[MI186] Le solitudini imperfette
Posted: Tue Mar 25, 2025 6:07 pm
[MI186] Traccia n.1: Tutto può capovolgersi
Quel giorno m’ero svegliata di malumore, forse perché era una mattinata fosca, forse perché sentivo freddo, forse perché era domenica, forse perché avevo superato da un pezzo i quarant’anni, e sentivo di aver buttato la mia vita nella tazza del cesso, forse perché mi sentivo sola, pazzescamente sola.
Me ne ero uscita la mattina presto e avevo pensato di anticipare la messa in modo da non incontrare compaesani, che magari avevano pure tirato tardi la sera precedente, che era quella del sabato prima di Carnevale. E invece sul sagrato di Sant’Eustachio chi si presenta? Agostino Caloscurò, proprio lui in persona, di professione idraulico, elettricista, montatore di condizionatori e caldaie, insomma impiantista, non uno qualsiasi ma il più ricco e ricercato del paese, che pare niente e invece è tutto, e che subito mi restituisce la mia occhiata sbieca con un’altra che mi immagino voglia significare: ma tu cosa vuoi da me?
Ma io da lui non volevo proprio niente: quell’occhiata era capitata e basta. Non per cattiveria, pure se mi passavano tanti di quei cattivi pensieri per la testa in quei giorni, né per malizia, anche se ci avevo posato gli occhi sopra al suo bel culo sodo, ma per caso, perché quell’occhiata profonda non era stata affatto voluta. O forse sì, perché pure se lo conoscevo da quando giocavamo ragazzini all’uscita della scuola nella calle di Sant’Isidoro, pure se lui s’era sposato da quanto... saranno stati minimo quindici anni, qualche volta io a lui ancora ci penso, ci penso come quand’ero ragazzina, anzi ci penso come una donna che pensa a un uomo.
E mi salgono i sensi di colpa, perché a sua moglie Melissa la conosco anzi siamo quasi amiche, e mi assalgono i sensi di colpa perché nonostante padre Simon, colla sua malalingua e la malafede e le polemiche gratuite a ogni omelia, io sono cattolica e pure apostolica e romana, e ogni mese ci tengo ad andarmi a confessare, a svuotare la coscienza per evitare l’Inferno, Dio me ne guardi e liberi, dove invece capiterà quell’alito fetente e quelle occhiatacce gratuite attraverso la tenda del confessionale.
E adesso a don Simon che ci racconto? Minchiate, come al solito.
E solo dopo che Agostino mi aveva restituito l’occhiata mi sono fermata a pensare che quando ero ragazzina col grembiule pensavo oddio quant’è bono, e lui pareva che mi leggeva nel pensiero e con quei suoi occhi azzurri profondi e intensi ricambiava la battuta e mi diceva bella a me — a me, capite? — nonostante io bella proprio non mi ci sentivo, — e non mi ci sento manco adesso — per via delle gambe lunghe e un poco storte, e dei miei denti che mi sporgono all’infuori e della bocca stretta e senza labbra e degli occhi rotondi e quasi a palla e di un verde scolorito che pareva un’alga morta. E mentre ci guardiamo mi domando se pure lui qualche volta aveva pensato a me come un maschio pensa a una femmina.
Ah, quarant’anni, e la fine s’avvicina diceva don Baldassare Speranza, ed è proprio vero, sapete: perciò è meglio levarselo prima qualche capriccetto, prima che sia troppo tardi, o prima che i rimpianti facciano a pezzi quel che rimane della nostra, anzi della mia autostima. E pazienza se poi dovrò convivere coi rimorsi. Chissenefrega!
E siccome non riesco a togliergli gli occhi di sopra, lui che fa? Si avvicina a me — maledetto lui —, e pure se lo stavo squadrando da capo a piedi è come se sia arrivato di soppiatto e mi abbia scoperto a fare cose che non si possono fare, e tanto meno dire, mentre il mio è solo un guardare senza giochi doppi, senza pensamento, senza turbamento di sorta. Che pure c’è, mannaggia se c’è.
