa, era la vita! Barcollò alzandosi. Vide la sua tunica a pezzi e insanguinata buttata da parte e coperta di mosche; la lorica e l’elmo in un angolo, la sua lancia lontana. Guardò il gladio che teneva in mano come se fosse la prima volta. Ma tutto questo non aveva importanza. Stava morendo e adesso era sano, intatto, soltanto sporco e sudato ma vivo. Vivo! Aveva fame, aveva sete! Cosa era successo? In nome degli Dei, cos’era successo?
– Quel ragazzo ti ha salvato! È un mago! – disse Adrio guardando Tito a bocca aperta. Poi, rivolto agli altri soldati – È stato pugnalato da uno zelota. Guardate qui… Questo mi moriva e invece… Un mago! Un mago ebreo lo ha salvato! Un mago ebreo bambino che parla latino!
– Ma dov’è il mago? – chiese Tito.
– Se ne è andato
– Dove?
– Da quella parte…
Tito corse nella direzione dove avevano visto andare il mago, una viuzza stretta e in salita, incurante dei commilitoni che lo chiamavano, incurante degli sguardi della gente, incuriositi nel vedere un legionario senza elmo e armatura, sporco di sangue che correva come un folle stringendo in mano il gladio. Vide il mago che camminava più avanti. Aumentò il passo per raggiungerlo. Lui si voltò. Sorrise. Tito si fermò ansimante davanti al ragazzo che sorridendo gli offrì con entrambe le mani le foglie di viti con dentro l'agnello arrosto che ancora stava finendo di mangiare. Il sorriso luminoso di quel ragazzo, quegli occhi… Tito gettò il gladio e tremando tese le mani per prendere l’agnello. Toccò le mani del ragazzo, sentì il loro calore, il respiro gli mancò, ebbe l’impressione di vacillare.
– Non è niente. Non avere paura. Mangia. È buono.
Tito sorrise e poi non riuscì a fermare il pianto. Mangiò con una fame nuova, un piacere mai sentito, un desiderio indefinibile che non sapeva spiegarsi. Mangiava e piangeva, piangeva ed era felice. Felice che il ragazzo lo guardasse, gli sorridesse, gli stesse vicino. Non sapeva perché.
– Chi sei tu che mi hai salvato la vita? Stavo morendo. Sei un grande mago. Cosa posso offrirti? O sei un Dio? Ma io non lo so. Voglio ringraziarti chiunque tu sia. Cosa posso fare per ringraziarti? Chiedimi qualunque cosa.
Tito si stupiva di parlare in quel modo a un ragazzo ebreo. Ma non gli importava più nulla al mondo in quel momento. Sarebbe morto felice vicino a quel ragazzo.
– Vivi. Ti chiedo di vivere. Ma io non sono un mago.
– Allora sei un Dio. Vivrò per te. Lo farò, te lo prometto. Ma ti prego: dimmi il tuo nome.
– Joshua ben Joseph – disse il ragazzo sorridendo.
Tito scosse la testa con un lieve sorriso, come a scusarsi di non capire aramaico. – Ti prego ragazzo: dimmelo in latino.
– Mi chiamo Gesù figlio di Giuseppe, legionario.
Due legionari romani scendevano lungo le scale della fortezza Antonia, entrando da un lato nel piazzale del Tempio di Gerusalemme, gremito di persone per la festività di Pesach.
– Cos’hai? Mi sembri debole – diceva Adrio, il più anziano, al giovane Tito che dopo un breve periodo a Cesarea marittima era stato assegnato alla fortezza del procuratore della Palestina.
– No, è il caldo. Mi fa male la testa.
– Hai messo foglie di cavolo sotto l’elmo?
– No.
– Te lo avevo di farlo ieri notte. Stavi bevendo come un vecchio ubriacone, scommetto che senti acido in gola e in pancia…
– Sì.
Adrio si mise a ridere. – La posca è buona appena per togliere la sete e curare una ferita superficiale ma dammi retta: vino greco resinato è il migliore. Ti farò conoscere.
Adrio si fermò sugli ultimi scalini, voltandosi verso Tito.
– Qui siamo ancora nella fortezza Antonia, non ci può succedere nulla. Per quelli… – e indicò con una smorfia la folla, – questo è territorio impuro, perché ci siamo noi. Non osano entrare per paura di contaminarsi. Dopo l’ultimo scalino siamo nella loro terra consacrata, bisogna stare attenti e guardarsi intorno. – Sorrise. – All’inizio credi che sia impossibile vivere qui, ma ti assicuro che anche a Gerusalemme si può vivere.
