[Lab16] Mentre il cielo si spegne
Posted: Mon Feb 03, 2025 8:44 am
Cinquanta cc d’aria nella siringa. Aria che dà la vita, aria che dà la morte. L’infermiera pratica un minuscolo foro nel tubicino della flebo.
«Rilassati. Fra poco starai bene.»
Esce dalla stanza in punta di piedi per rientrarci poco dopo e lanciare l’allarme.
«Dottore, il paziente è cianotico.»
L’uomo, il braccio penzoloni, ha le labbra di un colore blu cobalto e gli occhi sbarrati fissi al soffitto.
«Ora del decesso…»
Nei corridoi della clinica c’è un sentore di disinfettante che non riesce a coprire quello di urina e malattia. Le colleghe abbassano lo sguardo per non incontrare il suo. Ne è sicura.
Il bianco della divisa le dona. Snella e atletica, gli occhi chiari, i capelli ricci e vagamente ramati raccolti in una coda alta che mette in risalto un collo da modella di Modigliani. E poi, cosa non di poco conto, gode la stima del giovane dottor Fiestri e, prima o poi, conquisterà anche quella della dottoressa Landi, primario del reparto. Il primo incarico dopo la laurea e, dopo neppure un anno, si è già fatta notare più di certe infermiere che lavorano nella clinica da una vita.
Il campanello suona a intermittenza come la luce lampeggiante sopra la porta.
Verifica il carrello delle medicazioni: guanti sterili, disinfettante, siringhe, garze, traverse monouso. Lo spinge verso la camera numero diciotto. L’uomo respira a fatica. Quando la vede entrare le rivolge un mezzo sorriso.
Teresa si avvicina al letto e spegne il dispositivo di chiamata.
«Che succede, Gino?»
«Ho l’affanno, ma il dottore dice che sto meglio. Sarà vero?»
«Certo che è vero! I dottori mica dicono le bugie…»
Nell’ufficio della dottoressa Landi non ci sono finestre. Luce artificiale. Fredda. Aria di piombo. Sulla scrivania, in bella vista, la pagina di cronaca titola in grassetto: “Morti sospette in corsia”.
Apre il fascicolo, sfoglia il curriculum e la scheda di valutazione. Ottimi voti. Puntuale. Ordinata. Efficiente. Ligia alle regole. Proattiva. Sensibile coi parenti, affidabile coi pazienti. Legge tenendo il segno con l’indice e annuendo col capo. Poi, solleva lo sguardo e la invita a sedersi.
«Mi dica, lei ha mai notato qualcosa di strano, l’atteggiamento anomalo di qualche collega. Le sarei davvero grata se avesse qualche informazione da darmi.»
«Io no… non saprei.»
«Guardi, Teresa, non le sto chiedendo di accusare nessuno. Solo di prestare attenzione e riferirmi se vede qualche comportamento inappropriato. Posso contare sulla sua discrezione?»
Pum pum. Pum pum. Pum pum. Ritmo sinusale.
«Certo.»
Le persone che progrediscono nella vita sono coloro che si danno da fare per trovare le circostanze che vogliono e, se non le trovano, le creano.
Teresa ha imparato a memoria la frase di George Bernard Shaw e la lezione insita in quelle parole. Nell’intimità della stanza da bagno, la ripete ogni mattina a voce bassa davanti allo specchio lasciando il rubinetto della doccia aperto. Con la voce attenuata dallo scrosciare dell’acqua, scandisce le parole una a una sgranandole come un rosario mentre i ricordi, densi come vapore, saturano l’ambiente. Si avvicina allo specchio per disegnare un fiore col dito. Resta a fissare l’immagine finché quella di scioglie in lacrime che rigano la superficie.
Aveva solo sedici anni quando incontrò Bernard Show, così lo chiamò, alla stazione centrale durante uno dei suoi pomeriggi “a zonzo senza meta.”
Il barbone sedeva su un cumulo di cartoni in un angolo del piazzale antistante l’ingresso principale. I pantaloni pisciati, la barba lunga non gl’impedivano di mostrare una certa fierezza nello sguardo mentre tendeva la mano. Lei si frugò in tasca, ma non ci trovò altro che il solito panino; una specie di medicina. Se non lo avesse mangiato, sarebbero stati guai una volta davanti alla bilancia: sua madre si comportava come la strega di Hansel e Gretel, contava e registrava quotidianamente il suo peso per riferirlo puntualmente alla doc. Incrociò lo sguardo del senzatetto senza poter fare altro che allargare le braccia impotente.