Guardinga, lo saluto e gli porgo la manuzza, che ritraggo subito, perché mi piglia la paura che la consideri piccola e brutta, e pure molle e sudaticcia, e invece lui mi afferra le dita, che rimangono dentro la sua manona bella callosa, dura e forte; era talvolta in queste occasioni che mi pigliava la paura, fin da che ero ragazzina, che qualcuno trovi le mie dita fredde e ossute e anche inconsistenti, oppure si accorga dei miei denti storti e all’infuori. E allora faccio per sfilarle le mie dita, e invece lui le insegue e le trattiene, ancora tra le sue, e mi sorride, e io trovo che lui invece ha proprio dei bellissimi denti, dritti e bianchissimi. Mi sento all’improvviso sopra e sotto — sarà la sua aria malmostosa — e quel profumo d’acqua di colonia da quattro soldi che spande fragranze ai quattro venti di fiori di campo, in mezzo a un tramestio di rose e finocchietto riccio, e di sottecchi mi sembra adesso che sia lui a squadrarmi da capo a piedi, e mi viene l’ansia a pensare a come sono vestita, e se qualche cosa magari mi sta fuori posto. E comincio a stirarmi la giacchetta e a sistemarmi i capelli stinti e cerco di pensare a cosa ho messo stamattina, se forse ho sbagliato outfit nella fretta, pure se io sono vestita nel solito modo in cui sempre sono vestita per la funzione domenicale, per fare gracchiare padre Simon, con una gonna lunga a coprire le ginocchia grosse e una giacca dello stesso grigio scolorato a coprire una camicetta azzurrina che mi serra il collo fino fino perché ho sempre paura che stia iniziando a raggrinzare.
«Che hai, Agostino» ci domando senza alzare la voce. «Ce l’hai con me? Lo so che avanzi tanti di quei soldi per tanti di quei lavori che ti ho fatto fare... I tubi sono tutti fradici» provo a scusarmi.
Mi fece segno che no e pure mi chiede perdono per avermi fissata, e con un fare lamentoso mi racconta che si trovava sopra pensiero, perché ha un’infinità di problemi per la testa, che i soldi non c’entravano niente, che lo sapeva che casa mia era stata un malaffare.
«Hai problemi con Agatina?»
Di nuovo scende con la testa a dir di sì, e io sospiro soddisfatta, e mi viene il coraggio e me lo tiro di fianco alla scalinata, sotto all’atrio coperto della chiesa madre, di modo che nessuno dalla piazza ci possa dire cosa, ci possa spiare.
«Quella ragazzina mi fa diventare scimunito. Ora dice che la domenica mattina, prima di alzarsi dal letto...»
E così mi racconta che Agatina vuole fare quell’affare che vogliono fare tutti i ragazzini su tictac e che ogni mattina appena alzata, in pigiama e mezza nuda col culo di fuori, deve fare la diretta per i suoi... come si chiamano?
E per sì e per no mi faccio un rapido segno della croce e gli dico che ho capito.
«Ah, ‘sti benedetti ragazzini» mormoro, come a consolarlo e veramente mi pare afflitto da questa solenne minchiata.
E mentre mi aspetto che lui se ne esca con qualche parola di circostanza prima di allontanarsi e di lasciarmi sola colla mia vita buttata nel cesso anni prima, lo vedo invece farsi cupo, più fosco di quella fosca mattinata domenicale in attesa della messa di Nostro Signore, pure se recitata da quel pederasta maligno di padre Simon, e quel silenzio, quell’attesa, m’accende l’anima di desiderio.
«E quella disgraziata di mia moglie...» dice.
«E che ha fatto Melissa» ci domando, mentre il cuore mi si accendeva di speranza.
«Invece di dirci a quella scervellata che si spicciasse a pigliare il diploma da estetista che il papà le mette su una bella attività con tanto di insegna luminosa a Latisana, ecco lei...»
E questa volta si sfoga, mi dice che si sente solo, anzi solissimo, perché sua moglie è una cretina e una pettegola, e alla figlia le ha messo in testa che farà l’attrice, la cantante o una star con l’influenza.
«Con l’influenza?»
«Ma sì, quelle cose dei ragazzini su trictrac» dice mandandole a quel paese col bel braccio nerboruto di chi svita e avvita mille tubi al dì.
