[CN24] Fiaba d'inverno
Posted: Sat Jan 04, 2025 6:18 pm
Pacco n8 – Colpo di scena
Voleva un Natale ai Caraibi, Laura, come nei film dei Vanzina, ma lui aveva prenotato la sorpresa: Finlandia, anzi di più: Lapponia. Non c’è da stupirsi che l’abbia mollato ancora prima di partire.
E adesso eccolo lì, Marco Strambelli, della Strambelli Mangimi- Zootecnia di qualità, che arrancava nella tormenta con la neve fino alle ginocchia, dietro a un biondo belloccio che si faceva chiamare Valdo.
«Ti ci porto io a Rovaniemi. E ti assicuro che non te la scordi più.»
Perché mai avesse accettato di salire su quel fuoristrada sgangherato, resterà per sempre un mistero.
«Niente circuito turistico» aveva detto il biondo con una gran pacca sulla spalla. «Ti faccio fare un giro speciale».
Il che aveva significato, dopo nemmeno un centinaio di chilometri, assistere all’agonia e poi al decesso del motore, più o meno al centro del nulla.
«Dobbiamo proseguire a piedi» fece Valdo, prese gli zaini dal portabagagli e si incamminò.
Proseguire per dove? Ovunque guardasse c’era solo bianco e foresta.
«Le vedi quelle luci?» disse Valdo.
Con gli occhi trafitti dal gelo, vedere era una parola grossa.
«Quanto dovremo camminare?» chiese Marco.
«Poco, saranno sette, massimo otto chilometri.»
Va bene. Moriremo.
Invece arrivarono a Maan Loppu, che in finlandese significa qualcosa come Fine della Terra.
Un villaggio di case basse col tetto spiovente, agghindato di lucine sorridenti, che a Marco sembrò il posto più bello del mondo, non tanto per l’aspetto, quanto per il tepore carezzevole del Musta Hirvi, che sarebbe Cervo Nero, locanda, bar, emporio, praticamente l’unico negozio del paese.
«Ah,Valdo, toit ystävän!» disse un donnone biondo dal bancone.
«Hän on italialainen» fece quello.
Marco sorrideva con aria ebete. Aveva capito solo che parlavano di lui. Ne ebbe la conferma quando la donna posò la tazza che stava asciugando e gli tese la mano: «Italia, che bello paese! Tanto piacere. Sono Kasia.»
«Marco. Anche lei parla italiano. È per via del turismo, immagino.»
«Oh, no. Qui non ci arrivano tanto.»
«È colpa mia» disse una voce, e dalle scale scese un uomo che pareva Babbo Natale in borghese. «Cioè di mia madre. Lei era italiana. Ciao, sono Heimo, il suocero di questa bella signora.»
In quel momento la porta si spalancò e una folata di vento gelido spinse dentro una donna.
Kasia aggrottò la fronte: «Anja, mikä on?» disse. E iniziò un parlottio serrato che, a giudicare da quello che passava dagli scaffali al bancone, doveva riguardare salsa di mirtillo, aringhe affumicate e formaggio. Ma anche qualcosa che non c’era e che in breve scatenò una crisi di pianto.
Marco guardò Heimo interdetto. Devono tenerci molto alla gastronomia.
«Non sono tornati» fece lui con aria grave. «Diglielo, Kasia, dille che va tutto bene, che sarebbero sciocchi a mettersi in cammino con questa bufera, che avranno trovato riparo da qualche parte.»
«Gliel’ho detto, ma non serve. Sono tornati solo i cani. Non l’avrebbero fatto se non fosse successo qualcosa.»
Anja singhiozzava ormai senza ritegno, poi si accorse di Marco. Tirò su col naso e abbozzò un sorriso: « Voi muukalainen! Mitä sinä teet täällä, rakas?»
Kasia le disse qualcosa e lei: «Ah, italialainen!» E riprese a piangere. Mise la spesa in un borsone, pagò e uscì.
«In quanti sono fuori?» chiese Valdo.
«Ma che domanda è?» fece Heimo irritato. «Tutti.»
«Eh già. Caccia al cervo, caro Marco» disse l’altro. «Alla brace, al forno, affumicato, non sarebbe Natale senza.»
Kasia gli lanciò un’occhiata risentita. Perché sei qui? Perché tu invece del mio Petri? Perché non torna? E mentre si faceva queste domande, prendeva i bicchieri dallo scaffale e li disponeva sul vassoio. Un bicchiere una domanda, una domanda, un bicchiere. Finché furono troppi e crollarono a terra.
Lei non disse una parola. Guardava i cocci mentre le lacrime le bagnavano il viso.
Heimo la raggiunse, scrutò il pavimento, si chinò e riemerse con quattro bicchieri: «Questi ce l’hanno fatta. Non tutti, ma questi sì.» Prese una bottiglia dallo scaffale e spinse delicatamente Kasia verso i tavoli. «Adesso cerchiamo di stare tranquilli» disse riempiendo i bicchieri. «Prendi, Marco. Scommetto che non l’hai mai assaggiata.»