Con un cenno della mano, l’uomo l’invitò ad avvicinarsi.
“Mi spiace, non ho spiccioli.” Tirò fuori dalla tasca il cartoccio unto “Possiamo dividerci questo, se ti va.”
Lo sguardo di lui scivolò dalle sue gambe sottili alle braccia esili fino a raggiungere gli occhi leggermente infossati: due biglie azzurre in un volto pallido. Per tutta risposta, si mise a frugare dentro a una bisaccia lurida custodita sotto a uno dei cartoni.
Teresa lo guardava come ipnotizzata.
“Certe parole sfamano più del pane” le disse, infine, porgendole un quaderno dalle pagine sporche e rigonfie. “Coraggio, prendilo, ne hai più bisogno di me.”
Ricorda che gli sorrise, prese l’oggetto e scappò senza dire niente.
Si trattava di un brogliaccio pieno di pensieri sconnessi scritti a penna ma con una calligrafia insospettabilmente ordinata. Nella prima pagina campeggiava la frase di Bernard Shaw. La lesse così tante volte da imprimerla nell’anima. Se avesse potuto, se la la sarebbe fatta tatuare sul petto. Nei giorni successivi tornò più volte a cercare il barbone per ringraziarlo, ma non lo trovò più.
Teresa chiude la sponda del letto e rimuove il paravento: l’ultimo atto prima di lasciare la camera della signora Ada.
Cammina a passo spedito nel corridoio, il corpo dritto, lo sguardo fiero. La spalla destra irradia ancora il calore buono dell’amichevole pacca che il giovane dottor Fiestri le ha dato di fronte agli altri colleghi. Una sorta d’incoraggiamento, un elogio pubblico all’infermiera accortasi per prima dello strano colorito della paziente. Non che l’allarme sia servito a salvare la povera Ada.
“Fare l’infermiera? Ma cosa ti salta in mente?”
“Potrei aiutare le persone. Non saresti contenta, mamma?
La donna scosse la testa. “Io avrei bisogno di qualcuno che mi desse una mano con te!”
Eppure, dopo la cura, era arrivata a pesare quarantotto chili. Le erano persino tornate le mestruazioni. Il tentato suicidio? Macché! Si era trattato solo di un banale incidente. Possibile che tutti abbiano testimoniato che si era buttata di proposito sotto quell’auto? Ma quale malata di mente! Ma quale depressione! Era solo un po’ triste. Ogni tanto. Forse un po’ strana, quello sì. Glielo dicevano tutti fin da quando aveva memoria e col tempo aveva finito per convincersene anche lei, ma poi era arrivato Bernard Show a darle il coraggio di cambiare.
«No, non ha sofferto.» risponde alla figlia in lacrime.
La donna tira su col naso: «Lo prenda. Sono sicura che mia madre avrebbe piacere che lo avesse lei. L’apprezzava molto, sa? C’è modo e modo di lavorare…» le porge la copia di “Ogni tramonto è un’alba” da cui l’anziana, negli ultimi tempi, non si separava mai.
«Grazie, lo apprezzo molto. Era buona come un angelo la sua mamma. Ha fatto una morte santa, mi creda.»
Sorriso.
«Almeno non è una Bibbia.»
Teresa guarda storto suo marito. «La signora era atea.»
«Certo che negli ultimi tempi avete perso parecchi clienti alla tua clinica.»
«Tutti pazienti anziani. È normale.»
«E quel ragazzo? Quello di una decina di giorni fa…»
Teresa sbuffa, apre il frigorifero e controlla il cassetto della verdura: quattro zucchine e due carote. Solleva lo sguardo al ripiano superiore dove occhieggia un quarto di pecorino stagionato. La cena è assicurata. Ora può rispondere a suo marito.
«Era pieno di metastasi, poveretto. Ha avuto fortuna ad andarsene così, quasi senza accorgersene. Non hai idea di quanto facciano soffrire certe terapie. Vieni a tavola, dai.»
La serranda semi aperta lascia filtrare dai vetri gli ultimi raggi della fredda giornata invernale e le pareti della camera si tingono di un arancione vivido che contrasta col pallore del paziente. Riconosce la bisaccia posata sulla sedia. Sente il battito accelerare.