E anche questa volta faccio cenno di aver capito, mentre non ho capito un anonimo tubo e di più non me ne frega niente di Melissa e manco di Agatina, e me lo guardo tutto da vicino il mio Caloscurò, che Agostino è stato da sempre proprio bello, anzi un adone, il più figo del paese.
«Così per non avere la testa rintronata dalle loro urla e dalle riprese del culo di mia figlia me ne sono uscito, che magari forse per la messa di mezzogiorno ce la fanno a uscire da quel grande fratello che è diventata casa mia. Ah, come mi sento solo» e mi pare che se ne è pentito subito di avermi fatto quella che pare una confessione di colpa e di mancanza di paterna autorevolezza, e di umana debolezza.
«Se mi vedesse Umberto Bossi, qual è la colpa...»
Ma quale colpa? Sei bello, ricco e scimunito. Di quale colpa via cianciando? E nervosa nera apro la borsetta e ci frugo dentro finché nella mano non ci rimane il portasigarette lucido del papà dal quale afferro una sigaretta ri go ro sa men te senza filtro. Gliene ne offro una, e lui la sua l’accende dalla mia con le sue mani tra le mie, come a fare un nido di colomba innamorata, e ne aspira il fumo che sordido esce dalle sue labbra carnose per entrare dentro alle mie pittate di un rosso tumefatto, e mi viene da pensare che è vero quel che si sussurra in paese, che fuma come un turco, quaranta o sessanta sigarette al giorno, e poi non so per come o perché mi ricordo che mormorano delle corna fattegli da Melissa, quando lui si trova fuori per i suoi giri da impiantista indefesso e senza orari.
È la medesima vocina mi sussurra di non avere sensi di colpa.
«Pure la vita mia è stata un inferno» gli dico sibilando come una biscia.
E non so perché anche a me mi scaturisce la voglia di confessarmi e ci racconto che quand’ero piccola di soldi a casa non ce n’erano, che quel disgraziato di mio padre si beveva tutti i quattrini a grappe e zammù e pensava solo a bottiglia e bicchiere e così a me mi era venuta la certezza della vocazione.
«Per questo ti chiamavamo la monaca, a scuola?»
Gli faccio cenno di sì e gli rispondo che ci avevo provato a mantenermi fedele a questa vocazione, anche ormai grandicella.
«Per non venir meno al mio volto continuamente ispirato, io che poi ero bruttina...»
«Ma che dici, Clé? Da ragazzina io ti trovavo bellissima. Distante ma bellissima. E anche ora.»
Sento come una mano che mi porta su nel cielo, sempre più in alto, e quest’ebbrezza non fa altro che accelerare la mia confessione.«Così ogni notte, dopo la rimboccatura delle coperte, iniziavo a recitare le mie preghiere, ma immancabilmente gli occhi mi si perdevano sul soffitto bianco che mi sovrastava come un paradiso perduto, che però rimaneva bianco, senza cristi senza madonne senza cherubini, tranne quando pensavo a te, Agostino mio, bello come un angelo, buono come un santo, comprensivo come un padreterno, forte come un Maciste.
E lo vedo che sorride e mi pare che mi voglia regalare un bacio, che però non arriva.
E così gli racconto che mai una volta, dalle tante preghiere notturne, avevo sentito scaturire una fiamma, dell’ardore, il calore della fede, quando invece l’unico tepore mi veniva dalla borsa d’acqua calda stretta al petto.
Il ricordo mi mette di malumore, Agostino mi fissava, l’attimo era sfumato e non sapeva cosa dire, faccio spallucce e a labbra strette, tra un’aspirata e l’altra della mia senza filtro, ci confesso pure che mi rivolgevo a Sant’Antonio e a San Vincenzo e invocavo la loro protezione, oltre a quella di un gruppetto di santi che allora sentivo più affidabili e vicini, affinché mi mantenessero pura e mi allontanassero le tentazioni di questo mondo.
«Tutte minchiate» dico, riempiendo di voce e fumo l’aria del sagrato, che si colorò d’inferno.
È ad Agostino che mi rivolgo ora: gli afferro la mano e gliela stringo forte.
«I santi, Gesù Cristo, la Chiesa, le messe domenicali, padre Simon… sono tutte minchiate.»
«Ma che dici, Clé» mormora il pupo, e pare sinceramente scandalizzato.