Lui dette una sorsata, sgranò gli occhi e diventò paonazzo.
«Ti piace?» chiese Valdo sornione.
L’altro annuì: «Un po’ fortina…»
«Ma no, che fortina. Sono solo quaranta gradi.»
«Ah ecco. La fate con l’antigelo?»
«No, è Kossu» fece Heimo. «Oggi la fanno con l’orzo, ma qui usiamo ancora le patate.»
In quel momento, dalle scale precipitò un orso di pezza e subito dietro, il rumore di piedi piccoli che saltavano da un gradino all’altro.
«Io glielo avevo detto che non poteva volare» disse il bambino. «Ma lui non mi ha dato retta.»
Quattro, massimo cinque anni, paffutello e, manco a dirlo, biondo, si fermò col pupazzo in braccio a scrutare lo straniero. «Tu non sei Joulupukki.»
«No, non è Babbo Natale» disse Kasia. «È un ospite e dobbiamo essere gentili con lui.»
«Gentili quanto?»
«Tutto il possibile. Tanto per cominciare potresti salutarlo.»
«Con la mano e tutto il resto?»
Kasia annuì e il bambino si avvicinò col braccio teso: «Tanto piacere, io sono Uljas.»
«Ciao, io sono Marco. Come sta il tuo amico?» disse indicando l’orso.
«Non si è fatto niente, però vado a medicarlo lo stesso. Non si sa mai.» E corse su per le scale.
Rimasti soli, Kasia si incupì di nuovo: «Dovevano tornare ieri» disse tetra.
«Tranquilla» fece Heimo. «Lo faranno appena finisce la tormenta.»
«Dobbiamo solo aspettare» disse Valdo riempiendo il bicchiere.
«Ma aspettare cosa?» inveì lei strappandogli la bottiglia di mano. «No, io vado a cercarli» disse e corse verso l’attaccapanni.
Heimo l’afferrò per un braccio: « Fermati. Non fare sciocchezze. Ti dico di aspettare. Se domani non sono qui, andremo noi.»
«Voi, ma voi chi? Al villaggio sono rimaste solo le donne e… quelli come te.»
«Come me, cosa?»
«Vecchi, Heimo. Vecchi! E secondo te, cinque, sei vecchi sono meglio di dieci donne? No, spiegamelo, che proprio non lo capisco!»
Heimo abbassò gli occhi: «Non sono meglio, ma se ne può fare a meno» disse sottovoce. «Le donne invece devono restare.» Le prese il viso tra le mani: «Per i bambini, Kasia. I bambini, capisci?»
Lei lasciò cadere il giaccone per terra e tornò a sedersi. «Domani. Solo fino a domani.»
«Certo.»
«Vengo anch’io» fece Marco. «Un uomo in più può essere utile.»
«Va bene, ma devi restare col gruppo. Non sai niente di questi posti e se ti cacci nei guai dovremmo occuparci anche di te.»
«Tranquillo, non creerò alcun problema.»
Heimo si girò a guardare Valdo che, fronte aggrottata e labbra strette, armeggiava con tabacco e cartine. Mai stato capace di rollarsene una senza fare un pollaio. «E tu?»
«Ci vengo, ci vengo. Se non altro per sgranchirmi le gambe.» E nel dirlo, cartina e tabacco gli scapparono di mano. «Vittu!!» grugnì.
«Bene, allora comincia subito. Fatti una corsetta e avvertili tutti. Jorma, Alvar, Kaleva, Taneli, tutti, hai capito?»
«Pure Olavi?»
«Olavi è zoppo. Vuoi portartelo in braccio?»
«Va bene, tutti meno Olavi.»
Il giorno seguente il villaggio si svegliò nel silenzio. Mute le case e la foresta, muto il vento, il cielo e mute le stelle.
Kasia non aveva chiuso occhio. Tutta la notte sue giù, dal bancone alla porta. La socchiudeva, sporgeva fuori la testa, pregando di sentire il bramito di Petri, sperando di dirgli ancora che era scemo a fare quel verso.
«È il canto d’amore del cervo reale» le diceva ogni volta. Chiudeva il fucile nello stipo, l’afferrava per la vita e la baciava da toglierle il fiato.
Invece no. Nessun canto, nessun rumore. Nessun Petri.
A metà mattina cominciò il viavai delle donne. Farina di segale, pesce, maiale salato, si dovrà pur cucinare, è quasi Natale. E poi torneranno. Torneranno coi cervi. Torneranno di sicuro.
Si fece scuro, poi notte, poi ancora chiaro. E sempre silenzio.
I vecchi si radunarono davanti alla porta e aspettarono. Non lo avevano mai fatto, dopotutto era un bar. Ma era un giorno speciale e quella adesso era solo la casa di Petri.