Gli hanno fatto la barba, lo hanno lavato, ma, anche se sono trascorsi molti anni, è sicura che sia proprio il suo Bernard Show.
Nella cartella non c’è il nome: non aveva documenti.
L’uomo borbotta qualcosa d’incomprensibile.
«Ciao. Mi riconosci?»
Silenzio.
Lei, allora si avvicina e gli sussurra: «Ti ringrazio per avermi dato il tuo quaderno. Mi ha cambiato la vita, sai?»
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Si volta, la fissa con gli occhi acquosi. [/font]
«Voglio morire... aiutami.» le dice con un filo di voce.
La richiesta è come un lampo che squarcia il buio all’improvviso. Una galleria di volti si affaccia alla memoria. Certo, ne ha aiutati tanti ad andarsene, anche se loro non glielo avevano chiesto. Ma erano andati via felici, senza soffrire. Ne era sicura. Si è fatta notare, è stata brava, tutti la stimano. Sua madre aveva torto a giudicarla male. Non aveva fiducia in lei, ma quello sconosciuto no… Lui l’aveva davvero aiutata e ora avrebbe dovuto ricambiare.
Consapevolezza. Crollo verticale. Perdere Bernard sarebbe come staccarsi dalla parete di una roccia scalata a mani nude e trovare di nuovo il precipizio.
Si avvicina alla finestra e osserva il cielo mentre si spegne. Immaginare Bertrand vivo da qualche parte le ha sempre dato forza. Un giorno lo avrebbe incontrato di nuovo, di questo era certa, ma non doveva succedere in questa camera. Non così.
Forse sua madre aveva ragione: fare l’infermiera non era una professione adatta a lei. Forse era davvero malata…
Lo guarda, allarga le braccia e gli dice: «Non posso farlo… Scusami.»
L’allarme risuona intermittente nel corridoio.
«Dottore, lo salverà, vero?»
Nell’ufficio della dottoressa Landi non ci sono finestre, la luce artificiale è fredda e l’aria è di piombo. Indossa gli occhiali, Apre la busta e legge sottovoce la lettera seguendo le parole con l’indice.
Teresa chiude l’armadietto e, abbandonato il camice sulla sedia, esce senza voltarsi indietro.
«Rilassati. Fra poco starai bene.»
Esce dalla stanza in punta di piedi per rientrarci poco dopo e lanciare l’allarme.
«Dottore, il paziente è cianotico.»
L’uomo, il braccio penzoloni, ha le labbra di un colore blu cobalto e gli occhi sbarrati fissi al soffitto.
«Ora del decesso…»
Nei corridoi della clinica c’è un sentore di disinfettante che non riesce a coprire quello di urina e malattia. Le colleghe abbassano lo sguardo per non incontrare il suo. Ne è sicura.
Il bianco della divisa le dona. Snella e atletica, gli occhi chiari, i capelli ricci e vagamente ramati raccolti in una coda alta che mette in risalto un collo da modella di Modigliani. E poi, cosa non di poco conto, gode la stima del giovane dottor Fiestri e, prima o poi, conquisterà anche quella della dottoressa Landi, primario del reparto. Il primo incarico dopo la laurea e, dopo neppure un anno, si è già fatta notare più di certe infermiere che lavorano nella clinica da una vita.
Il campanello suona a intermittenza come la luce lampeggiante sopra la porta.
Verifica il carrello delle medicazioni: guanti sterili, disinfettante, siringhe, garze, traverse monouso. Lo spinge verso la camera numero diciotto. L’uomo respira a fatica. Quando la vede entrare le rivolge un mezzo sorriso.
Teresa si avvicina al letto e spegne il dispositivo di chiamata.
«Che succede, Gino?»
«Ho l’affanno, ma il dottore dice che sto meglio. Sarà vero?»
«Certo che è vero! I dottori mica dicono le bugie…»
Nell’ufficio della dottoressa Landi non ci sono finestre. Luce artificiale. Fredda. Aria di piombo. Sulla scrivania, in bella vista, la pagina di cronaca titola in grassetto: “Morti sospette in corsia”.