«Quando più grandicella passeggiavo nel corso, gli occhi socchiusi e il capo chinato, spiavo gli uomini; e me li ricordo tutti gli sguardi colmi di lascivia dei miei coetanei maschi, che deviavano in modo inesorabile all’indirizzo delle amiche di fianco.
Erano occhi abituati a spogliare, tutte tranne me» dico, colma di rammarico, carica di rancore, stremata dal livore.
«Solo tu facevi eccezione, eh Agostì? Solo tu mi guardavi come gli altri guardavano le meglio amiche mie.»
«Che vai pensando, Clé. A quel tempo eravamo giovani e cretini e vero è che io ci pensavo a te. Ma tu stavi sempre sulle tue e dicevi che quella notte avevi parlato con Dio e mi pareva di far sacrilegio a parlarti pure io, che a Dio ci ho creduto e ci credo come allora. Poi arrivò Melissa e, seppure adesso ci voglio bene, non la amo più come a quei tempi; lei non mi capisce, non ci siamo mai parlati veramente io e lei, non ci siamo mai capiti né compresi… siamo due estranei che vivono insieme» infine mi rivela.
E con la sua mano scivola a stringere la mia, che ricambia quella stretta.
«Ma con te è diverso, con te non sono solo e sento di poterti rivelare il mio segreto.»
Si gira e stringe il suo corpo al mio, serrato stretto al mio. E sento che se solo mi baciasse io farei l’amore con lui là, in quel momento, di fronte a santi e babbuini, pure dentro la chiesa di Nostro Signore, davanti a tutti, se me lo chiedesse pure davanti a quello zozzone isterico di padre Simon.
«Dimmi tutto quello che vuoi, Agostino. Io ti saprò ascoltare, io ti saprò capire… Liberati dei tuoi rimorsi, alleggerisciti l’anima dei tuoi segreti.»
«L’hai voluto tu, Melissa» e sbaglia nome. O forse no, che a pensare male si fa sempre centro. Mi bacia profondamente con la sua lingua tra la mia e poi avvicina la sua bocca al mio orecchio e soavemente mi sussurra: «A me mi piacciono gli uomini, Clé, mica le donne.»
Quel giorno m’ero svegliata di malumore, forse perché era una mattinata fosca, forse perché sentivo freddo, forse perché era domenica, forse perché avevo superato da un pezzo i quarant’anni, e sentivo di aver buttato la mia vita nella tazza del cesso, forse perché mi sentivo sola, pazzescamente sola.
Me ne ero uscita la mattina presto e avevo pensato di anticipare la messa in modo da non incontrare compaesani, che magari avevano pure tirato tardi la sera precedente, che era quella del sabato prima di Carnevale. E invece sul sagrato di Sant’Eustachio chi si presenta? Agostino Caloscurò, proprio lui in persona, di professione idraulico, elettricista, montatore di condizionatori e caldaie, insomma impiantista, non uno qualsiasi ma il più ricco e ricercato del paese, che pare niente e invece è tutto, e che subito mi restituisce la mia occhiata sbieca con un’altra che mi immagino voglia significare: ma tu cosa vuoi da me?
Ma io da lui non volevo proprio niente: quell’occhiata era capitata e basta. Non per cattiveria, pure se mi passavano tanti di quei cattivi pensieri per la testa in quei giorni, né per malizia, anche se ci avevo posato gli occhi sopra al suo bel culo sodo, ma per caso, perché quell’occhiata profonda non era stata affatto voluta. O forse sì, perché pure se lo conoscevo da quando giocavamo ragazzini all’uscita della scuola nella calle di Sant’Isidoro, pure se lui s’era sposato da quanto... saranno stati minimo quindici anni, qualche volta io a lui ancora ci penso, ci penso come quand’ero ragazzina, anzi ci penso come una donna che pensa a un uomo.
E mi salgono i sensi di colpa, perché a sua moglie Melissa la conosco anzi siamo quasi amiche, e mi assalgono i sensi di colpa perché nonostante padre Simon, colla sua malalingua e la malafede e le polemiche gratuite a ogni omelia, io sono cattolica e pure apostolica e romana, e ogni mese ci tengo ad andarmi a confessare, a svuotare la coscienza per evitare l’Inferno, Dio me ne guardi e liberi, dove invece capiterà quell’alito fetente e quelle occhiatacce gratuite attraverso la tenda del confessionale.