Dopo poco Heimo li fece entrare.
Kasia fece trovare a tutti pane appena sfornato, burro salato, prosciutto e formaggi.
Mangiarono parlottando sottovoce, poi si alzarono, salutarono con un sorriso e uscirono.
«Cerca di stare tranquilla» le disse Heimo. «Andrà tutto bene.»
Lei gli accarezzò la barba e lo guardò allontanarsi con gli altri sul sentiero innevato.
Per tutto il giorno Kasia si dette da fare. Mettere ordine. Senza fermarsi. Ordine al mondo, ai pensieri, all’ansia che si cacciava dappertutto, prepotente e sempre fuori posto.
A sera i vecchi tornarono. Loro soltanto. A passi lenti, con lo stesso silenzio di quando erano partiti.
All’improvviso un urlo.
«È Anja!» disse Kasia. Fece per correre da lei e quasi inciampò in qualcosa davanti alla porta.
Un pacco, avvolto in un telo di iuta. Chi? Come? Si guardò intorno per capire e vide che ogni casa, vicino alla sua, ne aveva davanti uno identico.
«I regali! I regali!» gridò Uljas dalla finestra. Un attimo ed era già fuori, ancora in pigiama, lui e tutti i bambini del villaggio, tutti per strada, ridendo e gridando: «È passato Joulupukki!»
Uljas si chinò per sollevarlo, ma quello pesava e gli cadde per terra.«Aiutami, nonno!»
Heimo guardò il pacco e impallidì. «Fermo!» tuonò. «Fermatevi tutti! Portate i bambini in casa, che nessuno esca!»
«Ma come, perché?» piagnucolò Uljas, mentre Kasia lo prendeva in braccio e lo portava dentro.
Il pacco era lì. Dall’ammaccatura usciva qualcosa che si allargava e arrossava la neve.
«Cos’è? Sembra…» disse Marco e non riuscì a finire la frase.
«Forse dovremmo aprirlo» sussurrò Valdo col tono di chi non lo farebbe manco pagato.
In quel momento un altro urlo. Veniva dalla casa di Tanja. E poi un altro dalla parte di Matleena. E un altro ancora. E poi trambusto, agitazione, voci disperate.
Poi nulla.
Kaleva si avvicinò a Heimo e gli mise una mano sulla spalla.
«È come penso, vero?» fece quello indicando la chiazza nella neve.
Kaleva chiuse gli occhi e annuì.
E allora Kasia, che aveva guardato dalla porta socchiusa, emise un urlo acutissimo «Nooo!» Si precipitò fuori, afferrò i lembi del pacco, li strappò, lacerò, squarciò. E alla fine restò impietrita, con gli occhi sgranati a fissare quello che c’era dentro.
Gli abiti di Petri. Le scarpe di Petri. Il cappello di Petri.
Il sangue di Petri.
In piedi, appoggiato al bancone, Heimo guardava la piccola folla assiepata nel bar. I volti sgomenti, le lacrime silenziose. C’erano tutti.
«Bene, metà del villaggio ha ricevuto quel dono terribile. A questo punto è chiaro che i nostri ragazzi non sono stati fermati dalla tormenta, ma dalla mano di un mostro assassino. È molto probabile che torni a completare l’opera. Dobbiamo fermarlo.»
«Ma come?» fece una voce dal fondo.
«Ci apposteremo e aspetteremo tutto il tempo che serve. Tornerà e noi lo prenderemo.»
Notte di giaccio. Luna di ghiaccio. Il vento sussurrava tra i rami.
Marco, rannicchiato dietro una catasta di legna. Giaccone, cappuccio di pelo, guanti, scarponi, i cuscini di noccioli caldi nelle tasche, legati al petto e al torace. Inutile, morirà lo stesso. Eppure, per niente al mondo avrebbe voluto essere altrove.
All’improvviso un fruscio. Si sporse cauto e lo vide. Lui, il mostro assassino davanti alla casa di Hilla, pronto a fare un’altra consegna.
Scattò in piedi, urtò la catasta di legna. «Fermati, maledetto!» e mentre gridava queste parole, i pensieri gli si affollavano in testa: Ma che uomo è uno che fa quest’orrore a Natale?
Che il postino impegnato a trascinare il pesante sacco di juta fosse un uomo non era affatto scontato. E infatti quando si girò e strappò la barba posticcia comparve il viso di una ragazza bellissima dagli occhi color verde smeraldo.
Cuore di ghiaccio, Marco riuscì solo a guardarla correre via e sparire nel folto della foresta.
«Hai fatto quello che potevi» gli disse Heimo. «Adesso cerchiamo di riposare. Domani penseremo al da farsi.»
Sonno di pietra. Notte agitata.