Apre il fascicolo, sfoglia il curriculum e la scheda di valutazione. Ottimi voti. Puntuale. Ordinata. Efficiente. Ligia alle regole. Proattiva. Sensibile coi parenti, affidabile coi pazienti. Legge tenendo il segno con l’indice e annuendo col capo. Poi, solleva lo sguardo e la invita a sedersi.
«Mi dica, lei ha mai notato qualcosa di strano, l’atteggiamento anomalo di qualche collega. Le sarei davvero grata se avesse qualche informazione da darmi.»
«Io no… non saprei.»
«Guardi, Teresa, non le sto chiedendo di accusare nessuno. Solo di prestare attenzione e riferirmi se vede qualche comportamento inappropriato. Posso contare sulla sua discrezione?»
Pum pum. Pum pum. Pum pum. Ritmo sinusale.
«Certo.»
Le persone che progrediscono nella vita sono coloro che si danno da fare per trovare le circostanze che vogliono e, se non le trovano, le creano.
Teresa ha imparato a memoria la frase di George Bernard Shaw e la lezione insita in quelle parole. Nell’intimità della stanza da bagno, la ripete ogni mattina a voce bassa davanti allo specchio lasciando il rubinetto della doccia aperto. Con la voce attenuata dallo scrosciare dell’acqua, scandisce le parole una a una sgranandole come un rosario mentre i ricordi, densi come vapore, saturano l’ambiente. Si avvicina allo specchio per disegnare un fiore col dito. Resta a fissare l’immagine finché quella di scioglie in lacrime che rigano la superficie.
Aveva solo sedici anni quando incontrò Bernard Show, così lo chiamò, alla stazione centrale durante uno dei suoi pomeriggi “a zonzo senza meta.”
Il barbone sedeva su un cumulo di cartoni in un angolo del piazzale antistante l’ingresso principale. I pantaloni pisciati, la barba lunga non gl’impedivano di mostrare una certa fierezza nello sguardo mentre tendeva la mano. Lei si frugò in tasca, ma non ci trovò altro che il solito panino; una specie di medicina. Se non lo avesse mangiato, sarebbero stati guai una volta davanti alla bilancia: sua madre si comportava come la strega di Hansel e Gretel, contava e registrava quotidianamente il suo peso per riferirlo puntualmente alla doc. Incrociò lo sguardo del senzatetto senza poter fare altro che allargare le braccia impotente.
Con un cenno della mano, l’uomo l’invitò ad avvicinarsi.
“Mi spiace, non ho spiccioli.” Tirò fuori dalla tasca il cartoccio unto “Possiamo dividerci questo, se ti va.”
Lo sguardo di lui scivolò dalle sue gambe sottili alle braccia esili fino a raggiungere gli occhi leggermente infossati: due biglie azzurre in un volto pallido. Per tutta risposta, si mise a frugare dentro a una bisaccia lurida custodita sotto a uno dei cartoni.
Teresa lo guardava come ipnotizzata.
“Certe parole sfamano più del pane” le disse, infine, porgendole un quaderno dalle pagine sporche e rigonfie. “Coraggio, prendilo, ne hai più bisogno di me.”
Ricorda che gli sorrise, prese l’oggetto e scappò senza dire niente.
Si trattava di un brogliaccio pieno di pensieri sconnessi scritti a penna ma con una calligrafia insospettabilmente ordinata. Nella prima pagina campeggiava la frase di Bernard Shaw. La lesse così tante volte da imprimerla nell’anima. Se avesse potuto, se la la sarebbe fatta tatuare sul petto. Nei giorni successivi tornò più volte a cercare il barbone per ringraziarlo, ma non lo trovò più.
Teresa chiude la sponda del letto e rimuove il paravento: l’ultimo atto prima di lasciare la camera della signora Ada.
Cammina a passo spedito nel corridoio, il corpo dritto, lo sguardo fiero. La spalla destra irradia ancora il calore buono dell’amichevole pacca che il giovane dottor Fiestri le ha dato di fronte agli altri colleghi. Una sorta d’incoraggiamento, un elogio pubblico all’infermiera accortasi per prima dello strano colorito della paziente. Non che l’allarme sia servito a salvare la povera Ada.
“Fare l’infermiera? Ma cosa ti salta in mente?”
“Potrei aiutare le persone. Non saresti contenta, mamma?
La donna scosse la testa. “Io avrei bisogno di qualcuno che mi desse una mano con te!”