E adesso a don Simon che ci racconto? Minchiate, come al solito.
E solo dopo che Agostino mi aveva restituito l’occhiata mi sono fermata a pensare che quando ero ragazzina col grembiule pensavo oddio quant’è bono, e lui pareva che mi leggeva nel pensiero e con quei suoi occhi azzurri profondi e intensi ricambiava la battuta e mi diceva bella a me — a me, capite? — nonostante io bella proprio non mi ci sentivo, — e non mi ci sento manco adesso — per via delle gambe lunghe e un poco storte, e dei miei denti che mi sporgono all’infuori e della bocca stretta e senza labbra e degli occhi rotondi e quasi a palla e di un verde scolorito che pareva un’alga morta. E mentre ci guardiamo mi domando se pure lui qualche volta aveva pensato a me come un maschio pensa a una femmina.
Ah, quarant’anni, e la fine s’avvicina diceva don Baldassare Speranza, ed è proprio vero, sapete: perciò è meglio levarselo prima qualche capriccetto, prima che sia troppo tardi, o prima che i rimpianti facciano a pezzi quel che rimane della nostra, anzi della mia autostima. E pazienza se poi dovrò convivere coi rimorsi. Chissenefrega!
E siccome non riesco a togliergli gli occhi di sopra, lui che fa? Si avvicina a me — maledetto lui —, e pure se lo stavo squadrando da capo a piedi è come se sia arrivato di soppiatto e mi abbia scoperto a fare cose che non si possono fare, e tanto meno dire, mentre il mio è solo un guardare senza giochi doppi, senza pensamento, senza turbamento di sorta. Che pure c’è, mannaggia se c’è.
Guardinga, lo saluto e gli porgo la manuzza, che ritraggo subito, perché mi piglia la paura che la consideri piccola e brutta, e pure molle e sudaticcia, e invece lui mi afferra le dita, che rimangono dentro la sua manona bella callosa, dura e forte; era talvolta in queste occasioni che mi pigliava la paura, fin da che ero ragazzina, che qualcuno trovi le mie dita fredde e ossute e anche inconsistenti, oppure si accorga dei miei denti storti e all’infuori. E allora faccio per sfilarle le mie dita, e invece lui le insegue e le trattiene, ancora tra le sue, e mi sorride, e io trovo che lui invece ha proprio dei bellissimi denti, dritti e bianchissimi. Mi sento all’improvviso sopra e sotto — sarà la sua aria malmostosa — e quel profumo d’acqua di colonia da quattro soldi che spande fragranze ai quattro venti di fiori di campo, in mezzo a un tramestio di rose e finocchietto riccio, e di sottecchi mi sembra adesso che sia lui a squadrarmi da capo a piedi, e mi viene l’ansia a pensare a come sono vestita, e se qualche cosa magari mi sta fuori posto. E comincio a stirarmi la giacchetta e a sistemarmi i capelli stinti e cerco di pensare a cosa ho messo stamattina, se forse ho sbagliato outfit nella fretta, pure se io sono vestita nel solito modo in cui sempre sono vestita per la funzione domenicale, per fare gracchiare padre Simon, con una gonna lunga a coprire le ginocchia grosse e una giacca dello stesso grigio scolorato a coprire una camicetta azzurrina che mi serra il collo fino fino perché ho sempre paura che stia iniziando a raggrinzare.
«Che hai, Agostino» ci domando senza alzare la voce. «Ce l’hai con me? Lo so che avanzi tanti di quei soldi per tanti di quei lavori che ti ho fatto fare... I tubi sono tutti fradici» provo a scusarmi.
Mi fece segno che no e pure mi chiede perdono per avermi fissata, e con un fare lamentoso mi racconta che si trovava sopra pensiero, perché ha un’infinità di problemi per la testa, che i soldi non c’entravano niente, che lo sapeva che casa mia era stata un malaffare.
«Hai problemi con Agatina?»