Sognò di correre in mezzo alla foresta, a perdifiato, fino alle rive di un lago. Sognò di continuare a camminare nell’acqua smeraldina, come gli occhi della ragazza. Sognò che, ad ogni passo, sentiva il cuore riempirsi di un dolore così profondo da farlo piangere, urlare. E implorare perdono. Sognò. E l’indomani, quando scese per colazione, era stremato come avesse corso davvero tutta la notte. Come avesse pianto davvero.
In cucina Heimo era in piedi davanti alla finestra.
«Bongiorno» disse Kasia, ma dal tono si capiva che non lo era per niente. Mise il latte a scaldare, riempì un piatto di biscotti allo zenzero e nascose un singhiozzo dentro un fazzoletto.
«Che succede?» chiese Marco.
«Ha preso Uljas» disse il vecchio con aria cupa.
«Come? Chi?» Domanda stupida. E subito un’altra, ancora più stupida: «Qualcuno è andato a cercarlo?» Poi finalmente qualcosa di sensato.
L’immagine di quegli occhi smeraldini, pieni di lacrime come le acque del lago. Come quelli di Kasia. «Lo so io dov’è» disse.
«Come lo sai?» fece Heimo «Sei appena sceso dal letto.»
«Credimi, lo so.»
«E allora andiamo!»
«No. Devo farlo da solo» disse risoluto.
Trovò il lago senza fatica, appena oltre la foresta. Come lo conoscesse, come ci fosse già stato mille volte. Come l’avesse sognato tutta la notte.
E sulla riva, la ragazza e Uljas. Seduti, a chiacchierare placidamente. Come si conoscessero. Come l’avessero già fatto mille volte.
Sentendolo arrivare, lei si girò e gli sorrise: «Vieni, siediti con noi. C’è ancora un po’ di succo di mirtillo caldo.»
Restarono così, a guardare gli alberi specchiarsi sull’acqua ghiacciata.
«È bello qui, non trovi?»
Marco annuì e poi: «Devo chiedertelo.»
«Lo so» disse lei. Fece un gran respiro e cominciò a raccontare.
Gli disse che quella era la sua casa, come Maan Loppu lo era per Uljas, ma che ormai non era rimasto quasi più niente. Solo lacrime e dolore.
«E lo sai perché?» disse con voce rotta. «Per puro piacere.»
«Non è possibile! Chi può essere così crudele?»
«Siamo animali, tutti. Ma il più spietato è l’uomo. Mi chiedi il perché di tutto quell’orrore? Vi ho soltanto restituito la stessa malvagità che ci avete insegnato.»
«Ma no, la gente di qui non è cattiva, credimi!»
«Lo pensi davvero? Li hai mai guardati negli occhi quando imbracciano un fucile, quando prendono la mira… quando sparano e portano a casa la preda? Li hai mai guardati?» E mentre lo diceva, la sua pelle di seta si ricopriva di un manto ambrato e lucente, il volto si allungava fino a diventare il muso grazioso di una cerva. «Cosa pensi che faranno i tuoi amici quando vedranno questo?»
Marco non credeva ai suoi occhi.
«Lo sapevo, lo sapevo che eri magica!» gridava Uljas felice.
«Tutti lo siamo» disse lei. «Solo che voi l’avete dimenticato.»
Ad un tratto Marco scattò in piedi: «Ho un’idea. Ti fidi di me?»
«Nemmeno un po’» disse lei.
«Perfetto. Allora adesso torneremo al villaggio, ma voi due resterete indietro. Mi darete qualche minuto di vantaggio e poi vi farete vedere. E tu Uljas, mi raccomando, stalle vicino.»
«Vicino quanto? Così?» disse mettendole una manina sul dorso.
«Esattamente. Non devi allontanarti nemmeno di un passo.»
«E papà? Può venire anche lui?»
«Beh… veramente…»
«Certo che può venire» fece lei. «A patto che si comporti bene.»
«Ma come? Allora non…»
«I pacchi dici? Oh, un trucchetto da poco. Magari un giorno ti spiego come si fa.»
«Un trucchetto?»
«Ma sì, più o meno come questo.» E in quel momento, dal lago, emersero gli uomini. Sorridenti, eppure spaesati come li avessero svegliati nel cuore della notte.
«Non ci credo» disse Marco. «E sono persino asciutti!»
«Ecco, quello è stato un filino più complicato» fece lei sorridendo. «Andiamo?»
A questo punto si potrebbe narrare di baci, abbracci, discussioni, concessioni e ripicche. In sostanza di come la gente affrontò la questione.
Si potrebbe, ma discutere di caccia coi cacciatori è come spalare acqua con un forcone.
Vi basti sapere che da allora a Maan Loppu, a Natale, le tavole si riempiono di ogni ben di Dio.
Ma non cervo arrosto.
C’è da chiedersi come l’abbiano presa le renne. Ancora uccise, cucinate, appese come trofeo nei salotti delle case per bene.