Strizzò l’occhio a Tito, che si guardava intorno respirando a fatica. Avrebbe preferito continuare a restare a Cesarea, almeno lì c’era il mare, faceva più fresco e sembrava di essere in una città romana, con tutte le comodità. Era stato trasferito alla fortezza Antonia per rinforzare il presidio durante le festività ebraiche. Annuiva senza entusiasmo seguendo Adrio nel grande piazzale immerso nella luce accecante del sole, pieno di uomini barbuti con il capo coperto che non li degnavano di uno sguardo, pur facendo largo al loro passaggio.
Usciti dal Tempio si inoltrarono in una strada stretta e in discesa, mentre il sudore scendeva copioso dalla testa rasa di Tito chiusa nell’elmo che si scaldava rapido sotto il sole.
– Senti caldo, eh? – diceva Adrio con calma e un mezzo sorriso divertito e crudele, mentre salutava affabile altri commilitoni che incontravano di pattuglia. Inveiva in greco o aramaico contro i passanti che bloccavano la strada: una processione interminabile di persone, talvolta famiglie intere, carri con ceste piene di merci, giare di vino, verdure, gabbie con colombe da vendere per i sacrifici al Tempio, greggi di pecore. La gente andava e veniva da tutte le direzioni, sollevando una coltre di polvere che si infilava dappertutto, toglieva il respiro. Tito guardava il suo commilitone con reverenza e timore; era più anziano di lui, quando parlava aramaico sembrava assumere anche i tratti di quella gente, lo sguardo, le movenze, l’odore. Si era integrato davvero bene, stava da tanti anni in Palestina con la X Legio Fretensis.
Sbucarono in una piccola piazza dove c’era un mercato; banchi di legno coperti da tende, alcune con tessuti a strisce chiare e scure. Polvere, fumo, odore penetrante di agnello arrosto, spezie, tanfo di marcio umido che proveniva dagli usci aperti e bui delle case, rigagnoli e pozze d’acqua sporca sopra i quali saltavano i bambini. Un vociare continuo in svariate lingue e dialetti, specialmente in prossimità dei banchi di vendita e delle taverne. E quel sole che non dava tregua.
– È sempre così, ma in questi giorni anche di più: è la loro festa di Pèsach – disse Adrio. Molta gente veniva dai paesi intorno, distanti giornate di cammino.
– Sembrano buoni, ma certo non ci amano. Guardati sempre intorno, possono esserci zeloti; pugnalano a tradimento chi offende il loro Dio, cioè tutti quelli che non sono zeloti, immagina noi. Se potessero ci ucciderebbero tutti. Sono più scuri di pelle, vivono nel deserto. Ma è da un po’ che non ci sono disordini.
Un vecchio di bassa statura, piegato in due dentro una tunica sporca passava seduto sopra un asino carico di ceste, salutando tutti con un sorriso beante e sdentato. Quando vide i due legionari sollevò le braccia ossute prorompendo in un effluvio gioioso di parole incomprensibili rivolto verso Adrio, che gli rispose nella stessa lingua mostrando sempre più familiarità con quell’idioma aspro, confidenza e allegria che a Tito sembrarono eccessivi, se non addirittura inopportuni. Rimase perciò in disparte guardandosi intorno, sentendo la mano madida di sudore scivolare sopra la sua lancia poggiata a terra.
– Questo vecchio pazzo vende un buon vino greco, meglio della nostra posca che a te piace tanto… cos’hai, stai male?
Tito ansimava reggendosi alla lancia, apriva la bocca, sollevava la testa in alto, come a cercare aria.
– È il caldo, lo so. Tranquillo. Vieni qui all’ombra.
Si avvicinarono a una tenda sotto la quale erano esposti pani, dolci e frutta sormontati da nugoli di mosche, allontanate con fare indolente da un vecchio con uno straccio in mano. Un uomo con una tunica scura, il capo avvolto in una kefiah chiara e una lunga barba nera camminava verso di loro. La gente si scostava al suo passaggio senza guardarlo. Arrivato vicino ai legionari il suo sguardo si fissò su Tito, separato dall’altro. Si diresse verso di lui, sorrise, alzò un braccio, gridò qualcosa, come stesse chiamando qualcuno oltre il legionario, affrettando al contempo il passo, come a raggiungere un punto che aveva individuato. Urtò Tito, continuando ad andare avanti con passo veloce. Tito si aggrappò alla tenda del banco trascinandola a terra. Il vecchio continuava a scacciare le mosche.
– Adrio… guarda… – disse Tito, mostrando con spavento la mano sporca di sangue. Sotto il suo braccio destro una chiazza scura si stava espandendo, fuoriuscendo sopra la lorica segmentata. Lo avevano pugnalato in un punto scoperto sotto l’ascella.
Adrio impugnò la sua lancia con la sinistra e sguainò il gladio guardandosi intorno. La gente ostentava indifferenza. In lontananza un uomo si muoveva velocemente, inoltrandosi verso una delle tante stradine laterali che circondavano il mercato.