Di nuovo scende con la testa a dir di sì, e io sospiro soddisfatta, e mi viene il coraggio e me lo tiro di fianco alla scalinata, sotto all’atrio coperto della chiesa madre, di modo che nessuno dalla piazza ci possa dire cosa, ci possa spiare.
«Quella ragazzina mi fa diventare scimunito. Ora dice che la domenica mattina, prima di alzarsi dal letto...»
E così mi racconta che Agatina vuole fare quell’affare che vogliono fare tutti i ragazzini su tictac e che ogni mattina appena alzata, in pigiama e mezza nuda col culo di fuori, deve fare la diretta per i suoi... come si chiamano?
E per sì e per no mi faccio un rapido segno della croce e gli dico che ho capito.
«Ah, ‘sti benedetti ragazzini» mormoro, come a consolarlo e veramente mi pare afflitto da questa solenne minchiata.
E mentre mi aspetto che lui se ne esca con qualche parola di circostanza prima di allontanarsi e di lasciarmi sola colla mia vita buttata nel cesso anni prima, lo vedo invece farsi cupo, più fosco di quella fosca mattinata domenicale in attesa della messa di Nostro Signore, pure se recitata da quel pederasta maligno di padre Simon, e quel silenzio, quell’attesa, m’accende l’anima di desiderio.
«E quella disgraziata di mia moglie...» dice.
«E che ha fatto Melissa» ci domando, mentre il cuore mi si accendeva di speranza.
«Invece di dirci a quella scervellata che si spicciasse a pigliare il diploma da estetista che il papà le mette su una bella attività con tanto di insegna luminosa a Latisana, ecco lei...»
E questa volta si sfoga, mi dice che si sente solo, anzi solissimo, perché sua moglie è una cretina e una pettegola, e alla figlia le ha messo in testa che farà l’attrice, la cantante o una star con l’influenza.
«Con l’influenza?»
«Ma sì, quelle cose dei ragazzini su trictrac» dice mandandole a quel paese col bel braccio nerboruto di chi svita e avvita mille tubi al dì.
E anche questa volta faccio cenno di aver capito, mentre non ho capito un anonimo tubo e di più non me ne frega niente di Melissa e manco di Agatina, e me lo guardo tutto da vicino il mio Caloscurò, che Agostino è stato da sempre proprio bello, anzi un adone, il più figo del paese.
«Così per non avere la testa rintronata dalle loro urla e dalle riprese del culo di mia figlia me ne sono uscito, che magari forse per la messa di mezzogiorno ce la fanno a uscire da quel grande fratello che è diventata casa mia. Ah, come mi sento solo» e mi pare che se ne è pentito subito di avermi fatto quella che pare una confessione di colpa e di mancanza di paterna autorevolezza, e di umana debolezza.
«Se mi vedesse Umberto Bossi, qual è la colpa...»
Ma quale colpa? Sei bello, ricco e scimunito. Di quale colpa via cianciando? E nervosa nera apro la borsetta e ci frugo dentro finché nella mano non ci rimane il portasigarette lucido del papà dal quale afferro una sigaretta ri go ro sa men te senza filtro. Gliene ne offro una, e lui la sua l’accende dalla mia con le sue mani tra le mie, come a fare un nido di colomba innamorata, e ne aspira il fumo che sordido esce dalle sue labbra carnose per entrare dentro alle mie pittate di un rosso tumefatto, e mi viene da pensare che è vero quel che si sussurra in paese, che fuma come un turco, quaranta o sessanta sigarette al giorno, e poi non so per come o perché mi ricordo che mormorano delle corna fattegli da Melissa, quando lui si trova fuori per i suoi giri da impiantista indefesso e senza orari.
È la medesima vocina mi sussurra di non avere sensi di colpa.
«Pure la vita mia è stata un inferno» gli dico sibilando come una biscia.
E non so perché anche a me mi scaturisce la voglia di confessarmi e ci racconto che quand’ero piccola di soldi a casa non ce n’erano, che quel disgraziato di mio padre si beveva tutti i quattrini a grappe e zammù e pensava solo a bottiglia e bicchiere e così a me mi era venuta la certezza della vocazione.
«Per questo ti chiamavamo la monaca, a scuola?»
Gli faccio cenno di sì e gli rispondo che ci avevo provato a mantenermi fedele a questa vocazione, anche ormai grandicella.