Una in particolare.
Con gli occhi verde smeraldo.
Voleva un Natale ai Caraibi, Laura, come nei film dei Vanzina, ma lui aveva prenotato la sorpresa: Finlandia, anzi di più: Lapponia. Non c’è da stupirsi che l’abbia mollato ancora prima di partire.
E adesso eccolo lì, Marco Strambelli, della Strambelli Mangimi- Zootecnia di qualità, che arrancava nella tormenta con la neve fino alle ginocchia, dietro a un biondo belloccio che si faceva chiamare Valdo.
«Ti ci porto io a Rovaniemi. E ti assicuro che non te la scordi più.»
Perché mai avesse accettato di salire su quel fuoristrada sgangherato, resterà per sempre un mistero.
«Niente circuito turistico» aveva detto il biondo con una gran pacca sulla spalla. «Ti faccio fare un giro speciale».
Il che aveva significato, dopo nemmeno un centinaio di chilometri, assistere all’agonia e poi al decesso del motore, più o meno al centro del nulla.
«Dobbiamo proseguire a piedi» fece Valdo, prese gli zaini dal portabagagli e si incamminò.
Proseguire per dove? Ovunque guardasse c’era solo bianco e foresta.
«Le vedi quelle luci?» disse Valdo.
Con gli occhi trafitti dal gelo, vedere era una parola grossa.
«Quanto dovremo camminare?» chiese Marco.
«Poco, saranno sette, massimo otto chilometri.»
Va bene. Moriremo.
Invece arrivarono a Maan Loppu, che in finlandese significa qualcosa come Fine della Terra.
Un villaggio di case basse col tetto spiovente, agghindato di lucine sorridenti, che a Marco sembrò il posto più bello del mondo, non tanto per l’aspetto, quanto per il tepore carezzevole del Musta Hirvi, che sarebbe Cervo Nero, locanda, bar, emporio, praticamente l’unico negozio del paese.
«Ah,Valdo, toit ystävän!» disse un donnone biondo dal bancone.
«Hän on italialainen» fece quello.
Marco sorrideva con aria ebete. Aveva capito solo che parlavano di lui. Ne ebbe la conferma quando la donna posò la tazza che stava asciugando e gli tese la mano: «Italia, che bello paese! Tanto piacere. Sono Kasia.»
«Marco. Anche lei parla italiano. È per via del turismo, immagino.»
«Oh, no. Qui non ci arrivano tanto.»
«È colpa mia» disse una voce, e dalle scale scese un uomo che pareva Babbo Natale in borghese. «Cioè di mia madre. Lei era italiana. Ciao, sono Heimo, il suocero di questa bella signora.»
In quel momento la porta si spalancò e una folata di vento gelido spinse dentro una donna.
Kasia aggrottò la fronte: «Anja, mikä on?» disse. E iniziò un parlottio serrato che, a giudicare da quello che passava dagli scaffali al bancone, doveva riguardare salsa di mirtillo, aringhe affumicate e formaggio. Ma anche qualcosa che non c’era e che in breve scatenò una crisi di pianto.
Marco guardò Heimo interdetto. Devono tenerci molto alla gastronomia.
«Non sono tornati» fece lui con aria grave. «Diglielo, Kasia, dille che va tutto bene, che sarebbero sciocchi a mettersi in cammino con questa bufera, che avranno trovato riparo da qualche parte.»
«Gliel’ho detto, ma non serve. Sono tornati solo i cani. Non l’avrebbero fatto se non fosse successo qualcosa.»
Anja singhiozzava ormai senza ritegno, poi si accorse di Marco. Tirò su col naso e abbozzò un sorriso: « Voi muukalainen! Mitä sinä teet täällä, rakas?»
Kasia le disse qualcosa e lei: «Ah, italialainen!» E riprese a piangere. Mise la spesa in un borsone, pagò e uscì.
«In quanti sono fuori?» chiese Valdo.
«Ma che domanda è?» fece Heimo irritato. «Tutti.»
«Eh già. Caccia al cervo, caro Marco» disse l’altro. «Alla brace, al forno, affumicato, non sarebbe Natale senza.»
Kasia gli lanciò un’occhiata risentita. Perché sei qui? Perché tu invece del mio Petri? Perché non torna? E mentre si faceva queste domande, prendeva i bicchieri dallo scaffale e li disponeva sul vassoio. Un bicchiere una domanda, una domanda, un bicchiere. Finché furono troppi e crollarono a terra.
Lei non disse una parola. Guardava i cocci mentre le lacrime le bagnavano il viso.
Heimo la raggiunse, scrutò il pavimento, si chinò e riemerse con quattro bicchieri: «Questi ce l’hanno fatta. Non tutti, ma questi sì.» Prese una bottiglia dallo scaffale e spinse delicatamente Kasia verso i tavoli. «Adesso cerchiamo di stare tranquilli» disse riempiendo i bicchieri. «Prendi, Marco. Scommetto che non l’hai mai assaggiata.»