Eppure, dopo la cura, era arrivata a pesare quarantotto chili. Le erano persino tornate le mestruazioni. Il tentato suicidio? Macché! Si era trattato solo di un banale incidente. Possibile che tutti abbiano testimoniato che si era buttata di proposito sotto quell’auto? Ma quale malata di mente! Ma quale depressione! Era solo un po’ triste. Ogni tanto. Forse un po’ strana, quello sì. Glielo dicevano tutti fin da quando aveva memoria e col tempo aveva finito per convincersene anche lei, ma poi era arrivato Bernard Show a darle il coraggio di cambiare.
«No, non ha sofferto.» risponde alla figlia in lacrime.
La donna tira su col naso: «Lo prenda. Sono sicura che mia madre avrebbe piacere che lo avesse lei. L’apprezzava molto, sa? C’è modo e modo di lavorare…» le porge la copia di “Ogni tramonto è un’alba” da cui l’anziana, negli ultimi tempi, non si separava mai.
«Grazie, lo apprezzo molto. Era buona come un angelo la sua mamma. Ha fatto una morte santa, mi creda.»
Sorriso.
«Almeno non è una Bibbia.»
Teresa guarda storto suo marito. «La signora era atea.»
«Certo che negli ultimi tempi avete perso parecchi clienti alla tua clinica.»
«Tutti pazienti anziani. È normale.»
«E quel ragazzo? Quello di una decina di giorni fa…»
Teresa sbuffa, apre il frigorifero e controlla il cassetto della verdura: quattro zucchine e due carote. Solleva lo sguardo al ripiano superiore dove occhieggia un quarto di pecorino stagionato. La cena è assicurata. Ora può rispondere a suo marito.
«Era pieno di metastasi, poveretto. Ha avuto fortuna ad andarsene così, quasi senza accorgersene. Non hai idea di quanto facciano soffrire certe terapie. Vieni a tavola, dai.»
La serranda semi aperta lascia filtrare dai vetri gli ultimi raggi della fredda giornata invernale e le pareti della camera si tingono di un arancione vivido che contrasta col pallore del paziente. Riconosce la bisaccia posata sulla sedia. Sente il battito accelerare.
Gli hanno fatto la barba, lo hanno lavato, ma, anche se sono trascorsi molti anni, è sicura che sia proprio il suo Bernard Show.
Nella cartella non c’è il nome: non aveva documenti.
L’uomo borbotta qualcosa d’incomprensibile.
«Ciao. Mi riconosci?»
Silenzio.
Lei, allora si avvicina e gli sussurra: «Ti ringrazio per avermi dato il tuo quaderno. Mi ha cambiato la vita, sai?»
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Si volta, la fissa con gli occhi acquosi. [/font]
«Voglio morire... aiutami.» le dice con un filo di voce.
La richiesta è come un lampo che squarcia il buio all’improvviso. Una galleria di volti si affaccia alla memoria. Certo, ne ha aiutati tanti ad andarsene, anche se loro non glielo avevano chiesto. Ma erano andati via felici, senza soffrire. Ne era sicura. Si è fatta notare, è stata brava, tutti la stimano. Sua madre aveva torto a giudicarla male. Non aveva fiducia in lei, ma quello sconosciuto no… Lui l’aveva davvero aiutata e ora avrebbe dovuto ricambiare.
Consapevolezza. Crollo verticale. Perdere Bernard sarebbe come staccarsi dalla parete di una roccia scalata a mani nude e trovare di nuovo il precipizio.
Si avvicina alla finestra e osserva il cielo mentre si spegne. Immaginare Bertrand vivo da qualche parte le ha sempre dato forza. Un giorno lo avrebbe incontrato di nuovo, di questo era certa, ma non doveva succedere in questa camera. Non così.
Forse sua madre aveva ragione: fare l’infermiera non era una professione adatta a lei. Forse era davvero malata…
Lo guarda, allarga le braccia e gli dice: «Non posso farlo… Scusami.»
L’allarme risuona intermittente nel corridoio.
«Dottore, lo salverà, vero?»
Nell’ufficio della dottoressa Landi non ci sono finestre, la luce artificiale è fredda e l’aria è di piombo. Indossa gli occhiali, Apre la busta e legge sottovoce la lettera seguendo le parole con l’indice.
Teresa chiude l’armadietto e, abbandonato il camice sulla sedia, esce senza voltarsi indietro.