«Per non venir meno al mio volto continuamente ispirato, io che poi ero bruttina...»
«Ma che dici, Clé? Da ragazzina io ti trovavo bellissima. Distante ma bellissima. E anche ora.»
Sento come una mano che mi porta su nel cielo, sempre più in alto, e quest’ebbrezza non fa altro che accelerare la mia confessione.«Così ogni notte, dopo la rimboccatura delle coperte, iniziavo a recitare le mie preghiere, ma immancabilmente gli occhi mi si perdevano sul soffitto bianco che mi sovrastava come un paradiso perduto, che però rimaneva bianco, senza cristi senza madonne senza cherubini, tranne quando pensavo a te, Agostino mio, bello come un angelo, buono come un santo, comprensivo come un padreterno, forte come un Maciste.
E lo vedo che sorride e mi pare che mi voglia regalare un bacio, che però non arriva.
E così gli racconto che mai una volta, dalle tante preghiere notturne, avevo sentito scaturire una fiamma, dell’ardore, il calore della fede, quando invece l’unico tepore mi veniva dalla borsa d’acqua calda stretta al petto.
Il ricordo mi mette di malumore, Agostino mi fissava, l’attimo era sfumato e non sapeva cosa dire, faccio spallucce e a labbra strette, tra un’aspirata e l’altra della mia senza filtro, ci confesso pure che mi rivolgevo a Sant’Antonio e a San Vincenzo e invocavo la loro protezione, oltre a quella di un gruppetto di santi che allora sentivo più affidabili e vicini, affinché mi mantenessero pura e mi allontanassero le tentazioni di questo mondo.
«Tutte minchiate» dico, riempiendo di voce e fumo l’aria del sagrato, che si colorò d’inferno.
È ad Agostino che mi rivolgo ora: gli afferro la mano e gliela stringo forte.
«I santi, Gesù Cristo, la Chiesa, le messe domenicali, padre Simon… sono tutte minchiate.»
«Ma che dici, Clé» mormora il pupo, e pare sinceramente scandalizzato.
«Quando più grandicella passeggiavo nel corso, gli occhi socchiusi e il capo chinato, spiavo gli uomini; e me li ricordo tutti gli sguardi colmi di lascivia dei miei coetanei maschi, che deviavano in modo inesorabile all’indirizzo delle amiche di fianco.
Erano occhi abituati a spogliare, tutte tranne me» dico, colma di rammarico, carica di rancore, stremata dal livore.
«Solo tu facevi eccezione, eh Agostì? Solo tu mi guardavi come gli altri guardavano le meglio amiche mie.»
«Che vai pensando, Clé. A quel tempo eravamo giovani e cretini e vero è che io ci pensavo a te. Ma tu stavi sempre sulle tue e dicevi che quella notte avevi parlato con Dio e mi pareva di far sacrilegio a parlarti pure io, che a Dio ci ho creduto e ci credo come allora. Poi arrivò Melissa e, seppure adesso ci voglio bene, non la amo più come a quei tempi; lei non mi capisce, non ci siamo mai parlati veramente io e lei, non ci siamo mai capiti né compresi… siamo due estranei che vivono insieme» infine mi rivela.
E con la sua mano scivola a stringere la mia, che ricambia quella stretta.
«Ma con te è diverso, con te non sono solo e sento di poterti rivelare il mio segreto.»
Si gira e stringe il suo corpo al mio, serrato stretto al mio. E sento che se solo mi baciasse io farei l’amore con lui là, in quel momento, di fronte a santi e babbuini, pure dentro la chiesa di Nostro Signore, davanti a tutti, se me lo chiedesse pure davanti a quello zozzone isterico di padre Simon.
«Dimmi tutto quello che vuoi, Agostino. Io ti saprò ascoltare, io ti saprò capire… Liberati dei tuoi rimorsi, alleggerisciti l’anima dei tuoi segreti.»
«L’hai voluto tu, Melissa» e sbaglia nome. O forse no, che a pensare male si fa sempre centro. Mi bacia profondamente con la sua lingua tra la mia e poi avvicina la sua bocca al mio orecchio e soavemente mi sussurra: «A me mi piacciono gli uomini, Clé, mica le donne.»