Lui dette una sorsata, sgranò gli occhi e diventò paonazzo.
«Ti piace?» chiese Valdo sornione.
L’altro annuì: «Un po’ fortina…»
«Ma no, che fortina. Sono solo quaranta gradi.»
«Ah ecco. La fate con l’antigelo?»
«No, è Kossu» fece Heimo. «Oggi la fanno con l’orzo, ma qui usiamo ancora le patate.»
In quel momento, dalle scale precipitò un orso di pezza e subito dietro, il rumore di piedi piccoli che saltavano da un gradino all’altro.
«Io glielo avevo detto che non poteva volare» disse il bambino. «Ma lui non mi ha dato retta.»
Quattro, massimo cinque anni, paffutello e, manco a dirlo, biondo, si fermò col pupazzo in braccio a scrutare lo straniero. «Tu non sei Joulupukki.»
«No, non è Babbo Natale» disse Kasia. «È un ospite e dobbiamo essere gentili con lui.»
«Gentili quanto?»
«Tutto il possibile. Tanto per cominciare potresti salutarlo.»
«Con la mano e tutto il resto?»
Kasia annuì e il bambino si avvicinò col braccio teso: «Tanto piacere, io sono Uljas.»
«Ciao, io sono Marco. Come sta il tuo amico?» disse indicando l’orso.
«Non si è fatto niente, però vado a medicarlo lo stesso. Non si sa mai.» E corse su per le scale.
Rimasti soli, Kasia si incupì di nuovo: «Dovevano tornare ieri» disse tetra.
«Tranquilla» fece Heimo. «Lo faranno appena finisce la tormenta.»
«Dobbiamo solo aspettare» disse Valdo riempiendo il bicchiere.
«Ma aspettare cosa?» inveì lei strappandogli la bottiglia di mano. «No, io vado a cercarli» disse e corse verso l’attaccapanni.
Heimo l’afferrò per un braccio: « Fermati. Non fare sciocchezze. Ti dico di aspettare. Se domani non sono qui, andremo noi.»
«Voi, ma voi chi? Al villaggio sono rimaste solo le donne e… quelli come te.»
«Come me, cosa?»
«Vecchi, Heimo. Vecchi! E secondo te, cinque, sei vecchi sono meglio di dieci donne? No, spiegamelo, che proprio non lo capisco!»
Heimo abbassò gli occhi: «Non sono meglio, ma se ne può fare a meno» disse sottovoce. «Le donne invece devono restare.» Le prese il viso tra le mani: «Per i bambini, Kasia. I bambini, capisci?»
Lei lasciò cadere il giaccone per terra e tornò a sedersi. «Domani. Solo fino a domani.»
«Certo.»
«Vengo anch’io» fece Marco. «Un uomo in più può essere utile.»
«Va bene, ma devi restare col gruppo. Non sai niente di questi posti e se ti cacci nei guai dovremmo occuparci anche di te.»
«Tranquillo, non creerò alcun problema.»
Heimo si girò a guardare Valdo che, fronte aggrottata e labbra strette, armeggiava con tabacco e cartine. Mai stato capace di rollarsene una senza fare un pollaio. «E tu?»
«Ci vengo, ci vengo. Se non altro per sgranchirmi le gambe.» E nel dirlo, cartina e tabacco gli scapparono di mano. «Vittu!!» grugnì.
«Bene, allora comincia subito. Fatti una corsetta e avvertili tutti. Jorma, Alvar, Kaleva, Taneli, tutti, hai capito?»
«Pure Olavi?»
«Olavi è zoppo. Vuoi portartelo in braccio?»
«Va bene, tutti meno Olavi.»
Il giorno seguente il villaggio si svegliò nel silenzio. Mute le case e la foresta, muto il vento, il cielo e mute le stelle.
Kasia non aveva chiuso occhio. Tutta la notte sue giù, dal bancone alla porta. La socchiudeva, sporgeva fuori la testa, pregando di sentire il bramito di Petri, sperando di dirgli ancora che era scemo a fare quel verso.
«È il canto d’amore del cervo reale» le diceva ogni volta. Chiudeva il fucile nello stipo, l’afferrava per la vita e la baciava da toglierle il fiato.
Invece no. Nessun canto, nessun rumore. Nessun Petri.
A metà mattina cominciò il viavai delle donne. Farina di segale, pesce, maiale salato, si dovrà pur cucinare, è quasi Natale. E poi torneranno. Torneranno coi cervi. Torneranno di sicuro.
Si fece scuro, poi notte, poi ancora chiaro. E sempre silenzio.
I vecchi si radunarono davanti alla porta e aspettarono. Non lo avevano mai fatto, dopotutto era un bar. Ma era un giorno speciale e quella adesso era solo la casa di Petri.