– Zelota! – urlò con rabbia Adrio.
Una pattuglia di legionari stava in fondo alla strada.
– Zelota! Ha colpito! – urlò di nuovo, attirando la loro attenzione, indicando col gladio la parte dove il sicario stava scappando il quale, vedendosi scoperto, si mise a correre inseguito dai soldati.
Tito si era nel frattempo inginocchiato, con una mano sulla ferita. Adrio gli tolse l’elmo, tagliò rapido i legacci di cuoio che legavano la lorica al petto, osservò la ferita. Gli stracciò parte della tunica e fece un impacco premendo sotto l’ascella. Tito emise un sospiro di dolore.
– Ora ci voleva la posca… – disse Adrio guardandosi intorno. Vide che Tito non poteva muovere il braccio; la pugnalata aveva reciso qualche nervo, il sangue usciva abbondante adesso, il volto del giovane era sbiancato; tossì sputando un rivolo di sangue. Brutto segno, forse il pugnale era arrivato al polmone.
– Stringi la ferita, non fare uscire il sangue! Siediti. Ti porto del vino; qui vicino c’e una taverna…
– Non lasciarmi…
– Non ti lascio. Va bene. Non ti lascio.
Adrio lanciò rabbiosamente alcune monete verso un gruppo di ragazzini cenciosi che li stavano osservando.
– Andate alla taverna di Efìas! Fatevi dare una brocca di vino! Vi darò altre monete! Correte!
Uno dei ragazzi raccattò le monete e corse via, accompagnato da un altro.
Adrio sistemò meglio Tito, facendolo sedere appoggiato a una pietra. Si mise davanti a lui a gambe larghe, con la spada sguainata, ma senza puntarla sulla folla che a distanza li fissava in silenzio.
Tito sputò ancora sangue, vedeva appannato, perdeva le forze. Aveva sfoderato anche lui il gladio, piantandolo rabbiosamente a terra, in mezzo alle sue gambe. L’aria era calda come un forno, il petto bruciava, il cuore batteva forte, la luce del sole lo accecava picchiando sulla testa come un martello sull’incudine. La folla intorno sbiadiva, sfumava dentro la luce e la polvere che Tito respirava e sputava assieme al sangue. Chiuse gli occhi; aveva l’impressione di galleggiare nel vuoto, di allontanarsi dalla terra.
Un ragazzino si staccò dal gruppo di uomini silenziosi che guardavano. Indossava una tunica di lana grezza chiara, stretta ai fianchi da una fune consunta. Una kefiah bianca e azzurra avvolgeva la sua testa; i piedi sporchi di polvere calzavano sandali consumati. Mangiava lentamente un pezzo di carne di agnello arrosto avvolto in foglie di vite.
– Vattene! – gli urlò Adrio.
Il ragazzino non se ne andava. Continuava a mangiare e guardava.
– Vattene! – ripeté Adrio, facendo la mossa di sollevare il gladio.
– Quel legionario sta male – disse il ragazzo fissando Adrio negli occhi.
Adrio si sentì mancare il fiato dallo stupore. Come faceva quel pezzente di ragazzino ebreo a parlare il latino della Suburra?
– E allora? Cosa vuoi? Tra poco qui sarà pieno di soldati! Vattene!
Il ragazzino scuoteva la testa serio, continuando a mangiare, masticando con calma. Si avvicinò ad Adrio, talmente vicino che il soldato sentì il suo alito caldo che odorava di agnello.
– Fammi passare legionario – disse il ragazzo accennando un sorriso che illuminò il suo volto abbronzato. Adrio non sapeva cosa fare. Perché quel ragazzo ebreo parlava latino? Guardò la piccola folla che si era formata intorno a loro; un velo di polvere gialla avvolgeva tutti come una nebbia. Sembrava essere calato un silenzio innaturale, nessuno parlava, nessuno si muoveva. Adrio si sentiva a disagio sotto lo sguardo del ragazzo, gli guardò le mani: erano sporche e tagliuzzate, aveva i calli, erano le mani di uno che lavorava, forse con un padrone, oppure a casa sua. Non era certo uno zelota, nemmeno dall’aspetto. Era ancora un bambino. Voleva velocemente frugarlo nelle vesti, per vedere se aveva un pugnale. Allungò una mano verso di lui.
– Io non porto armi – disse il ragazzo severo. Non voleva essere toccato.
Adrio quasi non osava respirare. Non sapeva perché.
– Passa. Ma ti sto guardando.
– Sì, lo so. Guardami.
Si avvicinò a Tito, che sollevò faticosamente la testa.
– Stai male legionario – disse il ragazzo sempre parlando latino, ma con una cadenza diversa. La cadenza di Tito.
Il soldato ferito sorrise debolmente riconoscendo il suo idioma. Attraverso lo sguardo appannato vedeva un fanciullo vestito di bianco che gli sorrideva.