Dopo poco Heimo li fece entrare.
Kasia fece trovare a tutti pane appena sfornato, burro salato, prosciutto e formaggi.
Mangiarono parlottando sottovoce, poi si alzarono, salutarono con un sorriso e uscirono.
«Cerca di stare tranquilla» le disse Heimo. «Andrà tutto bene.»
Lei gli accarezzò la barba e lo guardò allontanarsi con gli altri sul sentiero innevato.
Per tutto il giorno Kasia si dette da fare. Mettere ordine. Senza fermarsi. Ordine al mondo, ai pensieri, all’ansia che si cacciava dappertutto, prepotente e sempre fuori posto.
A sera i vecchi tornarono. Loro soltanto. A passi lenti, con lo stesso silenzio di quando erano partiti.
All’improvviso un urlo.
«È Anja!» disse Kasia. Fece per correre da lei e quasi inciampò in qualcosa davanti alla porta.
Un pacco, avvolto in un telo di iuta. Chi? Come? Si guardò intorno per capire e vide che ogni casa, vicino alla sua, ne aveva davanti uno identico.
«I regali! I regali!» gridò Uljas dalla finestra. Un attimo ed era già fuori, ancora in pigiama, lui e tutti i bambini del villaggio, tutti per strada, ridendo e gridando: «È passato Joulupukki!»
Uljas si chinò per sollevarlo, ma quello pesava e gli cadde per terra.«Aiutami, nonno!»
Heimo guardò il pacco e impallidì. «Fermo!» tuonò. «Fermatevi tutti! Portate i bambini in casa, che nessuno esca!»
«Ma come, perché?» piagnucolò Uljas, mentre Kasia lo prendeva in braccio e lo portava dentro.
Il pacco era lì. Dall’ammaccatura usciva qualcosa che si allargava e arrossava la neve.
«Cos’è? Sembra…» disse Marco e non riuscì a finire la frase.
«Forse dovremmo aprirlo» sussurrò Valdo col tono di chi non lo farebbe manco pagato.
In quel momento un altro urlo. Veniva dalla casa di Tanja. E poi un altro dalla parte di Matleena. E un altro ancora. E poi trambusto, agitazione, voci disperate.
Poi nulla.
Kaleva si avvicinò a Heimo e gli mise una mano sulla spalla.
«È come penso, vero?» fece quello indicando la chiazza nella neve.
Kaleva chiuse gli occhi e annuì.
E allora Kasia, che aveva guardato dalla porta socchiusa, emise un urlo acutissimo «Nooo!» Si precipitò fuori, afferrò i lembi del pacco, li strappò, lacerò, squarciò. E alla fine restò impietrita, con gli occhi sgranati a fissare quello che c’era dentro.
Gli abiti di Petri. Le scarpe di Petri. Il cappello di Petri.
Il sangue di Petri.
In piedi, appoggiato al bancone, Heimo guardava la piccola folla assiepata nel bar. I volti sgomenti, le lacrime silenziose. C’erano tutti.
«Bene, metà del villaggio ha ricevuto quel dono terribile. A questo punto è chiaro che i nostri ragazzi non sono stati fermati dalla tormenta, ma dalla mano di un mostro assassino. È molto probabile che torni a completare l’opera. Dobbiamo fermarlo.»
«Ma come?» fece una voce dal fondo.
«Ci apposteremo e aspetteremo tutto il tempo che serve. Tornerà e noi lo prenderemo.»
Notte di giaccio. Luna di ghiaccio. Il vento sussurrava tra i rami.
Marco, rannicchiato dietro una catasta di legna. Giaccone, cappuccio di pelo, guanti, scarponi, i cuscini di noccioli caldi nelle tasche, legati al petto e al torace. Inutile, morirà lo stesso. Eppure, per niente al mondo avrebbe voluto essere altrove.
All’improvviso un fruscio. Si sporse cauto e lo vide. Lui, il mostro assassino davanti alla casa di Hilla, pronto a fare un’altra consegna.
Scattò in piedi, urtò la catasta di legna. «Fermati, maledetto!» e mentre gridava queste parole, i pensieri gli si affollavano in testa: Ma che uomo è uno che fa quest’orrore a Natale?
Che il postino impegnato a trascinare il pesante sacco di juta fosse un uomo non era affatto scontato. E infatti quando si girò e strappò la barba posticcia comparve il viso di una ragazza bellissima dagli occhi color verde smeraldo.
Cuore di ghiaccio, Marco riuscì solo a guardarla correre via e sparire nel folto della foresta.
«Hai fatto quello che potevi» gli disse Heimo. «Adesso cerchiamo di riposare. Domani penseremo al da farsi.»
Sonno di pietra. Notte agitata.
Sognò di correre in mezzo alla foresta, a perdifiato, fino alle rive di un lago. Sognò di continuare a camminare nell’acqua smeraldina, come gli occhi della ragazza. Sognò che, ad ogni passo, sentiva il cuore riempirsi di un dolore così profondo da farlo piangere, urlare. E implorare perdono. Sognò. E l’indomani, quando scese per colazione, era stremato come avesse corso davvero tutta la notte. Come avesse pianto davvero.
In cucina Heimo era in piedi davanti alla finestra.
«Bongiorno» disse Kasia, ma dal tono si capiva che non lo era per niente. Mise il latte a scaldare, riempì un piatto di biscotti allo zenzero e nascose un singhiozzo dentro un fazzoletto.
«Che succede?» chiese Marco.
«Ha preso Uljas» disse il vecchio con aria cupa.
«Come? Chi?» Domanda stupida. E subito un’altra, ancora più stupida: «Qualcuno è andato a cercarlo?» Poi finalmente qualcosa di sensato.
L’immagine di quegli occhi smeraldini, pieni di lacrime come le acque del lago. Come quelli di Kasia. «Lo so io dov’è» disse.
«Come lo sai?» fece Heimo «Sei appena sceso dal letto.»
«Credimi, lo so.»
«E allora andiamo!»
«No. Devo farlo da solo» disse risoluto.
Trovò il lago senza fatica, appena oltre la foresta. Come lo conoscesse, come ci fosse già stato mille volte. Come l’avesse sognato tutta la notte.
E sulla riva, la ragazza e Uljas. Seduti, a chiacchierare placidamente. Come si conoscessero. Come l’avessero già fatto mille volte.
Sentendolo arrivare, lei si girò e gli sorrise: «Vieni, siediti con noi. C’è ancora un po’ di succo di mirtillo caldo.»
Restarono così, a guardare gli alberi specchiarsi sull’acqua ghiacciata.
«È bello qui, non trovi?»
Marco annuì e poi: «Devo chiedertelo.»
«Lo so» disse lei. Fece un gran respiro e cominciò a raccontare.
Gli disse che quella era la sua casa, come Maan Loppu lo era per Uljas, ma che ormai non era rimasto quasi più niente. Solo lacrime e dolore.
«E lo sai perché?» disse con voce rotta. «Per puro piacere.»
«Non è possibile! Chi può essere così crudele?»
«Siamo animali, tutti. Ma il più spietato è l’uomo. Mi chiedi il perché di tutto quell’orrore? Vi ho soltanto restituito la stessa malvagità che ci avete insegnato.»
«Ma no, la gente di qui non è cattiva, credimi!»
«Lo pensi davvero? Li hai mai guardati negli occhi quando imbracciano un fucile, quando prendono la mira… quando sparano e portano a casa la preda? Li hai mai guardati?» E mentre lo diceva, la sua pelle di seta si ricopriva di un manto ambrato e lucente, il volto si allungava fino a diventare il muso grazioso di una cerva. «Cosa pensi che faranno i tuoi amici quando vedranno questo?»
Marco non credeva ai suoi occhi.
«Lo sapevo, lo sapevo che eri magica!» gridava Uljas felice.
«Tutti lo siamo» disse lei. «Solo che voi l’avete dimenticato.»
Ad un tratto Marco scattò in piedi: «Ho un’idea. Ti fidi di me?»
«Nemmeno un po’» disse lei.
«Perfetto. Allora adesso torneremo al villaggio, ma voi due resterete indietro. Mi darete qualche minuto di vantaggio e poi vi farete vedere. E tu Uljas, mi raccomando, stalle vicino.»
«Vicino quanto? Così?» disse mettendole una manina sul dorso.
«Esattamente. Non devi allontanarti nemmeno di un passo.»
«E papà? Può venire anche lui?»
«Beh… veramente…»
«Certo che può venire» fece lei. «A patto che si comporti bene.»
«Ma come? Allora non…»
«I pacchi dici? Oh, un trucchetto da poco. Magari un giorno ti spiego come si fa.»
«Un trucchetto?»
«Ma sì, più o meno come questo.» E in quel momento, dal lago, emersero gli uomini. Sorridenti, eppure spaesati come li avessero svegliati nel cuore della notte.
«Non ci credo» disse Marco. «E sono persino asciutti!»
«Ecco, quello è stato un filino più complicato» fece lei sorridendo. «Andiamo?»
A questo punto si potrebbe narrare di baci, abbracci, discussioni, concessioni e ripicche. In sostanza di come la gente affrontò la questione.
Si potrebbe, ma discutere di caccia coi cacciatori è come spalare acqua con un forcone.
Vi basti sapere che da allora a Maan Loppu, a Natale, le tavole si riempiono di ogni ben di Dio.
Ma non cervo arrosto.
C’è da chiedersi come l’abbiano presa le renne. Ancora uccise, cucinate, appese come trofeo nei salotti delle case per bene.
Una in particolare.
Con gli occhi verde smeraldo.