C’era pace, fresco, silenzio. Non c'era odio.
– Sei venuto… per portarmi a casa? Chi sei tu?
– Non ancora… Non ancora.– Il ragazzo impose una mano sulla sua testa. Il buio e il silenzio calarono su Tito.
Tito riaprì gli occhi. La luce all’inizio lo accecò. Il mondo era uguale, ma non era più come prima. Sentiva voci lontane che aumentavano di tono, come stessero avvicinandosi. Poi vide e sentì chiaro. Le caligae calzate dai legionari andavano e venivano davanti alla sua testa sollevando la polvere, lui era sdraiato a terra su un fianco. Cercò di alzarsi puntellandosi sul suo gladio e tutti lo guardarono. Adrio, che stava parlando concitatamente con altri soldati s’interruppe e lo guardò stralunato. Ma cosa avevano tutti da guardare? Non sentiva nessun dolore, per quanto… Si tastò dov’era stato pugnalato. Sangue secco, come di una vecchia ferita rimarginata da tempo. Ma non sanguinava e… con timore si toccò a fondo: nessuna ferita! La sensazione di non sentire più dolore. Non era una sensazione. Non sentiva dolore! In bocca aveva il sapore ferroso del sangue, ma stava svanendo, non lo sputava più.
L’aria era fresca, respirava come in un giardino; la folla intorno a lui si muoveva in un turbine silenzioso che risuonava in lontananza, avvicinandosi a tratti con moto gradevole. Adesso la polvere dei loro passi turbinava come una danza. Non era sgradevole: sentiva gli odori del mondo, era una festa, era la vita! Barcollò alzandosi. Vide la sua tunica a pezzi e insanguinata buttata da parte e coperta di mosche; la lorica e l’elmo in un angolo, la sua lancia lontana. Guardò il gladio che teneva in mano come se fosse la prima volta. Ma tutto questo non aveva importanza. Stava morendo e adesso era sano, intatto, soltanto sporco e sudato ma vivo. Vivo! Aveva fame, aveva sete! Cosa era successo? In nome degli Dei, cos’era successo?
– Quel ragazzo ti ha salvato! È un mago! – disse Adrio guardando Tito a bocca aperta. Poi, rivolto agli altri soldati – È stato pugnalato da uno zelota. Guardate qui… Questo mi moriva e invece… Un mago! Un mago ebreo lo ha salvato! Un mago ebreo bambino che parla latino!
– Ma dov’è il mago? – chiese Tito.
– Se ne è andato
– Dove?
– Da quella parte…
Tito corse nella direzione dove avevano visto andare il mago, una viuzza stretta e in salita, incurante dei commilitoni che lo chiamavano, incurante degli sguardi della gente, incuriositi nel vedere un legionario senza elmo e armatura, sporco di sangue che correva come un folle stringendo in mano il gladio. Vide il mago che camminava più avanti. Aumentò il passo per raggiungerlo. Lui si voltò. Sorrise. Tito si fermò ansimante davanti al ragazzo che sorridendo gli offrì con entrambe le mani le foglie di viti con dentro l'agnello arrosto che ancora stava finendo di mangiare. Il sorriso luminoso di quel ragazzo, quegli occhi… Tito gettò il gladio e tremando tese le mani per prendere l’agnello. Toccò le mani del ragazzo, sentì il loro calore, il respiro gli mancò, ebbe l’impressione di vacillare.
– Non è niente. Non avere paura. Mangia. È buono.
Tito sorrise e poi non riuscì a fermare il pianto. Mangiò con una fame nuova, un piacere mai sentito, un desiderio indefinibile che non sapeva spiegarsi. Mangiava e piangeva, piangeva ed era felice. Felice che il ragazzo lo guardasse, gli sorridesse, gli stesse vicino. Non sapeva perché.
– Chi sei tu che mi hai salvato la vita? Stavo morendo. Sei un grande mago. Cosa posso offrirti? O sei un Dio? Ma io non lo so. Voglio ringraziarti chiunque tu sia. Cosa posso fare per ringraziarti? Chiedimi qualunque cosa.
Tito si stupiva di parlare in quel modo a un ragazzo ebreo. Ma non gli importava più nulla al mondo in quel momento. Sarebbe morto felice vicino a quel ragazzo.
– Vivi. Ti chiedo di vivere. Ma io non sono un mago.
– Allora sei un Dio. Vivrò per te. Lo farò, te lo prometto. Ma ti prego: dimmi il tuo nome.
– Joshua ben Joseph – disse il ragazzo sorridendo.
Tito scosse la testa con un lieve sorriso, come a scusarsi di non capire aramaico. – Ti prego ragazzo: dimmelo in latino.
– Mi chiamo Gesù figlio di Giuseppe, legionario.